Tratto dall’archivio di “Nuovi Orizzonti Europei”
BIOGRAFIA
Nato a Perpignan il 31 Marzo 1909, orfano a 5 anni del padre, ufficiale caduto in combattimento nella battaglia di El Herri (a Parigi gli venne dedicata una strada) Brasillach, dopo il rinomato Liceo Louis-Le-Grand e la prestigiosa Scuola Normale Superiore, entrò giovanissimo nel mondo delle lettere. Iniziò così per lui una carriera letteraria di prim’ordine, disseminata di romanzi, poesie, testi teatrali, memorialisti, saggi, traduzioni. Attratto anch’egli, come gran parte delle giovani generazioni, dall’acceso nazionalismo predicato da L’Action Francaise, dal 1931 Brasillach comincia a scrivere sull’organo, omonimo, del movimento. Ed è nel novembre del medesimo anno che datano le due prime collaborazioni a Je suis partout, settimanale incandescente dai toni forti di cui, sei anni dopo, diverrà redattore capo. Qui darà vita a quell’équipe giornalistica che rimarrà caratterizzata per il grande senso di cameratismo, di complicità, di autentica amicizia che l’animava. Sarà però proprio all’opera di Brasillach in seno a Je suis partout, che Maurice Bardeche, prima amico, poi cognato ed infine apologeta del giovane redattore del giornale, farà risalire l’inizio delle sue disavventure. Dopo una breve sospensione delle pubblicazioni, con l’occupazione tedesca, Je suis partout diviene il giornale più oltranzista, il simbolo degli ultras parigini della Collaborazione. La testata di Je suis partout come la maggior parte dei suoi collaboratori nasce maurrasiana per spostarsi in seguito verso l’estrema destra. Brasillach ne diventa redattore capo solo pro forma, poiché chi guida veramente il settimanale e ne firma i fondi è Pierre Gaxotte, che sovrasta per età e rinomanza i Per due anni Robert scrive soltanto la rubrica “Lettres a une provinciale”, semplici articoli di polemica letteraria. Nasce tuttavia il pericoloso equivoco che, in un giornale tra i più violenti dei tempi dell’occupazione, dove ciascuno agisce di sua testa, il responsabile sia colui che, in effetti, è soltanto un segretario di redazione. L’indirizzo effettivo è quello esercitato da Gaxotte, che trova comodo delegare firma e responsabilità ad altri. Quando Robert vorrà chiarire l’equivoco di un’autorità senza potere nel Settembre 1943, sarà la rottura, che segna il suo passaggio ad altro settimanale, “Revolution nationale”, dove la sua firma si affianca a quella di Drieu La Rochelle, e non è certo una cauzione per il futuro. Ciò che durante l’occupazione poteva essere un merito, dall’Agosto del 1944, con la caduta di Parigi, diventa un marchio, e nelle diverse gradazioni dell’infamia primeggia quello di “collaborazionista”. Robert è nella lista. Ricattato moralmente tramite l’arresto della madre, il 14 Settembre 1944 poco dopo l’ingresso degli alleati di Parigi, Brasillach si consegna ai “liberatori”. Il 19 Gennaio inizia il suo processo; uno dei primi a carico degli intellettuali collaborazionisti. Al solito odi, invidie, gelosie letterarie e professionali, con conseguente desiderio di far fuori – in qualsiasi maniera – i confreres più dotati o più seguiti, non furono affatto estranei alle frenesie epurative, molto spesso scatenate proprio dagli intellettuali della controparte; sebbene non mancassero spaccature nei pubblici atteggiamenti da assumere nei confronti delle inquisizioni contro le intelligenze “vendute”. E mentre da una parte comunisti, quali Luis Aragon o Jean Paul Sartre proclamavano la linea dura ed intransigente (dimentichi forse entrambi di come, nonostante le idee avverse, fosse stato loro concesso di pubblicare tranquillamente libri o rappresentare commedie nella Francia “nazistificata”), dall’altra antifascisti quali Francois Mauriac o Jean Paulhan si adoperavano per una pacifica ricomposizione di quella guerra civile nella guerra civile. Scontato il verdetto che scaturì dal breve affrettato processo a Brasillach: condanna a morte. Viene fucilato il 6 Febbraio 1945 .
VERTEX TEATRO
Quando alcuni mesi or sono ci è stato chiesto di collaborare ad una serata in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Robert Brasillach, abbiamo accettato con entusiasmo di evocare le vicende della sua vita, il senso del suo impegno politico e soprattutto della sua tragica morte. Ma dovendo parlare delle sue scelte ideali che lo portarono a sentirsi idealmente vicino ai movimenti fascisti e, dopo la sconfitta della Francia nel secondo conflitto mondiale, al collaborazionismo e, a fine guerra, davanti al plotone d’esecuzione, non vorremmo provocare una lettura parziale della sua opera, fra le cui righe si sono solo cercati gli aspetti (sia da parte dei detrattori che degli apologeti) polemici, politici, militanti, lasciando in secondo piano la sua qualità artistica ed umana. Pensiamo invece a quello che gli avrebbe fatto piacere in una occasione come questa. Innanzitutto crediamo nella necessità di bandire ogni retorica e tristezza. Per chi ha una visione tradizionale della vita, la morte non è la fine assoluta, è la fine dell’esistenza in un certo stato per iniziarne una in uno stato diverso, dunque l’anniversario della morte corrisponde in un certo senso ad una festa di compleanno. Come rendere omaggio ad un amico in occasione del suo compleanno? Offrendogli cose che ama. Una delle grandi passioni di Brasillach fu il teatro, egli stesso ci racconta in Notre avant-guerre che, ancora studente squattrinato, imparò a saltare la cena della domenica sera per permettersi il biglietto d’ingresso a Teatro. A quegli anni risale l’amicizia con Georges e Ludmilla Pitoeff, che lo fecero entrare nel magico mondo del Teatro come macchinista di scena e come traduttore dell’Amleto. Dal mondo del teatro non si staccò mai, fu uno dei più acuti critici teatrali del suo tempo e a sua volta scrisse un’opera, Domremy, inedita in Italia, dedicata a Giovanna D’Arco e due atti unici. Proprio la lettura di uno di questi atti unici ci è sembrato un degno omaggio a Robert. Infatti abbiamo deciso di proporvi “I FRATELLI NEMICI” , perché è il dialogo fra due fratelli che il destino ha posto ai lati opposti della barricata ideologica; si tratta del dialogo prima dello scontro, dialogo che cerca un’impossibile conciliazione, che serve ad accettare la reciproca diversità e la necessità di diversità. Questo dialogo fu scritto negli ultimi giorni della vita di Brasillach, quando le vicende della guerra civile che aveva infiammato l’Europa stavano per avere un drammatico epilogo, e se in queste parole, come in ogni vera opera d’arte, vi è molta attualità, sta a noi scoprirla .
“I FRATELLI NEMICI”
dialogo tragico di R. Brasillach
TIRESIA : Non c’è più nulla da fare, tutti vengono arrestati, i portinai riempiono i formulari per la delazione che vengono distribuiti nelle strade, ma io mi sento tranquillo, sono sempre sicuro di avere l’ultima parola. Sono Tiresia; nessuno oserà mai arrestare Tiresia. Si è mai sentito parlare dell’arresto di un importante ecclesiastico? Sono stato io a celebrare la cerimonia per l’incoronazione di Laio e di Edipo, come anche quella di Eteocle, e domani canterò nel tempio per Polinice se Polinice diventa il capo del governo. Penso che soltanto gli spiriti mediocri e poco abituati alle sottigliezze e agli improvvisi cambiamenti politici possano sentirsi turbati. Risponderà loro forse proprio oggi il destino? Sono sempre stato qui per indovinare, contemplare, e per benedire le crisi governative. Quando è morto il re Laio, sono stato io a dichiarare legittimo re Edipo, e sono stato sempre io a farlo riconoscere dalle potenze straniere. Quando egli abdicò fui io ad immaginare quell’ingegnoso compromesso che dava per un anno il potere al figlio maggiore Eteocle, rimettendolo l’anno successivo a Polinice. Da allora ne sono successe di cose. Ecco il tempo in cui i fratelli si battono gli uni contro gli altri. Eteocle ha voluto conservare la corona, si è appoggiato all’armata di occupazione spartana, ai suoi carri, alle sue disciplinate formazioni pesanti, egli ha accettato di firmare proclami per l’unità della Grecia. Ma il popolo non l’ama, perché il popolo non ama gli spartani. Il popolo vuole Poliniceche, fuggito, sta ora sbarcando con l’esercito di Argo, e reclama il ritorno alle antiche leggi di Tebe, e chiama a raccolta dalle campagne e dalle città combattenti oscuri e senza uniforme. La battaglia decisiva è per questa notte, i posti di blocco sul mare sono stati forzati, ma la Chiesa veglia e ha potuto stabilire la tregua di Dio. Polinice e Eteocle, prima dello scontro, si incontrano. In questo indeterminato luogo di tragedie, senza preparazione, senza motivazione, isolati nella pace di un istante come in un’isola deserta, il capo della patria vinta e il capo dell’esercito d’occupazione, due fratelli, si stanno incontrando dopo tanti mesi di distacco. Non mi resta altro che allontanarmi, ma l’occhio e l’orecchio di Dio e dei suoi servitori non sono lontani quanto si crede. .
ETEOCLE : Salve, Polinice, ti ricevo nella tua patria che abbandonasti
POLINICE : Salve Eteocle, ritorno nella mia patria che mi hai interdetto
ETEOCLE : Siamo in tregua, Polinice, e non per aizzarci l’un contro
POLINICE : Ci troviamo qui, come due figlioli prodighi che si trovano dopo un viaggio piuttosto lung, e che evocano la loro adolescenza dicendo : “Ricordi
ETEOCLE : Lo vorrei. Ah come lo vorrei, per cominciare, almeno! Si, cancellare con il nostro incontro questi anni così deludenti, così duri, questi anni d’uomo e ritornare ai giorni luminosi della nostra infanzia, a quando marinavamo la scuola nella periferia di Tebe, ai nostri litigi e alle nostre amicizie, a quando ci scambiavamo i nostri sacchetti di biglie e a quando, un po’ più tardi, cominciavamo a correre dietro alle ragazze nelle feste…
POLINICE : Anch’io durante quei mesi passati lontano dal mio paese, dalla mia famiglia, lontano da tutto, anche io pensavo a quei giochi. Qualche volta, solo, nella notte, nel fondo di un rifugio di fortuna, dopo aver cambiato dieci volte domicilio e identità in una settimana, ero braccato, sfinito, pronto a lasciarmi prendere, ad affrontare le armi all’alba, le torture degli interrogatori, e subito una strana pace scendeva dentro me, Eteocle. Tu forse non ci crederai. Ma pensavo a te. A te che eri fortunato, che regnavi, che dormivi nel tuo letto protetto dalle guardie, a te di cui ero geloso. Pensavo al piccolo Eteocle che era mio fratello ed amico, ma subito, non so perché, davanti a quest’immagine di ragazzino con le ginocchia nude, mi sentivo riempire di una forza straordinaria, e ritrovavo la speranza e la felicità.
ETEOCLE : Ed era allora che fermavi i veicoli sulle strade, assassinavi le mie guardie fedeli e facevi entrare lo straniero sul nostro suolo? E a questo che ti serviva la mia antica immagine?
POLINICE : Forse
ETEOCLE : Dovrei alzare le spalle, Polinice, infischiarmene di te e di me, mio povero ragazzo. Ma chi ti dice che anch’io non ti abbia pensato, sperduto nella gelida macchia, a quest’ora della notte quando ci si risveglia improvvisamente chiedendosi cosa non va, e rispondendo: non c’è niente che vada, la polizia tradisce, i ministri non sono sicuri, gli alleati ci sfruttano, i vincitori ci mentono, il popolo insorge e non comprende nulla, il clero traffica, la gioventù è pervertita, e i vecchi combattenti si addormentano… Sì, pensavo a te, vecchio mio, e, di certo, non mi dicevo che tu eri più felice di me, ma pensavo che, per quanto duro, il tuo ruolo fosse più facile del mio, e non te ne volevo, e avrei voluto averti presso di me, e stringerti fra le mie braccia, e parlarti…
POLINICE : Dopo questo tu facevi arrestare i miei amici, giustiziare all’alba ragazzi di quattordici anni, deportare donne, e mettevi una taglia sulla mia testa
ETEOCLE : A mia volta ti rispondo : Forse
POLINICE : Ho accettato questa tregua prima del combattimento, ma non nella speranza che culla tanta gente abile ed amante dei compromessi, bensì per capire, vedi, per capire chi sei, quello che hai fatto
ETEOCLE : Ed è così difficile da capire? Noi ci siamo lasciati, Polinice, durante i peggiori torbidi della patria, o di quello che noi immaginavamo che fosse il momento più triste (da allora abbiamo visto di peggio). Il paese completamente invaso, il regime crollato, Edipo; nostro padre, perduto e disonorato, con nessuna speranza che brillasse all’orizzonte. Non c’era altra salvezza possibile che restare qui dicendo si a ciò che era
POLINICE : Ho pensato che non poteva esserci altra via d’uscita che dire no, andarsene e un giorno ritornare in segreto per cambiare ciò che era
ETEOCLE : Ciononostante, Polinice, oggi ci troviamo qui, attorniati dai nostri ricordi, dalle nostre illusioni morte e forse non pensi che potremmo trovare nel nostro passato e nella nostra infanzia tanto affetto da ridurre questo no e questo si a una comune speranza? So che sei deluso dei tuoi alleati , dei tuoi amici, di quelli che ti sono fedeli. Argo cerca un modo per fare di Tebe una colonia, e Argo è tua alleata, e Argo pagava i tuoi soldati ed è il suo esercito oggi ad assediare Tebe. Poi ci sono i banditi d’ogni risma che tu hai radunato sotto le tue insegne ed anche i giovani del sangue ardente, come anche i conservatori, i rivoluzionari e gli eroi di rivolta. E tutto ciò ti piace quanto a me piacciono i poliziotti corrotti, i traditori pronti a seguire chi li paga, i paurosi che si credono dalla parte del più forte. Ognuno di noi, in un momento della propria storia è stato ingannato. Abbiamo forse qualcosa di più solido del sentimento dell’inganno per costruire l’avvenire?
POLINICE : Ci ho già pensato. Ma non sono sicuro, Eteocle, che tu abbia capito ciò che ci ha separato così profondamente, quando nel crollo del solstizio d’estate, molto tempo fa, le rovine della patria si sono accumulate sulle vie della fuga e della sconfitta. Non sono stati soltanto un si e un no, un’accettazione ed un rifiuto a renderci diversi. E’ qualcosa di più grave e di più tragico.
ETEOCLE : La ragione era dalla mia parte. Tutto era perduto, io sapevo che bisognava vivere per anni a fuoco lento, rinunciare alla gloria, subire, scendere a compromessi. Io l’ho fatto, con l’intima convinzione di essere capace, di essere il solo capace a compiere quest’ingrato compito. E’ per questo che non ho voluto renderti la corona, ti conosco da tanto, tu sei troppo vivace, impetuoso, non avresti potuto fare quello che ho fatto io.
POLINICE : La ragione, è questa la parola che volevo farti pronunciare. Tu avevi la ragione, io l’istinto, ecco tutto. In quell’estate in cui tutto sembrava perduto c’erano due voci che si levavano, la tua e la mia, la voce della ragione e quella dell’istinto. Come potevi credere che fosse la ragione a trionfare?
ETEOCLE : Ma io ho servito anche il tuo istinto! Ma se la mia ragione non ci fosse stata, se non avesse mantenuto in questo paese una parvenza d’ordine, una parvenza di pace, mai tu avresti potuto condurre la tua azione, preparare il gran giorno in cui esplode la luce del tuo istinto come una bomba all’alba. Senza me, i tuoi seguaci braccati inesorabilmente fin dalla prima ora, i tuoi uomini deportati, i tuoi quadri distrutti, il paese in fiamme e insanguinato, mai tu avresti potuto salvaguardare la piccola candela vacillante sulla quale soffiavano tanti uragani
POLINICE : Non lo dirò ai miei uomini, forse non lo dirò neanche alla storia, ma so, Eteocle, che è vero
ETEOCLE : Ai tuoi uomini, tu dì loro che sono un traditore. Quanto alla storia, viene scritta da chi vince, chiunque egli sia. Il suo giudizio non deve preoccupare gli uomini del presente
POLINICE : E tu, che cosa dici di me?
ETEOCLE : Siamo pari, Polinice, minacciandoci a vicenda e ingiuriandoci l’un l’altro; e nel cuore, quando la notte ci svegliamo, la piccola immagine dei fratelli che siamo stati e che continuano ad amarsi
POLINICE :Che importa amarci? Non è a uomini come noi che bisogna parlare di amarsi, noi abbiamo altre cose da fare, siamo uomini divenuti molto più che noi stessi, simboli di un atteggiamento e di un universo. Non abbiamo il diritto di amarci
ETEOCLE : Siamo dunque così lontano l’un l’altro? Mi appoggio a Sparta come tu ad Argo, e ciascuno di noi tuttavia spera che un giorno Tebe riesca a recuperare la sua passata indipendenza. Ci dobbiamo fidare di alleati o di vincitori dai quali molte cose ci separano, servirci di schiavi o di uomini prezzolati che tutti e due disprezziamo, utilizzare mezzi non del tutto onorevoli, coprire assassini e crimini, o almeno ignorare quelli che tra noi sono i migliori, non esserne informati, e passare oltre perché questa è la necessità! Noi siamo uguali
POLINICE :Non siamo uguali perché il popolo non sbaglia mai. Detesta Sparta che gli ha ucciso senza dubbio meno uomini di quanto abbiano fatto gli attacchi e le incursioni di Argo; esso dice che tu sei schiavo di Sparta, non crede che io sia altro che un alleato di Argo. Al di là di ogni ragionamento è l’istinto a parlare in lui. Ti ho già detto che il mio unico merito è quello di essere la voce dell’istinto
ETEOCLE : Ah! Polinice, lasciami fare un ultimo sforzo per la causa della ragione. Se ci troviamo qui non è per affrontare le nostre concezioni dello Stato e neanche per chiederci chi di noi due ha avuto ragione nelle calde giornate di giugno quando si è compiuto il destino di Tebe, ma per cercare, prima della battaglia finale, di riunire le nostre forze ed il nostro amore. Se volessi, Polinice, farei entrare fra noi nostra madre Giocasta che piangerà per te come per me, ma non voglio utilizzare anche per lo scopo più nobile, il suo dolore e la sua tragedia. Ma tu sai bene che se, in questo supremo momento non ci accorderemo, a guadagnare saranno Argo e Sparta, e quel che ancora è peggio saranno Tiresia Creonte, il partito dell’intrigo e dell’esitazione, e tutti i seguaci di Polinice e di Eteocle si saranno uccisi per niente, per il profitto del denaro e del più sporco degli affari
POLINICE : Sei stato tu ad accettare la sconfitta di Tebe, tu a scacciarmi dalla patria, ed ancora tu che mi hai fatto lacerare la veste dell’unità
ETEOCLE : Ti ripeto, Polinice, che non bisogna discutere, non è più tempo. Sento che una clessidra con la sua sabbia ci conta i minuti : ben presto sarà troppo tardi, affrettiamoci . Non ti ho giudicato capace di governare Tebe, ho creduto che bisognasse accordarsi con Sparta, ho detestato Argo che tante volte ci aveva tradito. Ma che cosa importano oggi Sparta e Argo? Gli uni e gli altri hanno le loro difficoltà, la loro cancrena. Mi interessa Tebe, è ad essa solo che dobbiamo pensare
POLINICE : Che cosa vuoi da me? Che ci presentiamo abbracciati, con Giocasta benedicante dietro, davanti al popolo, proclamando che la guerra è terminata e che gli eserciti stranieri devono solo ritornare al loro paese? Non vorranno e si batteranno sul nostro suolo e nulla sarà cambiato
ETEOCLE : Siamo della razza di Edipo, Polinice, e tanti litigi e crimini non bastano agli dei? Non bisogna finire di rivaleggiare col sangue più nero della Grecia, il più carico di sventure? Non è possibile fermare sulla nostra generazione la maledizione che pesa su di noi? Fare in modo che la piccola Antigone e la piccola Ismene abbiano la loro parte di felicità, e dopo di loro i nostri figli, se avremo figli?
POLINICE : Lo vorrei, eccome!
ETEOCLE : E’ così difficile? Queste guerre che tu temi, potrebbero scoppiare, potrebbero farci soffrire se Eteocle e Polinice apparissero, come tu dici ironicamente, abbracciati davanti al popolo? Non possiamo accordarci, non credere che io voglia il potere. L’ho voluto perché Sparta dominava ed ero il solo ad intendermi con lei. Ma oggi questo giovane fratello impetuoso di cui avevo paura è stato reso maturo dall’esilio, dalla lotta contro i suoi alleati, da quell’esistenza sotterranea attraverso le fughe e i nascondigli. E’ degno di regnare, lo so bene. Saprà tenere l’equilibrio con Argo come io ho fatto con Sparta. Non gli chiedo altro se non capire quel che ho fatto e quel che ho voluto
POLINICE : Lo vorrei, Eteocle, ma è troppo tardi
ETEOCLE : Non è mai troppo tardi. Se tu rifiuti è l’insurrezione, è il massacro della città in rivolta da parte delle legioni spartane, è la follia rivoluzionaria
POLINICE : Peggio ancora. Perché tu non conosci i miei uomini, mentre io si. Per mesi ho vissuto con loro, mesi in cui ho conosciuto la differenza che passa tra la sofferenza reale e quella immaginaria o compiacente, il desiderio di vendetta, la viltà e l’amore del sangue. Non appena sarà dato il segnale di rivolta, i fratelli si getteranno sui loro fratelli, gli invidiosi si uccideranno sulla soglia di casa, le dimore dei ricchi saranno saccheggiate, senza processo e senza ragione, e un’onda di odio sommergerà Tebe
ETEOCLE : E allora perché non fermare quest’onda? Perché non mi aiuti a costruire la diga?
POLINICE : Perché è troppo tardi, ti dico. Perché io parlo in nome dell’istinto, e tu in quello della ragione, e l’istinto è il corteo di donne sventrate, di fanciulli incatenati, di vecchi uccisi nei loro letti, di vergini mescolate a puttane, è ciò che si chiama una rivoluzione. Ho avuto bisogno di assassini e di banditi, come tu lo hai avuto di poliziotti e di venduti. Tanto peggio per coloro che da ambedue le parti si sono battuti con onore, nel momento della vittoria non si va tanto per il sottile
ETEOCLE : Allora Tebe è perduta
POLINICE : Resta il domani. Resta il giorno in cui il popolo che ne ha abbastanza del sangue delle esecuzioni ne avrà abbastanza delle rappresaglie e di vedere le prigioni sempre piene alternativamente di un flusso continuo di cittadini innocenti
ETEOCLE : E sarà quando tu ti separerai dai tuoi alleati? Quando vorrai la pace e la giustizia che ora disdegni? Quando ti sentirai forte per pacificare, per conciliare?
POLINICE : Sarà la mia ora, Eteocle. L’ora in cui mi riuscirà quello che a te è stato impossibile sotto il nero sole della sconfitta.
ETEOCLE : E’ la mia volta di dire è troppo tardi, Polinice. Essi ti uccideranno. I tuoi amici ti uccideranno. I tuoi alleati ti uccideranno. Hai scatenato forze che nessuno e nulla riuscirà a controllare
POLINICE : Devo correre il rischio, come te
ETEOCLE : Allora, Polinice, addio?
POLINICE : Addio
ETEOCLE : Dammi la mano
POLINICE : Eccola, per l’ultima volta. Tra breve indosseremo le armature da combattimento, inveiremo e lotteremo l’uno contro l’altro, fino alla morte. Uno di noi due morirà. Forse ambedue. E’ necessario. I nostri popoli adunati ci guarderanno come la più prodigiosa immagine dell’odio, ritti eternamente l’un contro l’altro, braccia fraterne armate sin dalla culla. Essi non sapranno la verità
ETEOCLE : I secoli non conosceranno la verità. Non sapranno che ci siamo amati. Che eravamo uguali e parimenti accaniti nel salvare la terra paterna, ma obbligati ad indossare l’un contro l’altro questa maschera di collera e di ingiustizia. Crederanno che ci siamo odiati, disprezzati, quando invece il nostro cuore era pieno di immenso amore e della più totale comprensione. Addio, Polinice. Prima di farti del male, prima – lo giuro – di usare ogni mezzo per abbatterti e strapparti la vita, lasciati abbracciare, fratello
POLINICE : Addio, Eteocle, addio o mio doppio, addio o me stesso nemico
TIRESIA : Non sarebbe stato giusto vederli intendersi. Sono io che devo fare i compromessi e i trattati di riconciliazione e non è desiderabile che i combattenti si immischino in queste faccende. Dove si andrebbe a finire se si permettesse ai guerrieri, dal fondo delle trincee o davanti alle loro tende, di accorgersi subito di essere eguali? No, così è tutto in ordine, e mi si può lasciare la cura di stabilire per la storia che Eteocle e Polinice si detestavano sin dalla culla, dando agli uomini un’immagine d’un odio abominevole e contro natura. Si uccideranno, è fuor di dubbio. Non credo che vada peggio per Tebe. La nazione ha avuto il suo eroismo, è tempo che ti riposi . Si faranno dei bei funerali all’uno, si getterà il corpo dell’altro alle ortiche e ai cani, a seconda del partito vincente. Io sarò sempre presente per regolare i funerali, è la mia specialità. E riprenderemo il corso d’una esistenza nazionale senza pericoli, come conviene ai sottili disegni che rappresento e agli interessi del ramo cadetto. Bisogna sotterrare per sempre questo nefasto bisogno di grandezza. Non dobbiamo più sentirne parlare. Sotto questo riguardo sono tranquillo con il popolo, che è stufo di tutte queste storie. Diffido soltanto – bisognerà vigilare – della piccola Antigone
[ continua ]
Omaggio a Robert Brasillach (prima parte)