di Francesco Lamendola - 18/04/2021

Jaspers su Norimberga: la miseria di un filosofo

Fonte: Accademia nuova Italia

Quando si è svolto quell’obbrobrio giuridico e morale che stato il processo di Norimberga a carico dei capi della nazione vinta da una coalizione di portata mondiale, non pochi intellettuali hanno ritenuto di esprimere il proprio giudizio, e in particolare un certo numero di filosofi. Fra di essi, fa spicco quello del pensatore e psichiatra Karl Jaspers (Oldenburg,1883-Basilea, 1969), che i nostri manuali di liceo volentieri presentano come esempio di esistenzialista “buono”, contro il “cattivo” Martin Heidegger, perché il primo fu antinazista mentre il secondo, come è noto, ebbe un momento in cui sembrò filare d’amore e d’accordo col regime di Hitler. Tutto ciò tuttavia non ha nulla a che vedere con la filosofia, oltre al fatto che andrebbe approfondito (l’avversione di Jaspers al nazismo veniva soprattutto dalle leggi razziali che gli avrebbero imposto il divorzio dalla moglie ebrea, ma egli tenne cattedra fino al 1937 e seguitò a vivere in Germania, senza pericolo immediato, fino al 1945; mentre il “nazismo” di Heidegger si potrebbe considerare un’infatuazione passeggera, quando ancora quel regime non si era macchiato dei crimini più efferati, e comunque Heidegger era così poco convinto del razzismo hitleriano da essersi presa per amante la sua giovane allieva ebrea Hanna Arendt). Ma tant’è, nella scuola italiana la filosofia si studia così: si distribuiscono gli attestati di buono e cattivo secondo il metro del Pensiero Unico, per il quale è buono chi si tiene all’interno del Pensiero Unico Progressista politically correct (che, ovviamente, cambia e si adegua secondo le circostanze storiche: provate a immaginare cosa direbbe un vecchio militante del P.C.I., marxista e staliniano, dell’attuale politica del Partito Democratico, delle sue scelte economiche e sociali e di quelle internazionali) mentre è cattivo chi ne esce, anche solo di poco.

Ecco cosa scrisse Jaspers, “a caldo”, sul processo di Norimberga in La questione della colpa, libro tratto da un corso di lezioni tenuto dal filosofo tedesco all’Università di Heidelberg nell’inverno 1945-46 (titolo originale: Die Schuldrage; traduzione di Renato De Rosa, La colpa della Germania, Napoli, Edizioni Scientifiche, 1947; cit. in: Giuseppe Mayda, Il processo di Norimberga, Milano, Mondadori, 1972, p. 141):



Alla Germania non si attribuisce la colpa della guerra in generale, ma la colpa di questa guerra. E questa guerra stessa è qualche cosa di nuovo, qualche cosa di diverso determinatasi in una situazione politica mondiale che, come è, si è verificata nel fatto la prima volta. La maniera di agire di Hitler, con lo sterminio di intere popolazioni, con ogni crudeltà, era diretta, fin da principio, contro ogni possibilità di conciliazione. Non c’era che la vittoria o la rovina completa. È impossibile appellarsi oggi ai principi cavallereschi quando ogni principio cavalleresco ed ogni senso di magnanimità sono stati rinnegati…

Questo processo ha per noi tedeschi il vantaggio di fare delle differenze tra i delitti ben determinati dei capi, e di non condannare quindi il popolo nella sua collettività. Ma il processo ha una importanza ancor maggiore. Esso si propone per la prima volta di dichiarare che la guerra è un delitto e di tirarne le conseguenze…

Il punto essenziale è che il processo di Norimberga costituisce veramente un anello della catena delle azioni politiche di alto significato; in tal caso non importerebbe se dovessero spesso intrecciarsi anche degli errori, dei malintesi, delle crudeltà e degli odii, e se le potenze che oggi hanno costituito una norma di giustizia nel mondo venissero un giorno a trovarsi esse stesse in difetto rispetto a questa norma. Le potenze che hanno stabilito di fare il processo di Norimberga hanno con ciò dato prova di governare il mondo di comune accordo e di volersi assoggettare ad un ordine mondiale. Esse hanno dato prova di volersi veramente assumere, come risultato della loro vittoria, le responsabilità della vita di tutti gli uomini, e non solamente della vita dei loro popoli. Questa testimonianza non dovrebbe in nessun caso risultare falsa.



Francamente si stenta a riconoscere l’impronta di un grande filosofo dietro queste affermazioni banali, povere, pressappochiste, viziate da un’ingenuità e da un buonismo a senso unico quasi inconcepibili perfino in una persona del tutto sprovvista di bagaglio filosofico. Soffermiamo l’attenzione sui punti più clamorosamente fragili o inconsistenti sul piano della logica e su quello della consapevolezza storica.

Alla Germania non si attribuisce la colpa della guerra in generale, ma la colpa di questa guerra.

Questa affermazione bislacca è anche di una banalità assoluta. Forse che i vincitori avrebbero potuto addossare al vinto la responsabilità di qualunque guerra passata, della guerra in quanto tale? In realtà, si comprende quel che Jaspers intendeva dire se ci si mette nei panni del suo uditorio: gli studenti tedeschi ai quali già era stato insegnato che le potenze alleate, nel 1919, avrebbero voluto processare i capi della Germania imperiale e lo stesso kaiser Guglielmo II, ma i Paesi Bassi avevano rifiutato loro l’estradizione e la cosa era finita lì. Quindi, il pubblico tedesco sapeva che gran parte dell’opinione pubblica mondiale era contro la Germania, a prescindere dalle buone o dalle cattive ragioni, perché l’abile propaganda dell’Intesa, fin dal 1914-18, era riuscita a imprimere sul popolo tedesco, e particolarmente sulle forze armate tedesche (vedi la questione della guerra sottomarina illimitata) le stimmate di un tabe originaria, di un’ancestrale propensione alla crudeltà e alla violenza. Perciò Jaspers vuol fugare l’impressione che gli alleati, nel 1945, vogliano fare alla Germania quel processo che non poterono farle al termine della guerra precedente; vuole rassicurare i suoi studenti che i vincitori non ce l’hanno con il popolo tedesco, ma intendono solo far valere un principio universale di giustizia. In ogni caso, una tale impostazione della riflessione sulle “colpe della Germania” era musica agli orecchi dei vincitori, ancora accampati fra le macerie delle città distrutte, e con milioni di tedeschi in fuga dalle province orientali invase dall’Armata Rossa, e centinaia di migliaia di prigionieri di guerra lasciati morire nei campi di concentramento sovietici, ma anche alleati. Se non altro per ragioni di fierezza nazionale, il tono delle lezioni tenute da Jaspers all’Università di Heidelberg è inopportuno, o peggio. Ben diverso il tono tenuto da un’altra grande figura non sospetta di connivenze col passato regime, il vescovo (poi cardinale) Clemens August von Galen, soprannominato il leone di Münster, il quale, a differenza di Jaspers, si era esposto pubblicamente con delle omelie di fuoco contro certe azioni del Partito nazionalsocialista, ma che si rea rivolto anche con legittimo orgoglio ai vincitori, denunciando gli stupri delle donne tedesche e altre violenze ed arbitrii perpetrati dalle truppe di occupazione, specie quelle di colore (e noi in Italia ne sappiamo, o dovremmo saperne qualcosa, grazie al “glorioso” corpo di spedizione francese e ai suoi soldati marocchini, divenuti così tristemente celebri per le loro violenze sessuali, da aver dato origine al termine “marocchinate” proprio per indicare queste ultime: viceversa, quanti stupri di donne italiane ci sono stati nel 1943-45, da parte delle truppe di occupazione tedesche?; ben pochi, visto che erano puniti con la fucilazione immediata).

E questa guerra stessa è qualche cosa di nuovo, qualche cosa di diverso determinatasi in una situazione politica mondiale che, come è, si è verificata nel fatto la prima volta.

Altra banalità assoluta. Certo che la Seconda guerra mondiale è stata qualcosa di nuovo e di diverso. E dire che nel fatto la situazione mondiale che ha visto il suo scatenarsi si è verificata per la prima volta, è esattamente come dire che mezz’ora prima di cadere in battaglia il signor de Lapalisse era ancora vivo.

La maniera di agire di Hitler, con lo sterminio di intere popolazioni, con ogni crudeltà, era diretta, fin da principio, contro ogni possibilità di conciliazione. Non c’era che la vittoria o la rovina completa.

Lungi da noi voler riabilitare Hitler. Tuttavia, se parliamo dello sterminio di intere popolazioni, che diritto avevano di sedere sul banco degli accusatori gli americani, la cui nazione è nata dallo sterminio dei pellerossa; gli inglesi, che hanno distrutto interi popolo indigeni, come i tasmaniani, e chiuso i boeri, donne e bambini compresi, nei campi di concentramento, ove sono morti a migliaia; o i francesi, che in Africa si sono macchiati di atrocità senza nome; o i sovietici, che nella sola Ucraina, nel 1932-33, eliminarono tramite una carestia voluta (Holodomor) alcuni milioni di persone? Quanto al fatto che fu la Germania a volere una guerra totale, senza possibilità di conciliazione, storicamente risulta il contrario. Hitler, che non aveva dichiarato guerra né alla Gran Bretagna, né alla Francia, aveva offerto più volte la pace, dopo la campagna di Francia del 1940, ma non ebbe alcuna risposta. Viceversa furono gli alleati, nella Conferenza di Casablanca del 14-24 gennaio 1943, a dichiarare la prosecuzione della guerra fino alla resa incondizionata dell’Italia, della Germania e del Giappone, spingendo il nemico a lottare disperatamente sino all’ultimo, perché questi sapeva che nessuna trattativa sarebbe stata possibile per attenuare la durezza delle condizioni di resa. E furono sempre gli alleati a bombardare a tappeto le città italiane, tedesche e giapponesi nel 1945, quando la fine del conflitto era questione di settimane, causando l’inutile morte di centinaia di migliaia di civili. Chi volle e praticò, dunque, la guerra totale, fino alla bomba atomica?

È impossibile appellarsi oggi ai principi cavallereschi quando ogni principio cavalleresco ed ogni senso di magnanimità sono stati rinnegati…

Come dire: occhio per occhio, dente per dente; la legge del taglione. In tal caso, come si fa a sostenere, come fa Jaspers subito dopo, che gli alleati hanno le carte in regola per un equo processo ai vinti e per il ristabilimento delle relazioni internazionali su basi eticamente più elevate?

Questo processo ha per noi tedeschi il vantaggio di fare delle differenze tra i delitti ben determinati dei capi, e di non condannare quindi il popolo nella sua collettività.

È la solita storia, l’abbiamo vista anche in Italia: scaricare ogni responsabilità sui capi e sul partito al potere per assolvere moralmente tutto il popolo. Una mezza verità, anzi una piccola verità messa a coprire un castello di menzogne: perché la verità è che il regime hitleriano ebbe un forte consenso e che Hitler, del resto, era andato al potere tramite elezioni democratiche. Piaccia o non piaccia.

Ma il processo ha una importanza ancor maggiore. Esso si propone per la prima volta di dichiarare che la guerra è un delitto e di tirarne le conseguenze…

Benissimo: questo è un nobile principio. Ma come sa qualsiasi giurista, una legge non può avere valore retroattivo: quindi è stato illegale giudicare e condannare i capi tedeschi per crimini contro la pace, quando tale tipo di crimine non era stato formalizzato presso alcuna fonte di diritto.

Il punto essenziale è che il processo di Norimberga costituisce veramente un anello della catena delle azioni politiche di alto significato; in tal caso non importerebbe se dovessero spesso intrecciarsi anche degli errori, dei malintesi, delle crudeltà e degli odii, e se le potenze che oggi hanno costituito una norma di giustizia nel mondo venissero un giorno a trovarsi esse stesse in difetto rispetto a questa norma.

Affermazione incredibile, scandalosa, contraddittoria: i vincitori sono assolti in partenza anche se, nel giudicare i vinti, commetteranno errori e crudeltà. Dov’è la differenza con il modo di pensare e di agire dei nazisti verso i popoli da essi conquistati nel corso della guerra?

Le potenze che hanno stabilito di fare il processo di Norimberga hanno con ciò dato prova di governare il mondo di comune accordo e di volersi assoggettare ad un ordine mondiale.

Questo è un elogio del Nuovo Ordine Mondiale che oggi si sta definitivamente realizzando, ma le cui basi furono gettate nel 1945, sotto la regia della grande finanza, che è stata la reale vincitrice di quella guerra. Ma è ridicolo pensare che i vincitori avrebbero accettato di assoggettarsi alle nuove norme internazionali, e di farsi eventualmente giudicare da un tribunale internazionale. Un tribunale internazionale ha processato il serbo Milosevic, ma nessuno mai ha processato Bush jr. o il generale Powell o la signora Allbright per l’ingiusta e devastante invasione dell’Iraq del 2003, fondata sulla grande menzogna delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.

Esse hanno dato prova di volersi veramente assumere, come risultato della loro vittoria, le responsabilità della vita di tutti gli uomini, e non solamente della vita dei loro popoli.

Ammettiamo che sia così, che i vincitori avessero dato prova di assumersi tutte le loro responsabilità (ma i sovietici si erano assunta la responsabilità di essersi spartita la Polonia con Hitler?). Ma con quale diritto volevano ora ergersi a garanti dell’ordine internazionale di tutti i popoli? Avevano forse combattuto e vinto il mondo intero, per farsi supremi arbitri della legge internazionale? E, se sì, in cosa differivano i loro piani di dominio mondiale da quelli della Germania sconfitta?

Questa testimonianza non dovrebbe in nessun caso risultare falsa, dice infine. Ma chi lo garantisce?