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    Predefinito Aspetti e dinamiche del mondialismo capitalista

    di Massimiliano Carminati

    Successivamente a un’analisi critica - cioè
    interpretativa - dei mali che affliggono la
    società moderna cosiddetta “occidentale”,
    nessuno responsabile verso la natura e l’humanum
    genus può esimersi dal porsi in opposizione
    nei confronti delle dinamiche sociali, politiche
    ed economiche in essa dominanti. Questa
    posizione dipende dalla consapevolezza della
    negatività di tali dinamiche, che traggono
    origine da una concezione unidimensionale
    dell’esistenza(1), che distrugge le determinanti
    dell’esistenza dei popoli a favore di un conformismo
    assoluto. Tale concezione possiede infatti
    una forza così terrificante da abolire addirittura
    le differenze di genere.
    L’insieme delle dinamiche accennate è definito
    impropriamente con due termini che vengono
    usati in maniera promiscua: “globalizzazione”
    e “mondialismo”. “Globalizzazione” è
    una parola che da qualche anno è entrata prepotentemente
    nella terminologia politica e
    quotidiana, con la quale s’identifica, in realtà,
    prevalentemente quel processo di universalizzazione
    tecnocratica delle comunicazioni (internet
    ne è assurto a simbolo) che con straordinaria
    rapidità riducono, fino a eliminare,
    spazio e tempo; lo stesso termine coincide
    però anche con il medesimo processo universalista
    in termini economici, riferendosi alla
    cosiddetta new economy, o più ampiamente al
    mito del mercato libero, mercato cioè regolato
    dalle leggi del liberal-capitalismo. “Mondialismo”
    ha invece una connotazione prettamente
    politica, nella fattispecie identifica la creazione
    di un governo unico mondiale secondo direttive
    direzionali ed istituzionali liberali e democratiche,
    o pseudo tali.
    “Globalizzazione” e “mondialismo” identificano
    definizioni che generano solo confusione
    perché distinguono aspetti sì diversi ma inscindibili
    tra loro, collaterali e complementari
    di uno stesso processo che, date queste distinzioni,
    non ha denominazione precisa. Come se
    di una piovra conoscessimo i nomi o i termini
    precipui che individuano ogni singolo tentacolo,
    ma non l’animale in sé.
    Fin dalla sua comparsa l’uomo ha sempre
    cercato, per una questione di sopravvivenza, di
    conferire una connotazione concettuale a tutto
    ciò che lo ha minacciato, perché - è noto - si
    riesce a contrastare solo ciò che si conosce -
    nell’accezione più ampia del termine -, non ciò
    che si ignora. La denominazione di questo processo,
    e di conseguenza la sua identificazione,
    diventa quindi indispensabile nel momento in
    cui si configura come elemento ostile, distruttore
    dell’identità, poiché di essa è negatore per
    la sua essenza universalista che disconosce le
    valenze proprie dei fattori intrinseci ed estrinseci
    determinanti dell’uomo: i fattori etnici e
    culturali.
    Pertanto identificheremo questo processo,
    che misconosce - e minaccia - l’uomo stesso,
    con la locuzione “mondialismo capitalista”(2) e
    in questa sede cercheremo, senza alcuna pretesa
    di risultare esaustivi, di definirne aspetti e
    implicazioni, di delinearne in astratto alcuni
    tratti caratteristici, di porre l’accento su determinati
    elementi costitutivi.
    Capitalismo e dintorni
    Come si evince dalla definizione, la nervatura
    del mondialismo capitalista è, appunto, il liberal-
    capitalismo o “turbo-capitalismo”, per
    usare una terminologia cara a Edward Luttwak.
    Per la sua intrinseca natura dispotica - e
    dannosa - che attribuisce al denaro un principio
    d’azione dominante nella sfera dei valori e
    al guadagno un ruolo preminente nelle dina-
    miche sociali, il turbo-capitalismo minimizza
    la vita a una mera evoluzione e articolazione di
    bisogni materiali da soddisfare nell’immediato,
    pena l’infelicità. Esso è espressione sintomatica
    di quell’ottica riduzionista che concepisce
    l’esistenza umana come una circostanza di
    tempo determinata e svincolata da qualsiasi legame
    di tipo generazionale - temporale -, spaziale
    e sociale.
    Gli effetti pratici di questa visione del mondo
    che antepongono a tutto la supremazia dell’economico
    sono la degenerazione dell’eticità e
    la disgregazione sociale, che tradotti significano
    la perdita di quell’equilibrio esistenziale
    che ha permesso all’uomo di sopravvivere in
    armonia con se stesso e con l’ambiente: “l’economia
    disumanizzata - avverte il sociologo Ulderico
    Bernardi - è fonte di scontri e non di
    scambi”(3).
    L’assunto dell’economia capitalista è: libera
    circolazione di beni, servizi, risorse, capitali e
    massa umana di produttori/consumatori. Per
    realizzare ciò, il sistema non ammette deviazioni
    di sorta e dunque impone che qualunque
    limitazione e ogni possibile interferenza siano
    viste come un ostacolo da abbattere per esigenze
    vitali. Si eliminano così le frontiere, si
    cancellano memoria e senso dell’appartenenza,
    si omologano le differenze: “l’intento è quello
    di puntare ancora una volta alla economicizzazione
    del mondo in ogni sua componente:
    umana, vegetale, animale, minerale. […]. Corollari
    a tanta certezza sono il primato della
    tecnica, comunque applicata; l’indifferenza alle
    specificità delle culture; il supremo metro
    del prezzo, assunto come misura d’ogni valore.
    L’uniformità come progetto, o per meglio
    l’intenzione di costruire un mondo conforme
    alla logica dell’estremizzazione liberista, vede
    la sua testa serpentina mordere oramai la propria
    coda, chiudendo il cerchio della vocazione
    totalitaria. Enormi mezzi per incommensurabili
    interessi. A cui tutto deve piegarsi: popoli,
    continenti, etiche, religioni.”(4)
    La globalizzazione economica è l’allargamento
    dell’area geografica dove opera il liberal-
    capitalismo. Negli intenti dei suoi promotori
    la massima liberalizzazione del commercio
    coincide con la creazione di un libero mercato
    globale senza alcun genere di barriere. Gli
    Stati moderni in quanto entità giuridiche sovrane
    in uno spazio delimitato sono d’intralcio
    alla liberalizzazione globale del commercio e
    pertanto vengono - dove è possibile, ovvero
    ovunque - smantellati o privati della facoltà decisionale
    e d’imposizione in materia economica
    grazie alla costituzione di grattacieli istituzionali
    in nome di presunte volontà politiche
    popolari. Un esempio pratico e per tutti comprensibile
    è rappresentato dall’Unione Europea.
    Eliminare i confini, aggirare i dazi doganali,
    livellare le diverse tassazioni nazionali con accordi
    interstatali e con direttive dell’organizzazione
    non governativa di turno, sono azioni
    che rientrano perfettamente nella logica economica
    in oggetto al fine di prevenire possibili
    posizioni protezionistiche degli Stati e ogni
    forma, anche velleitaria, d’autarchia. È vietata
    ogni forma di autosufficienza, si deve per forza
    dipendere da qualcosa o qualcuno, o meglio, si
    deve per forza dipendere esclusivamente dal liberal-
    capitalismo e dal suo sistema di commercio:
    le uniche regole accettate sono quelle
    che disciplinano il libero mercato.
    All’abbattimento delle barriere statali partecipa
    con una compiaciuta complicità anche il
    mondo politico. Quel mondo, però, modernamente
    inteso - quindi snaturato delle sue originarie
    funzioni di tutela e di salvaguardia della
    propria comunità, di garante di giustizia, di
    propugnatore del bene comune - la cui autorità
    si pone supinamente alle dipendenze dell’economia.
    Il sistema democratico, che si fonda
    sul principio della partecipazione per l’organizzazione,
    l’istituzionalizzazione e la gestione
    del popolo sul popolo, viene privato di ogni significato
    e relegato a mero strumento cautelativo
    dei grandi interessi finanziari che lo controllano.
    Il politico da parte sua, lontano anni
    luce dalle teorizzazioni di Carl Schmitt, è ormai
    uno squallido mediatore delle diverse
    compagini occupazionali in mano ai “poteri
    forti” del mondo economico, la grande finanza.
    Le prerogative politiche dei popoli e la sovranità
    vengono quindi svendute al migliore offerente.
    Una piaga sociale: l’individualismo
    Nuovi e maggiori problemi si pongono
    quando l’incidenza dell’economia è talmente
    pervasiva da condizionare totalmente altri
    aspetti sociali come il comportamento del sin-
    golo in relazione con se stesso e con la comunità
    di cui è, quantitativamente e qualitativamente,
    parte integrante. Il liberal-capitalismo
    possiede questo potere di condizionamento:
    acuisce le patologie che affliggono la nostra
    società, creando complicazioni ancora più gravi.
    È il caso dell’individualismo, prodotto filosofico
    del liberalismo.
    Per individualismo intendiamo quella concezione
    esistenziale che tende a considerare i diritti,
    le esigenze e le azioni del singolo, dell’individuo,
    assoluti e prevalenti su quelli della comunità.
    L’uomo non si riconosce più parte di
    un tutto organico che lo supera e ingloba, ma
    parte a sé stante di un corpo sociale frazionato,
    i cui componenti, i singoli individui, non sono
    più accomunati da un identico destino ma da
    tanti dissociati tra loro. Questi innumerevoli
    destini, questi personalismi, non viaggiano più
    nel cosmo sociale di una comunità in un’unica
    direzione ma in quelle più disparate e diversificate,
    e gli scontri inevitabilmente non mancano.
    La forma lascia il posto al caos.
    A esacerbare la conflittualità intervengono,
    poi, due fattori determinanti propri del turbocapitalismo:
    l’economicizzazione del quotidiano
    e il principio di concorrenza. Il primo consiste
    nella supremazia dell’economico attraverso
    la quantificazione in potenzialità monetarie
    di ogni aspetto della quotidianità. Di fatto le
    società divengono delle associazioni contrattualistiche
    la cui coesione è garantita unicamente
    da legami mercificati e mercificabili: il
    denaro è il nuovo collante sociale. Il secondo
    fattore non è in sé deleterio per una comunità,
    ma il sistema capitalista lo trasforma, o meglio
    lo deforma. Esso pone l’individuo, l’atomo sociale,
    in accesa concorrenza con l’altro: si tratta
    della consacrazione di un cinico gioco di affermazione/
    sopravvivenza regolamentato -
    questo basterebbe per esplicitarne tutta la sua
    mostruosità - dalla speculazione volta al profitto.
    La negatività di questo principio emerge da
    una selezione non più incentrata sul merito,
    sulle virtù, sulle qualità ma da espedienti poco
    nobili che alimentano i lati negativi della personalità
    umana: furbizia e cinismo trionfano
    sulla capacità; egoismo e invidia feriscono a
    morte i legami sociali. L’economicismo mette
    in scena un mesto gioco in cui vince solamente
    la solitudine. L’interazione sociale prende
    così le sembianze di una pratica perversa e
    dannosa dove gli interessi privati travalicano
    l’interesse collettivo, dove il bene comune è sacrificato
    a quello individuale.
    L’individualismo fomentato dall’utilitarismo
    capitalista disgrega e distrugge dall’interno i
    fautori della storia, i popoli, ma non solo. Questo
    processo disgregativo ha, paradossalmente,
    l’assoluta arroganza e l’erronea presunzione di
    ritenersi il modello migliore di sviluppo e organizzazione
    che l’uomo abbia inventato, stadio
    ultimo dell’evoluzione economico-sociale e
    nel contempo unico portavoce credibile della
    libertà. Ma di una falsa libertà perché, spiega
    Alain de Benoist, “la libertà dei liberali è in
    realtà prima di tutto libertà di possedere. Non
    risiede nell’essere ma nell’avere. L’individualismo,
    nel senso moderno del termine, è la filosofia
    che considera l’individuo l’unica realtà e
    lo assume quale principio di ogni valutazione.
    Questo individuo viene considerato in sé,
    astraendolo da ogni contesto sociale e culturale
    [perché] la libertà liberale presuppone
    pertanto che gli individui possano prescindere
    dalle proprie origini, dal proprio ambiente, dal
    contesto nel quale vivono e ove esercitano le
    proprie scelte, cioè da tutto quello che fa sì
    che siano tali quali sono e non altro.”(5) I presupposti
    dell’individualismo liberista sono tanto
    sbagliati quanto deleteri gli effetti pratici
    sulla socialità: un uomo infatti non può prescindere
    dalle sue origini perché non avendo
    coscienza del suo passato e quindi di sé, non
    ha un futuro; un uomo non può essere tolto
    dal suo ambiente perché, in quanto essere finito
    e animale, il suo ambiente è la Natura e per
    definizione ne è totalmente avvolto, collegato e
    dipendente; nello stesso modo un uomo non
    può essere estirpato dal contesto nel quale vive
    e ove esercita le sue scelte perché in queste ha
    percezione di ciò che è, confrontandosi con
    l’altro, e si traduce in realtà, rendendosi fautore
    insieme alla comunità del proprio destino.
    La libertà professata dal liberismo non risiede
    nell’ordine naturale delle cose ma nella artificiosa
    trasposizione su un piano valoriale dell’utilitarismo,
    ed è, pertanto, inconfutabilmente
    distruttiva.
    Stati Uniti dal denaro
    A riguardo il modello sociale più esemplificativo
    ed esplicativo è sicuramente quello statunitense.
    Pare, inoltre, che se ne stiano accor-
    gendo anche gli stessi americani. Il politologo
    Robert D. Putnam nel suo ultimo lavoro, Bowling
    Alone: The collapse and revival of the
    American community, denuncia l’egoismo
    crescente e la divisione atomistica della sua società:
    “alla fine del ventesimo secolo - scrive
    Putnam - i semplici cittadini americani condividono
    un sentimento di malessere civico. Siamo
    ragionevolmente soddisfatti delle nostre
    prospettive economiche, il che non è molto
    sorprendente, dopo un’espansione di una durata
    senza precedenti, ma non siamo altrettanto
    convinti di essere sulla strada giusta dal
    punto di vista morale o culturale”.(6)
    Putnam, professore alla Harvard University e
    direttore del Centro per gli Affari internazionali
    di quell’ateneo, illustra tramite una serie indovinata
    di esempi il declino dell’associazionismo
    e della partecipazione civile e politica negli
    Stati Uniti dagli anni Sessanta ai nostri
    giorni, ovvero ciò che nel secolo XIX Alexis de
    Tocqueville aveva individuato, nella sua opera
    Democrazia in America, come uno degli strumenti
    della libertà.
    “I vincoli comunitari sono importanti anche
    per le regole di condotta che determinano”(7);
    quando questi vincoli si allentano la condotta
    subisce un’involuzione e va alla deriva: è lapalissiano
    che il benessere economico di un popolo
    non vada di pari passo con il suo benessere
    generale. Ciò è evidentissimo nella società
    americana, tuttavia Putnam tende a non riconoscerlo.
    Infatti la sua analisi pecca di un errore
    sostanziale che trasuda dallo scritto: il mancato
    riconoscimento dell’economicismo capitalista
    quale causa prima dei problemi descritti
    e del disagio sociale. L’impossibilità di un’obiettiva
    disamina è giustificata dalla cultura
    d’appartenenza di Putnam, una cultura viziata
    dallo stretto rapporto tra lo spirito capitalista e
    l’etica protestante di matrice calvinista. Sull’argomento
    ci viene in aiuto ancora Luttwak:
    “Ciò che nessun dibattito ha rimesso in discussione
    è la perdurante autorevolezza dei
    valori calvinisti. Per quanto spesso travolti da
    mode passeggere, per quanto spesso proclamati
    morti e sepolti, questi valori rimangono
    saldi e vigorosi appena sotto la superficie dell’America
    di oggi, determinandone in modo
    invisibile sia le scelte del vivere quotidiano sia
    gli atteggiamenti di fondo”(8). Quello americano
    è, in ultima analisi, un’agire utilitaristico
    compenetratosi pericolosamente a una visione
    del mondo. L’argomento rientra nel quadro relazionale
    e comparativo tra fenomeno economico
    e fenomeno religioso che è già stato oggetto
    di lucida analisi agli inizi del secolo scorso
    da uno dei grandi maestri delle scienze sociali,
    il tedesco Max Weber(9).
    La prepotenza del denaro falsa quindi la
    realtà non solo in America, ma anche in tutte
    le parti del mondo dove si afferma l’american
    way of life(10), esportata e globalizzata dal made
    in U.S.A.
    Affermare che la società in cui viviamo è altamente
    americanizzata, cosa che si nota soprattutto
    nei grossi agglomerati urbani, è dire
    oramai un’ovvietà: la lingua che parliamo è
    contaminata da espressioni anglofone; gli
    hamburger, così come i fast food, sono entrati
    prepotentemente nelle nostre abitudini alimentari
    e maggiormente tra i più giovani; i costumi
    consumisti ed edonisti, che sono soliti
    caratterizzare le nuove generazioni, sono d’importazione
    d’oltreoceano; i palinsesti televisivi
    sono frutto dell’emulazione di quelli dei
    networks americani; infine, gli stessi caratteri
    multirazziali, multiconfessionali, multiculturali
    delle nostre città, comprese le implicazioni
    pericolose che essi comportano, configurano
    un palese sintomo dell’incidenza yankee. Siamo
    talmente invasi dalla cultura americana
    che talvolta non riusciamo più a cogliere noi
    stessi se non mediante le loro categorie.
    Prendere coscienza della nostra identità di
    Europei e dell’importanza storica che la cultura
    europea ha sempre assunto nel contesto planetario
    non significa solamente riaffermare la
    nostra alterità, ma ridimensionare drasticamente
    l’influenza culturale americana che come
    una densa nube di sostanze tossiche asfissia
    i nostri costumi nel loro essere più intimo.
    Ribadiamo, dunque, orgogliosamente di conti-

    nuo ciò che siamo e ciò che non vorremmo
    mai divenire: il non-essere utilitaristico americano.
    Che fare?
    Poiché il mondialismo capitalista altera le
    formule della socialità comunitaria in modo
    così radicale, potrebbe sembrare che questo si
    pone al di fuori dell’iter di un normale processo
    evolutivo. Sicuramente è un discorso valido
    per quei popoli che avevano intrapreso altre
    strade ma che per una serie congiunta di motivazioni
    si sono ritrovati coinvolti. In realtà, è
    proprio la società cosiddetta “occidentale”, o
    meglio quella parte di essa più legata all’etica
    del profitto, ad aver partorito il mondialismo
    capitalista, e ora versa in un preoccupante stato
    di malessere dovuto all’estrema velocità di
    questo suo stesso processo evolutivo. Le scoperte
    scientifiche degli ultimi decenni hanno
    provocato un’accelerazione esponenziale della
    tecnologia e del sapere, e ciò si è ripercosso
    nell’organizzazione sociale in modo tale da
    stravolgerne completamente le regole. L’uomo
    si è trovato travolto da una fortissima corrente
    modernizzatrice, creata da lui stesso, che non
    ha saputo controllare. A tale evoluzione però
    non si è contemperata parallelamente quella
    legata alle sue determinanti. Per comprenderci,
    viviamo nell’epoca della comunicazione ma
    l’uomo non si è mai sentito così solo e al contempo
    non riesce a intendersi con i suoi simili:
    questo è un esempio semplice ma chiarificatore
    del disagio sociale che condiziona soprattutto
    le giovani generazioni, di quel malessere
    diffuso generato dal dislivello tra la ricchezza
    materiale, l’avere, e la povertà spirituale, l’essere.
    Una domanda viene spontanea: che fare? Innanzitutto,
    ricollocare l’economico in posizione
    subordinata non solo alla politica ma a ogni
    aspetto che abbia rilevanza per l’esistenza, per
    ridare all’uomo la necessaria spiritualità e rimetterlo
    in relazione con la trascendenza.
    Successivamente, ripartire dal microcosmo, da
    ciò che lo qualifica intimamente per ricostruirgli
    intorno, per lasciare che si evolva in
    maniera organica e completa nel suo spazio e
    nelle sue molteplici manifestazioni, per restituire
    un processo evolutivo che sia dettato dalle
    limitate e precipue condizioni di ogni contesto
    culturale e territoriale.
    In questo senso lo Stato-Leviatano ha dimostrato
    tutti i suoi limiti. Nonostante l’importanza
    storica che va indubbiamente riconosciuta,
    ora non possiamo esimerci dal denunciarne
    il fallimento. Esso infatti non riesce a
    soddisfare le primarie necessità delle parti eterogenee
    che lo compone, troppo grande per
    tutte le esigenze e al contempo troppo piccolo
    per affrontare le sfide quotidiane dei processi
    di globalizzazione economica e sociale. Nonostante
    il moltiplicarsi degli interventi statali
    nella società abbia creato una pluralità di enti
    pubblici territoriali e non territoriali al servizio
    del cittadino e deputati alla gestione economico-
    sociale, lo stato contemporaneo cede all’incalzare
    del mondialismo. “L’idea di sovranità
    - osserva Gianfranco Miglio - esprime
    un’ossessione, tutta teologica, per l’unità, per
    la Reductio ad unum, assolutamente incompatibile
    con l’odierno pluralismo sociale e politico.
    L’unità significa omogeneità. Oggi, invece,
    si tratta di organizzare politicamente le
    differenze, di valorizzarle e di difenderle, non
    di annullarle. Cosa che lo stato per sua natura
    non può fare. La nostra è l’epoca della progressiva
    scomparsa dello stato così come lo
    abbiamo conosciuto per circa quattro secoli”(
    11).
    È il momento di trovare nuove sintesi metapolitiche,
    nuove teorie, nuovi sistemi di organizzazione
    sociale che siano in grado di appagare
    le esigenze dei singoli individui e anche
    dei popoli. Idee che sappiano in questo spazio
    di tempo più universalista che universale far
    fronte alle esigenze individuali e collettive di
    appartenenza, di punti di riferimento solidi e
    concreti, di memoria, di tradizioni. La soddisfazione
    di queste esigenze preserva la salute e
    l’integrità dell’uomo quanto della sua comunità
    di appartenenza. Tale conservazione comunitaria
    si avvera, quindi, solo con il verificarsi
    di condizioni ottimali di tipo sociale, economico
    e ambientale. “La sola speranza di redenzione
    - osserva Gilberto Oneto - sta nella
    creazione di forme organiche di autonomia,
    che ricalchino le vere aggregazioni tradizionali
    della nostra gente, che si occupino del territorio
    in maniera univoca con disposizioni
    chiare e con la forte volontà di restaurarlo a
    condizioni coerenti con la storia, sulla base di
    un preciso rapporto culturale con le identità
    locali e del rispetto per tutti gli aspetti della

    sua sacralità”(12). Come scrive Eduardo Zarelli,
    ritorniamo al locale per far rinascere
    l’uomo e rinsaldare i suoi legami sociali: “Il
    nostro tempo ha bisogno di ideologie della
    pluralità vissuta, da opporre all’individualismo
    omologante. Di una visione del mondo
    fondata sul rispetto delle specificità dei popoli,
    delle culture, della religiosità, delle tradizioni,
    in alternativa ai progetti di omogeneizzazione
    consumistica. La ricomposizione di una convivenza
    «universale» ha il suo presupposto nella
    rivalutazione «relativistica» delle comunità
    locali e delle loro culture: una spinta dal basso
    verso il solidarismo comunitario, equidistante
    sia da artificiali organicismi che dalla prevaricazione
    degli interessi egoistici”(13). Dobbiamo
    ripartire dal locale per riaffermare l’appartenenza,
    “poiché - spiega il sociologo Bernardi
    - è nel concreto delle culture locali che la persona
    umana definisce la sua identità. In rapporto
    a una accumulazione culturale specifica,
    che fa riferimento all’ambiente e alla storia,
    con tutti gli elementi di cultura materiale
    ed extra materiale (dalla lingua alla ritualità
    collettiva, dall’espressione religiosa alle forme
    architettoniche, e così via), al cui centro sta
    un nucleo di valori trasmessi attraverso le generazioni.
    La cultura universale dell’uomo
    non esiste in astratto, ma nell’effettivo universo
    di culture, ciascuna delle quali è stata capace
    di soddisfare in modo specifico i bisogni
    di una data comunità. Ed è a questo scenario
    consueto che si rivolgono le persone, nel momento
    in cui aumentano le opzioni ed è necessario
    compiere delle scelte che implicano un
    criterio valoriale”(14). Le scelte implicano, oltre
    a tutto, l’accettazione o l’opposizione al deserto
    che avanza. Tertium non datur.
    Conclusione
    Riassumendo: i popoli non solo implodono
    per colpa dell’egoismo utilitaristico che porta il
    singolo a non riconoscersi più parte di una comunità,
    ma vengono nel contempo sradicati dal
    contesto temporale e spaziale che li determina e
    li colloca nella Storia, quindi privati delle possibilità
    di rigenerazione della loro unità comunitaria.
    Lo sradicamento è il presupposto necessario
    per l’effettiva realizzazione del cosiddetto
    “villaggio globale”, ovvero il tentativo di estendere
    a livello planetario il modello sociale, economico
    e politico statunitense. Un modello fondato
    sull’egoismo e sull’individualismo denunciati
    da Putnam e su un’etica che traduce tutte
    le determinanti umane in processi economici di
    produzione-consumo, finalizzati alla soddisfazione
    immediata di bisogni meramente materiali
    in modo dannosamente irrispettoso verso
    ogni essere vivente e verso la Natura.
    È stata emessa una condanna a morte per i
    popoli cui, sembra, non ci si possa appellare.
    Eppure, “mai come ora i popoli del mondo
    hanno condiviso tante cose, oggetti, capi di vestiario,
    cibi, bevande, spettacoli televisivi, musica,
    elettrodomestici, gli stessi da un capo all’altro
    del pianeta terra, e forse mai come ora
    hanno avvertito il bisogno di affermare la propria
    diversità. È un’esigenza etica, sollecitata
    dal debito che ciascun essere vivente ha consapevolezza
    di avere con le proprie origini”(15).
    Quanto gli strumenti dei processi di sradicamento
    si fanno più forti e incisivi e più intensa
    è la loro pressione sulla pelle dei popoli, tanto
    sortiscono gli effetti contrari: dai freddi fiordi
    norvegesi ai soleggiati alpeggi alpini, dagli imponenti
    megaliti bretoni alle sconfinate steppe
    russe le coscienze indomite si organizzano, i
    legami si rinsaldano, le comunità si riappropriano
    dei valori, delle credenze, e rinascono
    sotto la consapevolezza delle specifiche peculiarità
    di cui ogni collettività etno-culturale è
    portatrice e al contempo manifestazione.
    La cultura tradizionale in quanto risposta di
    ogni popolo all’esistenza e al problema della
    sopravvivenza non può essere considerata come
    sinonimo di arretratezza e di ignoranza ma
    come segno di vitalità.
    Concludendo, l’opposizione al mondialismo
    capitalista non è di certo semplice e deve essere
    condotta con ferma oculatezza. Il solo intellettualismo,
    la mera denuncia degli effetti negativi
    e delle distruzioni che esso produce non
    è sufficiente, anzi rischia di rivelarsi controproducente
    perché porterebbe il soggetto che
    la mette in opera ad alienarsi dal contesto che
    lo determina, e quindi allo sradicamento.
    Un vero antagonismo che possa rivelarsi vincente
    deve essere antitetico per essenza. La
    conservazione dell’identità e il rispetto verso
    questa nel divenire sono gli unici e validi antidoti
    al mondialismo capitalista.

  2. #2
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