di Massimiliano Carminati
Successivamente a un’analisi critica - cioè
interpretativa - dei mali che affliggono la
società moderna cosiddetta “occidentale”,
nessuno responsabile verso la natura e l’humanum
genus può esimersi dal porsi in opposizione
nei confronti delle dinamiche sociali, politiche
ed economiche in essa dominanti. Questa
posizione dipende dalla consapevolezza della
negatività di tali dinamiche, che traggono
origine da una concezione unidimensionale
dell’esistenza(1), che distrugge le determinanti
dell’esistenza dei popoli a favore di un conformismo
assoluto. Tale concezione possiede infatti
una forza così terrificante da abolire addirittura
le differenze di genere.
L’insieme delle dinamiche accennate è definito
impropriamente con due termini che vengono
usati in maniera promiscua: “globalizzazione”
e “mondialismo”. “Globalizzazione” è
una parola che da qualche anno è entrata prepotentemente
nella terminologia politica e
quotidiana, con la quale s’identifica, in realtà,
prevalentemente quel processo di universalizzazione
tecnocratica delle comunicazioni (internet
ne è assurto a simbolo) che con straordinaria
rapidità riducono, fino a eliminare,
spazio e tempo; lo stesso termine coincide
però anche con il medesimo processo universalista
in termini economici, riferendosi alla
cosiddetta new economy, o più ampiamente al
mito del mercato libero, mercato cioè regolato
dalle leggi del liberal-capitalismo. “Mondialismo”
ha invece una connotazione prettamente
politica, nella fattispecie identifica la creazione
di un governo unico mondiale secondo direttive
direzionali ed istituzionali liberali e democratiche,
o pseudo tali.
“Globalizzazione” e “mondialismo” identificano
definizioni che generano solo confusione
perché distinguono aspetti sì diversi ma inscindibili
tra loro, collaterali e complementari
di uno stesso processo che, date queste distinzioni,
non ha denominazione precisa. Come se
di una piovra conoscessimo i nomi o i termini
precipui che individuano ogni singolo tentacolo,
ma non l’animale in sé.
Fin dalla sua comparsa l’uomo ha sempre
cercato, per una questione di sopravvivenza, di
conferire una connotazione concettuale a tutto
ciò che lo ha minacciato, perché - è noto - si
riesce a contrastare solo ciò che si conosce -
nell’accezione più ampia del termine -, non ciò
che si ignora. La denominazione di questo processo,
e di conseguenza la sua identificazione,
diventa quindi indispensabile nel momento in
cui si configura come elemento ostile, distruttore
dell’identità, poiché di essa è negatore per
la sua essenza universalista che disconosce le
valenze proprie dei fattori intrinseci ed estrinseci
determinanti dell’uomo: i fattori etnici e
culturali.
Pertanto identificheremo questo processo,
che misconosce - e minaccia - l’uomo stesso,
con la locuzione “mondialismo capitalista”(2) e
in questa sede cercheremo, senza alcuna pretesa
di risultare esaustivi, di definirne aspetti e
implicazioni, di delinearne in astratto alcuni
tratti caratteristici, di porre l’accento su determinati
elementi costitutivi.
Capitalismo e dintorni
Come si evince dalla definizione, la nervatura
del mondialismo capitalista è, appunto, il liberal-
capitalismo o “turbo-capitalismo”, per
usare una terminologia cara a Edward Luttwak.
Per la sua intrinseca natura dispotica - e
dannosa - che attribuisce al denaro un principio
d’azione dominante nella sfera dei valori e
al guadagno un ruolo preminente nelle dina-
miche sociali, il turbo-capitalismo minimizza
la vita a una mera evoluzione e articolazione di
bisogni materiali da soddisfare nell’immediato,
pena l’infelicità. Esso è espressione sintomatica
di quell’ottica riduzionista che concepisce
l’esistenza umana come una circostanza di
tempo determinata e svincolata da qualsiasi legame
di tipo generazionale - temporale -, spaziale
e sociale.
Gli effetti pratici di questa visione del mondo
che antepongono a tutto la supremazia dell’economico
sono la degenerazione dell’eticità e
la disgregazione sociale, che tradotti significano
la perdita di quell’equilibrio esistenziale
che ha permesso all’uomo di sopravvivere in
armonia con se stesso e con l’ambiente: “l’economia
disumanizzata - avverte il sociologo Ulderico
Bernardi - è fonte di scontri e non di
scambi”(3).
L’assunto dell’economia capitalista è: libera
circolazione di beni, servizi, risorse, capitali e
massa umana di produttori/consumatori. Per
realizzare ciò, il sistema non ammette deviazioni
di sorta e dunque impone che qualunque
limitazione e ogni possibile interferenza siano
viste come un ostacolo da abbattere per esigenze
vitali. Si eliminano così le frontiere, si
cancellano memoria e senso dell’appartenenza,
si omologano le differenze: “l’intento è quello
di puntare ancora una volta alla economicizzazione
del mondo in ogni sua componente:
umana, vegetale, animale, minerale. […]. Corollari
a tanta certezza sono il primato della
tecnica, comunque applicata; l’indifferenza alle
specificità delle culture; il supremo metro
del prezzo, assunto come misura d’ogni valore.
L’uniformità come progetto, o per meglio
l’intenzione di costruire un mondo conforme
alla logica dell’estremizzazione liberista, vede
la sua testa serpentina mordere oramai la propria
coda, chiudendo il cerchio della vocazione
totalitaria. Enormi mezzi per incommensurabili
interessi. A cui tutto deve piegarsi: popoli,
continenti, etiche, religioni.”(4)
La globalizzazione economica è l’allargamento
dell’area geografica dove opera il liberal-
capitalismo. Negli intenti dei suoi promotori
la massima liberalizzazione del commercio
coincide con la creazione di un libero mercato
globale senza alcun genere di barriere. Gli
Stati moderni in quanto entità giuridiche sovrane
in uno spazio delimitato sono d’intralcio
alla liberalizzazione globale del commercio e
pertanto vengono - dove è possibile, ovvero
ovunque - smantellati o privati della facoltà decisionale
e d’imposizione in materia economica
grazie alla costituzione di grattacieli istituzionali
in nome di presunte volontà politiche
popolari. Un esempio pratico e per tutti comprensibile
è rappresentato dall’Unione Europea.
Eliminare i confini, aggirare i dazi doganali,
livellare le diverse tassazioni nazionali con accordi
interstatali e con direttive dell’organizzazione
non governativa di turno, sono azioni
che rientrano perfettamente nella logica economica
in oggetto al fine di prevenire possibili
posizioni protezionistiche degli Stati e ogni
forma, anche velleitaria, d’autarchia. È vietata
ogni forma di autosufficienza, si deve per forza
dipendere da qualcosa o qualcuno, o meglio, si
deve per forza dipendere esclusivamente dal liberal-
capitalismo e dal suo sistema di commercio:
le uniche regole accettate sono quelle
che disciplinano il libero mercato.
All’abbattimento delle barriere statali partecipa
con una compiaciuta complicità anche il
mondo politico. Quel mondo, però, modernamente
inteso - quindi snaturato delle sue originarie
funzioni di tutela e di salvaguardia della
propria comunità, di garante di giustizia, di
propugnatore del bene comune - la cui autorità
si pone supinamente alle dipendenze dell’economia.
Il sistema democratico, che si fonda
sul principio della partecipazione per l’organizzazione,
l’istituzionalizzazione e la gestione
del popolo sul popolo, viene privato di ogni significato
e relegato a mero strumento cautelativo
dei grandi interessi finanziari che lo controllano.
Il politico da parte sua, lontano anni
luce dalle teorizzazioni di Carl Schmitt, è ormai
uno squallido mediatore delle diverse
compagini occupazionali in mano ai “poteri
forti” del mondo economico, la grande finanza.
Le prerogative politiche dei popoli e la sovranità
vengono quindi svendute al migliore offerente.
Una piaga sociale: l’individualismo
Nuovi e maggiori problemi si pongono
quando l’incidenza dell’economia è talmente
pervasiva da condizionare totalmente altri
aspetti sociali come il comportamento del sin-
golo in relazione con se stesso e con la comunità
di cui è, quantitativamente e qualitativamente,
parte integrante. Il liberal-capitalismo
possiede questo potere di condizionamento:
acuisce le patologie che affliggono la nostra
società, creando complicazioni ancora più gravi.
È il caso dell’individualismo, prodotto filosofico
del liberalismo.
Per individualismo intendiamo quella concezione
esistenziale che tende a considerare i diritti,
le esigenze e le azioni del singolo, dell’individuo,
assoluti e prevalenti su quelli della comunità.
L’uomo non si riconosce più parte di
un tutto organico che lo supera e ingloba, ma
parte a sé stante di un corpo sociale frazionato,
i cui componenti, i singoli individui, non sono
più accomunati da un identico destino ma da
tanti dissociati tra loro. Questi innumerevoli
destini, questi personalismi, non viaggiano più
nel cosmo sociale di una comunità in un’unica
direzione ma in quelle più disparate e diversificate,
e gli scontri inevitabilmente non mancano.
La forma lascia il posto al caos.
A esacerbare la conflittualità intervengono,
poi, due fattori determinanti propri del turbocapitalismo:
l’economicizzazione del quotidiano
e il principio di concorrenza. Il primo consiste
nella supremazia dell’economico attraverso
la quantificazione in potenzialità monetarie
di ogni aspetto della quotidianità. Di fatto le
società divengono delle associazioni contrattualistiche
la cui coesione è garantita unicamente
da legami mercificati e mercificabili: il
denaro è il nuovo collante sociale. Il secondo
fattore non è in sé deleterio per una comunità,
ma il sistema capitalista lo trasforma, o meglio
lo deforma. Esso pone l’individuo, l’atomo sociale,
in accesa concorrenza con l’altro: si tratta
della consacrazione di un cinico gioco di affermazione/
sopravvivenza regolamentato -
questo basterebbe per esplicitarne tutta la sua
mostruosità - dalla speculazione volta al profitto.
La negatività di questo principio emerge da
una selezione non più incentrata sul merito,
sulle virtù, sulle qualità ma da espedienti poco
nobili che alimentano i lati negativi della personalità
umana: furbizia e cinismo trionfano
sulla capacità; egoismo e invidia feriscono a
morte i legami sociali. L’economicismo mette
in scena un mesto gioco in cui vince solamente
la solitudine. L’interazione sociale prende
così le sembianze di una pratica perversa e
dannosa dove gli interessi privati travalicano
l’interesse collettivo, dove il bene comune è sacrificato
a quello individuale.
L’individualismo fomentato dall’utilitarismo
capitalista disgrega e distrugge dall’interno i
fautori della storia, i popoli, ma non solo. Questo
processo disgregativo ha, paradossalmente,
l’assoluta arroganza e l’erronea presunzione di
ritenersi il modello migliore di sviluppo e organizzazione
che l’uomo abbia inventato, stadio
ultimo dell’evoluzione economico-sociale e
nel contempo unico portavoce credibile della
libertà. Ma di una falsa libertà perché, spiega
Alain de Benoist, “la libertà dei liberali è in
realtà prima di tutto libertà di possedere. Non
risiede nell’essere ma nell’avere. L’individualismo,
nel senso moderno del termine, è la filosofia
che considera l’individuo l’unica realtà e
lo assume quale principio di ogni valutazione.
Questo individuo viene considerato in sé,
astraendolo da ogni contesto sociale e culturale
[perché] la libertà liberale presuppone
pertanto che gli individui possano prescindere
dalle proprie origini, dal proprio ambiente, dal
contesto nel quale vivono e ove esercitano le
proprie scelte, cioè da tutto quello che fa sì
che siano tali quali sono e non altro.”(5) I presupposti
dell’individualismo liberista sono tanto
sbagliati quanto deleteri gli effetti pratici
sulla socialità: un uomo infatti non può prescindere
dalle sue origini perché non avendo
coscienza del suo passato e quindi di sé, non
ha un futuro; un uomo non può essere tolto
dal suo ambiente perché, in quanto essere finito
e animale, il suo ambiente è la Natura e per
definizione ne è totalmente avvolto, collegato e
dipendente; nello stesso modo un uomo non
può essere estirpato dal contesto nel quale vive
e ove esercita le sue scelte perché in queste ha
percezione di ciò che è, confrontandosi con
l’altro, e si traduce in realtà, rendendosi fautore
insieme alla comunità del proprio destino.
La libertà professata dal liberismo non risiede
nell’ordine naturale delle cose ma nella artificiosa
trasposizione su un piano valoriale dell’utilitarismo,
ed è, pertanto, inconfutabilmente
distruttiva.
Stati Uniti dal denaro
A riguardo il modello sociale più esemplificativo
ed esplicativo è sicuramente quello statunitense.
Pare, inoltre, che se ne stiano accor-
gendo anche gli stessi americani. Il politologo
Robert D. Putnam nel suo ultimo lavoro, Bowling
Alone: The collapse and revival of the
American community, denuncia l’egoismo
crescente e la divisione atomistica della sua società:
“alla fine del ventesimo secolo - scrive
Putnam - i semplici cittadini americani condividono
un sentimento di malessere civico. Siamo
ragionevolmente soddisfatti delle nostre
prospettive economiche, il che non è molto
sorprendente, dopo un’espansione di una durata
senza precedenti, ma non siamo altrettanto
convinti di essere sulla strada giusta dal
punto di vista morale o culturale”.(6)
Putnam, professore alla Harvard University e
direttore del Centro per gli Affari internazionali
di quell’ateneo, illustra tramite una serie indovinata
di esempi il declino dell’associazionismo
e della partecipazione civile e politica negli
Stati Uniti dagli anni Sessanta ai nostri
giorni, ovvero ciò che nel secolo XIX Alexis de
Tocqueville aveva individuato, nella sua opera
Democrazia in America, come uno degli strumenti
della libertà.
“I vincoli comunitari sono importanti anche
per le regole di condotta che determinano”(7);
quando questi vincoli si allentano la condotta
subisce un’involuzione e va alla deriva: è lapalissiano
che il benessere economico di un popolo
non vada di pari passo con il suo benessere
generale. Ciò è evidentissimo nella società
americana, tuttavia Putnam tende a non riconoscerlo.
Infatti la sua analisi pecca di un errore
sostanziale che trasuda dallo scritto: il mancato
riconoscimento dell’economicismo capitalista
quale causa prima dei problemi descritti
e del disagio sociale. L’impossibilità di un’obiettiva
disamina è giustificata dalla cultura
d’appartenenza di Putnam, una cultura viziata
dallo stretto rapporto tra lo spirito capitalista e
l’etica protestante di matrice calvinista. Sull’argomento
ci viene in aiuto ancora Luttwak:
“Ciò che nessun dibattito ha rimesso in discussione
è la perdurante autorevolezza dei
valori calvinisti. Per quanto spesso travolti da
mode passeggere, per quanto spesso proclamati
morti e sepolti, questi valori rimangono
saldi e vigorosi appena sotto la superficie dell’America
di oggi, determinandone in modo
invisibile sia le scelte del vivere quotidiano sia
gli atteggiamenti di fondo”(8). Quello americano
è, in ultima analisi, un’agire utilitaristico
compenetratosi pericolosamente a una visione
del mondo. L’argomento rientra nel quadro relazionale
e comparativo tra fenomeno economico
e fenomeno religioso che è già stato oggetto
di lucida analisi agli inizi del secolo scorso
da uno dei grandi maestri delle scienze sociali,
il tedesco Max Weber(9).
La prepotenza del denaro falsa quindi la
realtà non solo in America, ma anche in tutte
le parti del mondo dove si afferma l’american
way of life(10), esportata e globalizzata dal made
in U.S.A.
Affermare che la società in cui viviamo è altamente
americanizzata, cosa che si nota soprattutto
nei grossi agglomerati urbani, è dire
oramai un’ovvietà: la lingua che parliamo è
contaminata da espressioni anglofone; gli
hamburger, così come i fast food, sono entrati
prepotentemente nelle nostre abitudini alimentari
e maggiormente tra i più giovani; i costumi
consumisti ed edonisti, che sono soliti
caratterizzare le nuove generazioni, sono d’importazione
d’oltreoceano; i palinsesti televisivi
sono frutto dell’emulazione di quelli dei
networks americani; infine, gli stessi caratteri
multirazziali, multiconfessionali, multiculturali
delle nostre città, comprese le implicazioni
pericolose che essi comportano, configurano
un palese sintomo dell’incidenza yankee. Siamo
talmente invasi dalla cultura americana
che talvolta non riusciamo più a cogliere noi
stessi se non mediante le loro categorie.
Prendere coscienza della nostra identità di
Europei e dell’importanza storica che la cultura
europea ha sempre assunto nel contesto planetario
non significa solamente riaffermare la
nostra alterità, ma ridimensionare drasticamente
l’influenza culturale americana che come
una densa nube di sostanze tossiche asfissia
i nostri costumi nel loro essere più intimo.
Ribadiamo, dunque, orgogliosamente di conti-
nuo ciò che siamo e ciò che non vorremmo
mai divenire: il non-essere utilitaristico americano.
Che fare?
Poiché il mondialismo capitalista altera le
formule della socialità comunitaria in modo
così radicale, potrebbe sembrare che questo si
pone al di fuori dell’iter di un normale processo
evolutivo. Sicuramente è un discorso valido
per quei popoli che avevano intrapreso altre
strade ma che per una serie congiunta di motivazioni
si sono ritrovati coinvolti. In realtà, è
proprio la società cosiddetta “occidentale”, o
meglio quella parte di essa più legata all’etica
del profitto, ad aver partorito il mondialismo
capitalista, e ora versa in un preoccupante stato
di malessere dovuto all’estrema velocità di
questo suo stesso processo evolutivo. Le scoperte
scientifiche degli ultimi decenni hanno
provocato un’accelerazione esponenziale della
tecnologia e del sapere, e ciò si è ripercosso
nell’organizzazione sociale in modo tale da
stravolgerne completamente le regole. L’uomo
si è trovato travolto da una fortissima corrente
modernizzatrice, creata da lui stesso, che non
ha saputo controllare. A tale evoluzione però
non si è contemperata parallelamente quella
legata alle sue determinanti. Per comprenderci,
viviamo nell’epoca della comunicazione ma
l’uomo non si è mai sentito così solo e al contempo
non riesce a intendersi con i suoi simili:
questo è un esempio semplice ma chiarificatore
del disagio sociale che condiziona soprattutto
le giovani generazioni, di quel malessere
diffuso generato dal dislivello tra la ricchezza
materiale, l’avere, e la povertà spirituale, l’essere.
Una domanda viene spontanea: che fare? Innanzitutto,
ricollocare l’economico in posizione
subordinata non solo alla politica ma a ogni
aspetto che abbia rilevanza per l’esistenza, per
ridare all’uomo la necessaria spiritualità e rimetterlo
in relazione con la trascendenza.
Successivamente, ripartire dal microcosmo, da
ciò che lo qualifica intimamente per ricostruirgli
intorno, per lasciare che si evolva in
maniera organica e completa nel suo spazio e
nelle sue molteplici manifestazioni, per restituire
un processo evolutivo che sia dettato dalle
limitate e precipue condizioni di ogni contesto
culturale e territoriale.
In questo senso lo Stato-Leviatano ha dimostrato
tutti i suoi limiti. Nonostante l’importanza
storica che va indubbiamente riconosciuta,
ora non possiamo esimerci dal denunciarne
il fallimento. Esso infatti non riesce a
soddisfare le primarie necessità delle parti eterogenee
che lo compone, troppo grande per
tutte le esigenze e al contempo troppo piccolo
per affrontare le sfide quotidiane dei processi
di globalizzazione economica e sociale. Nonostante
il moltiplicarsi degli interventi statali
nella società abbia creato una pluralità di enti
pubblici territoriali e non territoriali al servizio
del cittadino e deputati alla gestione economico-
sociale, lo stato contemporaneo cede all’incalzare
del mondialismo. “L’idea di sovranità
- osserva Gianfranco Miglio - esprime
un’ossessione, tutta teologica, per l’unità, per
la Reductio ad unum, assolutamente incompatibile
con l’odierno pluralismo sociale e politico.
L’unità significa omogeneità. Oggi, invece,
si tratta di organizzare politicamente le
differenze, di valorizzarle e di difenderle, non
di annullarle. Cosa che lo stato per sua natura
non può fare. La nostra è l’epoca della progressiva
scomparsa dello stato così come lo
abbiamo conosciuto per circa quattro secoli”(
11).
È il momento di trovare nuove sintesi metapolitiche,
nuove teorie, nuovi sistemi di organizzazione
sociale che siano in grado di appagare
le esigenze dei singoli individui e anche
dei popoli. Idee che sappiano in questo spazio
di tempo più universalista che universale far
fronte alle esigenze individuali e collettive di
appartenenza, di punti di riferimento solidi e
concreti, di memoria, di tradizioni. La soddisfazione
di queste esigenze preserva la salute e
l’integrità dell’uomo quanto della sua comunità
di appartenenza. Tale conservazione comunitaria
si avvera, quindi, solo con il verificarsi
di condizioni ottimali di tipo sociale, economico
e ambientale. “La sola speranza di redenzione
- osserva Gilberto Oneto - sta nella
creazione di forme organiche di autonomia,
che ricalchino le vere aggregazioni tradizionali
della nostra gente, che si occupino del territorio
in maniera univoca con disposizioni
chiare e con la forte volontà di restaurarlo a
condizioni coerenti con la storia, sulla base di
un preciso rapporto culturale con le identità
locali e del rispetto per tutti gli aspetti della
sua sacralità”(12). Come scrive Eduardo Zarelli,
ritorniamo al locale per far rinascere
l’uomo e rinsaldare i suoi legami sociali: “Il
nostro tempo ha bisogno di ideologie della
pluralità vissuta, da opporre all’individualismo
omologante. Di una visione del mondo
fondata sul rispetto delle specificità dei popoli,
delle culture, della religiosità, delle tradizioni,
in alternativa ai progetti di omogeneizzazione
consumistica. La ricomposizione di una convivenza
«universale» ha il suo presupposto nella
rivalutazione «relativistica» delle comunità
locali e delle loro culture: una spinta dal basso
verso il solidarismo comunitario, equidistante
sia da artificiali organicismi che dalla prevaricazione
degli interessi egoistici”(13). Dobbiamo
ripartire dal locale per riaffermare l’appartenenza,
“poiché - spiega il sociologo Bernardi
- è nel concreto delle culture locali che la persona
umana definisce la sua identità. In rapporto
a una accumulazione culturale specifica,
che fa riferimento all’ambiente e alla storia,
con tutti gli elementi di cultura materiale
ed extra materiale (dalla lingua alla ritualità
collettiva, dall’espressione religiosa alle forme
architettoniche, e così via), al cui centro sta
un nucleo di valori trasmessi attraverso le generazioni.
La cultura universale dell’uomo
non esiste in astratto, ma nell’effettivo universo
di culture, ciascuna delle quali è stata capace
di soddisfare in modo specifico i bisogni
di una data comunità. Ed è a questo scenario
consueto che si rivolgono le persone, nel momento
in cui aumentano le opzioni ed è necessario
compiere delle scelte che implicano un
criterio valoriale”(14). Le scelte implicano, oltre
a tutto, l’accettazione o l’opposizione al deserto
che avanza. Tertium non datur.
Conclusione
Riassumendo: i popoli non solo implodono
per colpa dell’egoismo utilitaristico che porta il
singolo a non riconoscersi più parte di una comunità,
ma vengono nel contempo sradicati dal
contesto temporale e spaziale che li determina e
li colloca nella Storia, quindi privati delle possibilità
di rigenerazione della loro unità comunitaria.
Lo sradicamento è il presupposto necessario
per l’effettiva realizzazione del cosiddetto
“villaggio globale”, ovvero il tentativo di estendere
a livello planetario il modello sociale, economico
e politico statunitense. Un modello fondato
sull’egoismo e sull’individualismo denunciati
da Putnam e su un’etica che traduce tutte
le determinanti umane in processi economici di
produzione-consumo, finalizzati alla soddisfazione
immediata di bisogni meramente materiali
in modo dannosamente irrispettoso verso
ogni essere vivente e verso la Natura.
È stata emessa una condanna a morte per i
popoli cui, sembra, non ci si possa appellare.
Eppure, “mai come ora i popoli del mondo
hanno condiviso tante cose, oggetti, capi di vestiario,
cibi, bevande, spettacoli televisivi, musica,
elettrodomestici, gli stessi da un capo all’altro
del pianeta terra, e forse mai come ora
hanno avvertito il bisogno di affermare la propria
diversità. È un’esigenza etica, sollecitata
dal debito che ciascun essere vivente ha consapevolezza
di avere con le proprie origini”(15).
Quanto gli strumenti dei processi di sradicamento
si fanno più forti e incisivi e più intensa
è la loro pressione sulla pelle dei popoli, tanto
sortiscono gli effetti contrari: dai freddi fiordi
norvegesi ai soleggiati alpeggi alpini, dagli imponenti
megaliti bretoni alle sconfinate steppe
russe le coscienze indomite si organizzano, i
legami si rinsaldano, le comunità si riappropriano
dei valori, delle credenze, e rinascono
sotto la consapevolezza delle specifiche peculiarità
di cui ogni collettività etno-culturale è
portatrice e al contempo manifestazione.
La cultura tradizionale in quanto risposta di
ogni popolo all’esistenza e al problema della
sopravvivenza non può essere considerata come
sinonimo di arretratezza e di ignoranza ma
come segno di vitalità.
Concludendo, l’opposizione al mondialismo
capitalista non è di certo semplice e deve essere
condotta con ferma oculatezza. Il solo intellettualismo,
la mera denuncia degli effetti negativi
e delle distruzioni che esso produce non
è sufficiente, anzi rischia di rivelarsi controproducente
perché porterebbe il soggetto che
la mette in opera ad alienarsi dal contesto che
lo determina, e quindi allo sradicamento.
Un vero antagonismo che possa rivelarsi vincente
deve essere antitetico per essenza. La
conservazione dell’identità e il rispetto verso
questa nel divenire sono gli unici e validi antidoti
al mondialismo capitalista.