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    Predefinito La strana storia della socializzazione

    Durante la Repubblica Sociale, Mussolini pensò di coronare il progetto - tenuto a bagnomaria durante il Regime - di rivoluzionare il tessuto sociale ed economico italiano attraverso la cogestione delle aziende. Nella RSI la socializzazione avanzò però a fatica, osteggiata da ambienti dello stesso Fascismo, dagli industriali, dai tedeschi, dagli antifascisti. Tuttavia alcuni passi vennero fatti creando precedenti clamorosi - confinati nell’obblio nel dopoguerra - di collaborazione tra fascisti, comunisti e socialisti. Esperienze che le stesse sinistre - ufficialmente ostili alla socializzazione - cercarono di riproporre nel dopoguerra. Ma il vento era ormai cambiato per sempre. –

    di Stefano Fabei

    Il caos assoluto in cui l'8 settembre 1943 si ritrovo l'Italia costituì l'evento fondamentale di un processo storico che vide sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato con la Nazione, determinando non solo la successiva divisione del Paese in due parti, ma anche l'esplosione della guerra civile. Il tragico momento costituì tuttavia per il Fascismo l'occasione per rilanciare con maggior forza,nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, il progetto di rappresentare una (terza via> tra capitalismo e Comunismo: un ritorno alle origini rivoluzionarie. Nel mondo del lavoro la parola d’ordine fu <socializzazione>. Il termine, emerso già nei primi mesi della RSI e nel programma del Partito fascista repubblicano che nel novembre del ry43 aveva tenuto a Verona il suo primo, e ultimo, congresso, fu in modo ufficiale adottato, anche su sollecitazione di Nicola Bombacci, il 13 gennaio 1944, quando il Consiglio dei ministri di Salo approvi una <Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell'economia italiana>. La repubblica del Duce prevedeva la partecipazione integrale del popolo in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e il suo contributo <alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione con il suo lavoro, con la sua attività politica e sociale>. Secondo il 12°punto del Manifesto di Verona, in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai avrebbero dovuto cooperare - attraverso una conoscenza diretta della gestione - alla fissazione dei salari, nonché <all'equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forme di cooperativa parasindacale.

    A pavolini
    Era riconosciuta non solo l'importanza del capitale <produttivo>, che investiva moneta per creare l'impresa, ma anche quella di chi con il braccio e con la mente forniva elementi altrettanto fondamentali per l'attività economica e sociale.
    In sintesi: né dominio della moneta, né espropri statali, bensì armonizzazione degli elementi in un rapporto di condivisione delle responsabilità, e degli utili, affinché nessuno si sentisse tanto superiore da ritenersi depositario del destino dell'impresa e, di conseguenza, della Nazione. Dopo aver dichiarato che la RSI assumeva la gestione diretta di aziende che controllavano i settori essenziali per l'indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materia prima o di energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica nazionale, la sopra citata Premessa> affermava senza possibilità di equivoco che la gestione dell'azienda era socializzata. Tutti i lavoratori avrebbero preso parte all'amministrazione delle imprese a capitale pubblico tramite consigli di gestione, eletti da loro stessi e avrebbero deliberato sia sulle questioni riguardanti la produzione nel quadro del <piano unitario nazionale> sia sulla stessa <congrua> ripartizione degli utili. Per quanto riguardava le aziende a capitale privato, gli organi di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei lavoratori in un numero almeno pari a quello dei rappresentanti eletti dall'assemblea degli azionisti.

    Il 12 febbraio 1944 fu emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese (pubblicato in seguito, il 3o giugno, sulla Gazzetta Ufficiale>) che limitava le aziende private da socializzare a quelle con almeno un milione di capitale o almeno cento operai. In merito agli utili da ripartire, dopo Ie assegnazioni di legge alla riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali, era approvata una remunerazione del capitale conferito all'impresa in una misura non superiore a un massimo fissato ogni anno per i singoli settori produttivi dal Comitato dei ministri per la tutela del risparmio e I 'esercizio del credito. Gli utili,, detratte queste assegnazioni, sarebbero stati ripartiti fra i lavoratori in rapporto all'entità delle remunerazioni percepite durante I 'anno: questo compenso non doveva comunque superare il 3o per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell'esercizio. Con il decreto suddetto era disposto inoltre il primato in materia del ministro dell'Economia corporativa - il cui titolare, Angelo Tarchi, era espressione della componente tecnocratica e mediatrice nei confronti degli ambienti industriali, e quindi oppositore di coloro che auspicavano sia l'immediata instaurazione dello <Stato del lavoro, sia il pieno superamento del sistema corporativo - tanto nell'immediato, con la supervisione dei nuovi statuti delle diverse categorie di imprese, quanto, in prospettiva, mediante la facoltà di procedere allo scioglimento dei consigli di gestione, di sostituire i vertici aziendali, di controllare la fase di passaggio dalla gestione privatistica a quella socializzata, e di commissariare le aziende di cui lo Stato ritenesse opportuno assumere la proprietà.

    Angelo Tarchi
    Angelo Tarchi (1897-1974) Ministro dell'Economia Corporativa

    Con il decreto del 12 febbraio 1944, la Repubblica Sociale Italiana si proponeva di <stare con il popolo, superando quell'andare verso il popolo> che era stato tipico del Regime. Se alla socializzazione guardarono con simpatia alcuni ambienti sindacalisti, sospetti e timori circa i suoi esiti e la sua rapida applicazione furono, più o meno tacitamente espressi, dagli ambienti conservatori. Ciò spiega il ritardo con cui il decreto fu pubblicato sulla <<Gazzetta Ufficiale>, in contemporanea con il decreto che
    ne fissava al 3o giugno l’entrata in vigore. Un terzo decreto, datato 3o agosto 1944, dettò norme per una sua più sollecita attuazione. Malgrado il ro luglio e il 13 settembre fosse stata disposta la socializzazione delle aziende dell'IRI e del settore dei giornali e dell'editoria, i primi effettivi cambiamenti si ebbero solo alla fine del ry44 Una settimana dopo l'ultimo bagno di folla ricevuto dal Duce a Milano e il discorso al Lirico, fu pubblicato il 22 dicembre il decreto con le norme attuative e integrative della socializzazione. Il documento, accogliendo le ragioni dei sindacalisti,
    attribuiva maggiori poteri al sindacato, cui spettava il compito di soprintendere alle elezioni interne alle aziende; ai consigli di gestione, che potevano nominare il capo dell'impresa, convocare riunioni del consiglio e presiederle in mancanza del capo dell'impresa; ai rappresentanti dei lavoratori, nell'assemblea, non licenziabili né trasferibili in dipendenza dell'attività svolta nell’esercizio della loro carica, Il r9 gennaio 1945 fu istituito il ministero del Lavoro, retto da Giuseppe Spinelli, che prevedeva una Direzione generale per la socializzazione e assorbiva i poteri del ministero dell'Economia corporativa. Soppresso quest'ultimo, Tarchi passò a reggere il nuovo ministero della Produzione industriale. La Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 1945 pubblicò il decreto sull’ordinamento della Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti, creata il 20 dicembre 1943. Questa doveva riunire le precedenti confederazioni per superare lo sbloccamento del 1928, mentre a fine dicembre del 1944 si era disposta la liquidazione delle confederazioni padronali.
    Mussolini a milanoDall'inizio dell'ultimo anno di guerra presso il ministero del Lavoro si assistette a una frenetica attività socializzatrice. Le aziende socializzate sarebbero state 76, con r mila dipendenti e 4.fl9 milioni di lire di capitale. Ancora oggi poco si conosce in merito all'effettiva applicazione dei provvedimenti. Ciononostante è possibile affermare, perlomeno nel caso della FIAT della maggioranza delle imprese socializzate, che la fine del Fascismo giunse prima che le misure disposte per decreto dalle autorità repubblicane avessero un concreto impatto sulle realtà aziendali sul piano della predisposizione di statuti e decreti relativi alle singole imprese. Il progetto di socializzazione della RSI naufragò per vari motivi, oltre che per il momento tardivo della sua messa in atto: determinanti furono le divergenze interne allo Stato fascista repubblicano riguardo a misure che rimasero inerti per molti mesi, in una situazione definita <rivoluzionaria>, ma tale più sul piano delle parole che su quello dei fatti. Decisive furono sia l’ostilità dei tedeschi, preoccupati per le possibili conseguenze nel campo della produzione bellica, e desiderosi di appropriarsi di macchine e materiali dell'industria italiana, sia la contrarietà degli esponenti di quest’ultima, i quali boicottarono, anche grazie ai legami con la grande industria germanica, i provvedimenti che pure fecero finta di approvare, cercando di rinviarli quanto più possibile. Se molti operai disertarono le elezioni delle Commissioni interne, è anche vero che a esse guardarono con interesse e per vari motivi certi ambienti della sinistra antifascista. Alcuni esponenti di quest'ultima in esilio all'estero erano rientrati in Italia, convinti che, liberato dai vincoli reazionari imposti dal regime, il Fascismo potesse realizzare finalmente le sue pagine di politica sociale più avanzata. Era il momento della <politica dei ponti> che vedeva alcuni antifascisti guardare con interesse alla repubblica del Duce; potremmo, fra i tanti, citare a proposito i fratelli Bergamo, rientrati dalla Francia in nome dei vecchi ideali sociali, repubblicani e antiborghesi. Alcuni rivoluzionari di sinistra ritennero che la politica delle <mine sociali> potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo Fascismo. A Terni nell'ultimo periodo della RSI, si assistette all'elezione delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL. Nella
    città umbra il Fascismo volle giocare la carta delle commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni (con il quale il 2 ottobre 1925 1l Regime aveva avocato a sé la rappresentanza sindacale con il consenso di Confindustria, che da quel momento avrebbe avuto come referenti sindacali le Corporazioni fasciste e non più i liberi sindacati) e in questo capitolo della storia del sindacalismo entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra. In principio la loro posizione ufficiale fu di <combattere in tutte le forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni anche facendo dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero ancora tali funzioni>. Tuttavia questo non fu possibile per la mancanza in Umbria di organizzazione sistematica dell'antifascismo, come attesta la documentazione conservata nell'archivio del PCI. il fronte antifascista in questa regione, debole anche per le diffidenze esistenti al suo interno, accettò quindi che, accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità repubblicane, fossero eletti suoi elementi, comunisti, socialisti e anarchici. Questa scelta finora occultata, perché imbarazzante, può essere spiegata con la disorganizzazione dei comunisti, con lo scarso numero dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, con la diffidenza esistente tra le forze di sinistra, con la volontà - comune anche ai fascisti - di opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ci furono, soprattutto tra i comunisti, iniziali opposizioni e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi, però, ai <compagni> occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le
    Acciaierie terni
    Le Acciaierie di Terni nel 1930
    commissioni elette, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con gli organi direttivi degli stabilimenti <su un terreno antitedesco>, e collegarle al <comitato di partito dell’officina". Pertanto, quando il 1° marzo 1944, alla <Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della categoria operai, sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l'assenso dei sindacati fascisti, elementi comunisti, socialisti e anarchici. Loro obiettivi erano opporsi all'asportazione dei macchinari industriali da parte dei nazisti e inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per anni erano stati esclusi.
    Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro Togliatti, in vista dell'imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione,
    essi ne avrebbero rivendicato il diritto: <Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie...u. Un implicito riconoscimento del fatto che anche l'odiata dittatura aveva compiuto qualcosa di buono per i lavoratori. Negli stabilimenti siderurgici della <Terni>, accanto ai sindacalisti Maceo Carloni e Faliero
    Rocchiccioli, firmatari nel r94o del contratto dei metalmeccanici e ad altri fascisti come l'operaio Bruno Marini e l'impiegato Alvaro Garzuglia, furono eletti il socialista
    Giuseppe Scalzone per la categoria impiegati; per la categoria operai: Ettore Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista; l’ex confinato socialista Umberto Bisci; l’anarchico Gioacchino Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato sovversivo. L'esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni impartite, qualche giorno dopo, 717 marzo, dal commissario nazionale del lavoro, per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non iscritti. Il decreto proibiva a chiunque di assumere per qualsiasi motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma delle vigenti leggi, di esclusiva competenza delle organizzazioni
    Manifesto antifascista
    Manifesto Antifascista che bolla come truffa la socializzazione
    sindacali legalmente riconosciute>. Ma nelle settimane precedenti la liberazione di Terni, preoccupati dalla tutela del lavoratore e dalla volontà di salvaguardare l'esistenza delle acciaierie, nelle commissioni di fabbrica lavorarono a stretto contatto fascisti e antifascisti. Cosa indusse molti di questi ultimi ad accettare tale politica di collaborazione? Opportunismi a parte, forse il timore che i tedeschi riuscissero a rovesciare le sorti del conflitto in corso, sicuramente la debolezza di cui soffriva il fronte antifascista, escluso per 20 anni dal sindacato, nel quale aspirava a tornare con un ruolo di rilievo, la volontà di opporsi all'asportazione dei macchinari messa in atto dai tedeschi. Ci fu forse anche chi si illuse che la socializzazione potesse segnare una svolta nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori d'opera, permettendo una maggiore giustizia sociale.
    Al di là di ciò che poterono fare, anche per ragioni di tempo, gli eletti nelle commissioni di fabbrica a Terni, va sottolineato come quanto qui avvenuto sia significativo e non a caso abbia costituito un capitolo imbarazzante per una certa storiografia che ha preferito sorvolare in merito. Tornando, più in generale, al progetto sulla socializzazione elaborato durante la RSI, va detto che esso non sarebbe
    andato del tutto perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti. Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia, fin dal 17 aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini. Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di socializzazione delle imprese, dichiaro decaduti gli organi da questa creati, sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende attraverso <nuovi e democratici> consigli di gestione; condannò gli <obiettivi antinazionali> della socializzazione con cui il Fascismo aveva tentato di <aggiogare le masse lavoratrici dell'Italia occupata al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco>; riconobbe <l'alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell'Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa " socializzazione" fascista>.
    Intenzione del CLNAI era <assicurare, all'atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il potenziamento dell'attività produttiva, nello spirito di un'effettiva solidarietà nazionale>. Il decreto abrogo la socializzazione affidando a nuovi consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la materia. Il decreto del CLNAI, accettato a malincuore dagli operai, non ricevette tuttavia l'approvazione degli angloamericani.
    Se il più importante sindacato, la comunista CGIL, il 23 settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di <diretta partecipazione delle maestranze alla gestione
    dell'azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione>, l'atteggiamento ostile degli imprenditori non permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione vera e propria era esclusa. Nel novembre del ry47 fu decisa l'istituzione di una commissione
    speciale con il compito di elaborare la <Carta> dei consigli di gestione, ma non fu nemmeno eletta. Laddove istituiti, i consigli sopravvissero fino all'inizio degli anni Cinquanta, solo come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati. Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla fine del ry44 era stato stipulato un patto
    per la partecipazione diretta di operai, tecnici e impiegati alla gestione dell'impresa. Il gennaio ry45, 1l leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, parlando di questo patto al congresso della CGIL, affermo che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti, dal momento che affermava il principio che il progresso produttivo non si
    svolge come qualcosa di estraneo ai lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende>. Il patto di Terni divento, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e da applicare alle altre
    imprese italiane. Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo dopoguerra.
    Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, deputato socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua città, proponendo un emendamento al 43" articolo della Costituzione e chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende, <per mezzo dei propri rappresentanti in un comitato paritetico con i rappresentanti dell'impresa>. Poi però lo ritiro dichiarando di votare il testo della Commissione per non causare divisioni. Con la vittoria alleata e l’ingresso dell'Italia nell'area sotto l'egemonia statunitense era ormai prevalsa una linea politica neoliberista con cui si torno alla situazione che il ventennio non era riuscito a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica. Il sindacato fu ricondotto nell'ambito dell'associazionismo <libero e volontario>, con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia della classe imprenditoriale sia dello Stato. Il sogno di una confederazione unitaria del sindacalismo italiano era destinato a non realizzarsi mai più.
    Stefano Fabei

    Nota: articolo estrapolato dalla rivista Storia in rete, n.105-106, Lugio-Agosto 2014

    https://proscritti.blogspot.com/2014...izzazione.html

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    Predefinito Re: La strana storia della socializzazione

    La «sinistra» nella Repubblica Sociale Italiana

    Roberto Vultaggio

    Pur minoritaria e priva di grossi centri decisionali, la sinistra nel movimento fascista ricoprì per tutto l'arco del regime mussoliniano al potere un ruolo ideale trainante, spingendo affinché, nell'impossibilità di realizzare subito i programmi dottrinari e rivoluzionari sansepolcristi, anti plutocratici e anticapitalistici, frenati dalle componenti reazionarie di destra annidiate all'interno delle strutture delle gerarchie fasciste, la purezza della causa della rivoluzione voluta da Benito Mussolini venisse attuata quanto prima, sradicando la pusillanime e antipopolare quotidianità dell'Italietta borghese, subordinata alla massoneria ed agli inglesi.Oltre alla labilità e all'obliquità dell'individuo italiota, c'è da aggiungere che anche l'evento bellico bloccò il corso della rivoluzione delle Camicie Nere.
    La pulsione rivoluzionaria del fascismo repubblicano purtroppo venne messa in opera quando le probabilità concrete di una permanente attuazione della socializzazione era in gran parte vanificata dal corso della guerra.
    Nel complesso, malgrado si combattesse nel territorio della nazione, il governo della Repubblica Sociale Italiana dette vita a un corpo legislativo imponente, creato nel giro di quindici anni, a testimonianza di uno sviluppo tutto sommato lineare e in coerente rispondenza a direttrici sostanzialmente univoche.
    I codici mussoliniani sono permeati da un dinamismo e da un decisionismo raro, se non unico, da non porre neanche a confronto con l'abituale farragine immobilista che è caratteristica costante dei vari ordinamenti italiani di ogni epoca.
    Il principio e la weltanschauung della Rivoluzione fascista, specialmente se considerata a livello di forze europee, dal punto di vista dell'influenza che sprigionò su tanti ambienti anche fuori dall'Italia, si può dire che avesse una valenza culturale e di civiltà prima ancora che politica. Il Fascismo volle creare un uomo nuovo, una nuova civiltà, oltre che una nuova società.
    La risoluzione del problema sociale e del riscatto di tante aree depresse della nazione, eredità della povertà in cui la monarchia savoiarda teneva la nazione, e la riscoperta dei princìpi della Tradizione romana, dovevano costituire i bastioni su cui edificare il Nuovo Ordine guerriero e gerarchico e dare organicità alle aspettative rivoluzionarie del Fascismo.
    L'integrazione delle masse nello Stato e la loro mobilitazione nelle strutture del partito rivoluzionario davano luogo alla concreta possibilità di scolpire una diversa filosofia del potere e una completa visione del mondo, nella quale il compito della nuova élite era quello di fondare un nuovo corso politico e una rigenerazione di tutto il corpo della nazione.
    Se, infatti, è l'attivismo politico a contrassegnare l'ascesa della rivoluzione fascista, d'altro lato si evidenzia la sua instancabile determinazione a dare un basamento, un corpo ideale, una base culturale per una più concreta presa di coscienza del popolo.
    La rivoluzione fascista rappresenta, primo esempio in Europa, un cuneo atto a scardinare l'egemonia del capitalismo e del marxismo.
    Durante la Repubblica Sociale Italiana, finalmente, la rivoluzione si liberò di tutte quelle zavorre che durante il regime avevano arrestato la rivoluzione sociale e popolare voluta da Mussolini; la monarchia traditrice, le congreghe capitalistiche al servizio dei nemici dell'Asse, lo stesso Vaticano e la massoneria furono dichiarate nemiche dello Stato repubblicano in guerra contro le democrazie demoplutocratiche, tiranne delle nazioni che volevano marciare in ossequio alle loro radici e alle loro realizzazioni in ogni campo della società e non sotto il giogo dello sfruttamento economico-mercantile proprio di quei Paesi in balia del capitale della banca ebraica.
    Il Fascismo divenne un ideale europeo dopo che si affermò in Germania, ma trasse la sua forza dall'esempio italiano; Mussolini fece la rivoluzione e la sua opera bastò a mettere in moto un meccanismo di vita che oltrepassò presto i confini italiani, proponendosi come modello di rivoluzione europea. Si trattava del prototipo di una nuova civiltà.
    Lo Stato sociale che era programmato dal Fascismo delle origini poté avere un risvolto pratico solo dopo i tragici eventi dell'estate del 1943, in cui si ritornava al suo vero volto storico.
    Tutte quelle strutture conservatrici e capitalistiche che per 20 anni avevano sabotato continuamente il Fascismo, ingabbiandolo nella conservazione, scelsero subito, secondo natura, la parte in cui schierarsi, cioè la parte dei nemici del fascismo.
    Mussolini non appena liberato dai tedeschi a Campo Imperatore lanciò agli italiani un messaggio che agitava l'antica bandiera rivoluzionaria: «Annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro il soggetto dell'economia e la base infrangibile dello Stato». Annunciando, così, a squadristi, operai e studenti che la rivoluzione proletaria e fascista era ritornata.
    Nella Repubblica Sociale Italiana la partecipazione delle masse alla vita pubblica dello Stato fu l'apoteosi rivoluzionaria e fu così che riemerse l'anima popolare del fascismo.
    Il fascismo repubblicano espresse subito la volontà di superare la politica burocratica e di arrivare istantaneamente alla base dei problemi. La prima riunione del governo sancì l'elaborazione di una costituente eletta dal popolo, al fine di elaborare il progetto di «una repubblica unitaria nel campo politico e decentrata in quello amministrativo, con un pronunciatissimo contenuto sociale (...) tale cioè di stabilire il posto, la funzione e la responsabilità del lavoro». La riemersa concezione rivoluzionaria cui si doveva ispirare questa prima indicazione programmatica, comprendeva il superamento della subordinazione del lavoro al capitale, con un'accentuata preminenza del ruolo dell'operaio nella nuova struttura socio-economica. Da alcuni settori venne anche richiesta con determinazione l'abolizione della proprietà privata.
    Accanto al Duce vennero affiancandosi i più fedeli all'Idea rivoluzionaria, con ex-socialisti ed ex-comunisti. L'uomo di punta del Fascismo repubblicano fu Alessandro Pavolini, segretario del PFR, già squadrista negli anni '20, intellettuale e ministro; ora incarnava l'ala degli intransigenti, di coloro i quali intendevano attuare i postulati della Rivoluzione per instaurare un «regime di popolo».
    Pavolini intendeva edificare un partito nuovo, un «... ordine di combattenti e di credenti» a base elitaria e non quantitativa. Il nuovo partito rivoluzionario sarebbe stato un «partito di lavoratori, un partito proletario animatore di un nuovo ciclo senza remore plutocratiche (...)» e ispiratore di postulati «più propriamente che sociali, socialisti».
    Esaltante era il grado di presa che il fascismo riusciva ad avere ancora sul popolo, il quale, pur fiaccato dalla guerra e dalle sconfitte sul piano militare, seppe dare al fascismo repubblicano all'incirca duecentocinquantamila nuovi iscritti. Ciò la dice lunga sulla presunta impopolarità sbandierata dai detrattori della Repubblica Sociale Italiana.
    La mancata convocazione della Costituente, sempre rinviata in attesa di tempi migliori che purtroppo non vennero, si rivelò un errore politico poiché impedì di dare tutto il riconoscimento che spettava ai «18 punti di Verona».
    In questo contesto si doveva attuare, come affermò Mussolini, lo «smantellamento del capitalismo e del latifondismo» attraverso la «... immissione del controllo e degli interessi dei lavoratori con la conseguente ripartizione degli utili in tutte le aziende, anche di quelle statali», e la «libera azione del sindacato». Questo progetto costituiva una indicazione fondamentale per l'attuazione della socializzazione, poi commutata in Legge il 12 febbraio 1944. AI secondo punto del progetto, si affermava: «la gestione dell'azienda, sia essa a capitale pubblico o privato, è socializzata; ad essa prende parte il lavoro. Le aziende a capitale pubblico sono amministrate da un Consiglio di Gestione, eletto da tutti i lavoratori dell'azienda, operai, impiegati e tecnici».
    Tale struttura non rimase inapplicata, ma nonostante problemi di ogni genere, guerra e bombardamenti indiscriminati, sabotaggi degli industriali e azioni di guerriglia dei partigiani, trovò immediata applicazione in alcune industrie del Nord Italia.
    Si cominciò con aziende editoriali, come "il Corriere della Sera", "Il Lavoro"; poi fu la volta dell'industria grafica, cartaria e meccanica. Furono socializzate: Mondadori, Garzanti, Vallardi, Ricordi, Alfa Romeo, Metalmeccanica e altre aziende minori. In tutti questi casi non valsero ad impedire la continuità di funzionamento le accanite opposizioni padronali e cielleniste. Un discorso a parte meriterebbe l'alleanza tra capitalisti ed emissari del CLN, ai quali era invisa la legislazione sociale della Repubblica Sociale fascista, per egoismo di classe o per mero calcolo politico. Si chiarirebbero così le idee su quali furono i reali motivi del sabotaggio alla socializzazione, che attraverso la propaganda e l'istigazione sovversiva tolse alla classe dei lavoratori una serie di importanti conquiste acquisite attraverso la legislazione rivoluzionaria del rinato partito rivoluzionario, perdute poi di fatto all'atto della restaurazione democratico-capitalistica del dopoguerra.
    È bene ricordare come tra le prime misure del CLNAI dopo il 25 aprile 1945, e, poi, tra i primi atti legislativi della Repubblica post-bellica ci sia stata l'abrogazione delle Leggi sociali del 1944, un punto sul quale tutti i partiti del Comitato di Liberazione mostrarono una concordia degna della peggiore malafede. Ma non poteva essere altrimenti.
    Alcuni degli obiettivi che i lavoratori raggiunsero con la socializzazione, costituiscono ancor oggi un lontano miraggio per ciò che rimane del movimento operaio, miracoli dell'ipocrisia ideologica che fa negare la validità anche a quanto di buono crea la parte politica avversaria.
    Grazie alla subordinazione italiana a interessi extranazionali dettati dalla massoneria e dall'Alta Finanza fu raggiunto il grottesco risultato per cui le masse operaie del Nord furono spinte a rinnegare misure che le toglievano d'un colpo dalla secolare sudditanza nei confronti del padronato, e a simpatizzare per il Sud, alla testa del quale c'era il fior fiore della classe conservatrice e industriale, unitamente alla monarchia ed ai settori più retrivi del clericalismo, alla massoneria, retto come un burattino dalla amministrazione alleata, ispirata dal capo del conservatorismo europeo Winston Churchill.
    I lavoratori italiani, fomentati a combattere per la classe padronale, anziché per i propri diritti, persero così un'occasione storica e scontarono presto l'inganno: l'alleanza tra Togliatti e la monarchia traditrice avrebbe dovuto aprire gli occhi e tutto passò, grazie ad una abile mistificazione, come frutto della propaganda fascista.
    La Repubblica Sociale Italiana, in ogni caso, assunse la valenza di movimento rivoluzionario che, incontestabilmente, ruppe i ponti con l'usurocrazia capitalistica che fin dal sua comparsa aveva sempre ostacolato e sabotato il movimento fascista ogni qual volta questo faceva appello e si dirigeva verso la sua politica sociale e rivoluzionaria, anti plutocratica e popolare.
    I vertici repubblicani non si fecero scrupoli, quando se ne presentò la necessità, a passare alle vie di fatto nei confronti degli industriali. Ad esempio, negli scioperi del 1944 a Milano ed a Torino (ispirati dagli anglo-alleati e mossi dai movimenti clandestini), gli industriali Donegoni e Marinotti (due dei più grossi industriali d'Italia), in base a sospetti di complicità, vennero subito arrestati. Misure del genere rivelano che un'aria diversa spirava sul fascismo repubblicano e una diversa determinazione ne ispirava le decisioni.
    Tutto finì nell'aprile 1945 quando, approfittando dello scatenato odio antifascista, furono eseguite innumerevoli esecuzioni di innocenti. Le stragi del 1945 furono un olocausto che non colpì una minoranza forte, ma che si abbatté su gente del popolo, militi provenienti nella grande maggioranza dalle fila popolari e giovanissimi che avevano inteso battersi per un ideale rivoluzionario e per l'onore scalfito dalla viltà e dall'ipocrisia, dal tradimento e dalla codardia, d'una parte inetta che preferì la posizione personale, all'ombra degli inglesi, della mafia e della massoneria, alla grandezza della Patria in armi.
    Roberto Vultaggio su "Avanguardia" mensile per la comunità militante

 

 

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