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    Predefinito Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Il Fascismo rurale. Arrigo Serpieri e la bonifica integrale
    di Fabrizio Marasti



    Per meglio comprendere il contenuto di questo saggio occorre ricordare chi era Arrigo Serpieri e cosa lui intendesse per bonifica integrale. Bolognese di nascita, milanese per studi e fiorentino per scelta di vita, cattedratico di economia e scienze agrarie (nessuna parentela, peraltro, con quell'Enrico esule papalino che in Sardegna fu protagonista di molte vicende economiche), divenne un uomo di punta del regime fascista dove si impegnò per elaborare - forse per la prima volta nella nostra storia unitaria - una organica e razionale politica agraria.

    Fu lui infatti a mettere a punto ed a gestire quella complessa azione interventista dello Stato a favore delle attività agricole del Paese che va sotto il nome, per l'appunto, di "bonifica integrale". E quella definizione, ci ricorda l'autore del saggio, suonava per Serpieri come "la coordinata attuazione in un territorio di tutte le opere e le attività che occorrono per adattare la terra e le acque ad una più elevata produzione e convivenza rurale". Non più vista soltanto nell'accezione idraulica od igienica del bonificamento, ma comprendente un'azione ben più complessa in cui al risanamento ed al rinascimento agricolo di un comprensorio si aggiungeva anche la realizzazione, per gli uomini, di migliori condizioni di vita e di lavoro.

    Fabrizio Marasti ci aiuta così a conoscere ed apprezzare l'opera straordinariamente meritoria di questo personaggio, rimasta per lungo tempo nell'oblio, forse perché svoltasi in anni difficili e in parte rimossi dalla nostra memoria collettiva. Serpieri infatti può essere indicato come l'ideologo di quel "fascismo rurale" che intendeva incrementare l'economia delle campagne, "non solo come fattore essenziale dello sviluppo nazionale, ma anche come modello di vita e riserva di energie morali", per favorire la modernizzazione sociale ed economica del Paese.

    Fu questa azione modernamente riformista in agricoltura uno dei non molti aspetti positivi di quel regime dittatoriale, tanto da ottenere apprezzamenti anche da chi, come Luigi Einaudi, se ne sarebbe mantenuto molto distante, se non anche avversario. Basterebbe ricordare "quel complesso di leggi sulla bonifica, così organico ed ancora perfettamente valido, per comprendere la portata di Arrigo Serpieri come scienziato, come tecnico e come uomo di governo", scrive Marasti, ricordando ancora come Norberto Bobbio lo avesse annoverato fra "i cinque o sei grandi esponenti dell'intelligencija di regime".

    Ma c'è un aspetto particolare che ci ha guidato per questa segnalazione. Ed è quello riguardante gli stretti rapporti esistiti tra Serpieri, la "sua" bonifica integrale e la Sardegna dei primi decenni del Novecento. Il primo incontro con l'isola è del 1912, allorché - giovane docente di economia rurale all'Ateneo milanese - vi svolge, insieme al collega Vittorio Alpe, uno studio sui benefici possibili con l'irrigazione nel Campidano di Oristano (la "Padania isolana"), commissionato dal "Comitato di studi" promotore dello sbarramento idraulico del Tirso.

    Le analisi, le osservazioni e gli indirizzi contenuti in quello studio formeranno poi le coordinate su cui si muoverà la proposta di Antonio Pierazzuoli alla Banca Commerciale Italiana per promuovere la bonifica delle zone paludose dell'oristanese.

    Ed il rapporto tra l'economista e l'isola continuerà pochi anni dopo (1918) proprio con la società Bonifiche Sarde, dato che il direttore Ottavio Gervaso era stato un suo allievo ed era rimasto un suo grande estimatore (lo stesso ingegner Dolcetta lo avrebbe incontrato più volte a Firenze per avere consigli e pareri).

    Ma il legame sarebbe divenuto ancor più stretto con la sua ascesa alle responsabilità di governo ed attraverso l'attuazione delle sue direttive per la bonifica integrale. Gli interventi del gruppo elettro-idraulico sardo sarebbero infatti divenuti il fiore all'occhiello della sua azione riformista, tanto che li avrebbe definiti, in una sua relazione, come "mirabili" per efficacia e risultati. In effetti l'intera strategia operativa, messa a punto dalle Bonifiche Sarde, era stata modulata secondo le indicazioni del sottosegretariato alla bonifica integrale retto da Serpieri.

    Saranno quindi anni (quelli tra il 1923 ed il 1933) di intense frequentazioni e di un collegamento molto stretto tra l'esponente di governo ed il gruppo dirigente della società sarda. In concreto, visitando oggi il compendio di Arborea, si ha la pratica dimostrazione di quel che Serpieri intendeva come "piano generale di bonifica", pregevole esempio di moderno amenagément territoriale indirizzato a rassegnare centralità e primato all'economia agricola ed alla vita rurale.

    Il libro di Marasti può apparire quindi come una "guida" preziosa per una visita nelle terre sarde della bonifica perché aiuta a "capirle" prima ancora che a "vederle". Rendendo più facile la comprensione di quanto i benefici della bonifica integrale abbiano "redento" delle terre un tempo paludose (con buona pace di chi, in nome di un feticcio campanilistico, intende negare l'evidente).

    Anche se il saggio del Marasti talvolta pare indulgere a tentazioni celebrative, non vi è dubbio che il rigore della documentazione permette di mettere a fuoco la figura di un uomo che, proprio ad opera di quel regime a cui aveva dato l'apporto della sua intelligente opera riformatrice, avrebbe poi conosciuto (1935) la sua sconfitta politica. "I termini dello scontro furono fra le necessità sociali generali che ispiravano la concezione e la giurisprudenza della bonifica integrale, e gli interessi privati dei proprietari" che intendevano impedire ogni tentativo di riordino fondiario.

    La rigida posizione di Serpieri "chiedeva probabilmente troppo ad un regime dittatoriale che badava a non urtare violentemente contro ceti ed interessi spesso potenti, su cui fondava peraltro tanta parte del suo potere". Uomo di scienza prima ancora che politico, Serpieri avrebbe pagato la sua intransigenza "con la propria epurazione, divenuta poi la sconfitta della bonifica integrale".

    Nato il 15 giugno 1877 a Bologna, Serpieri morirà a Firenze il 30 gennaio 1960 dopo una lunga malattia e dopo un prolungato volontario esilio dalla vita attiva del Paese. Alto quasi due metri, dal viso affilato e dalla fronte spaziosa, appassionato di studi prima ancora che di onori politici, seppe sempre "essere un uomo libero, capace di esprimere il proprio pensiero e le proprie idee", anche quando esse non apparivano in linea con i diktat del regime.

    D'altra parte era approdato al fascismo provenendo dalle file del socialismo riformista della "Umanitaria" milanese. Venne infatti cooptato nel governo Mussolini perché ne assicurasse "con il suo prestigio di tecnico di valore, maggiore autorità e più vasti consensi". Divenne ben presto fedele collaboratore di Mussolini, nonostante l'ostilità dell'ala dura del fascismo capeggiata da Farinacci, con cui ebbe molteplici scontri.

    Alla costruzione di uno Stato forte e coeso darà un particolare contributo con le sue riforme tese a "porre in primo piano l'agricoltura, il che equivaleva - secondo il suo pensiero - a dare peso all'ideale nazionale, poiché i ceti rurali, a differenza di quelli industriali, erano numerosi in tutta la penisola. Erano, quindi, la sola attività economica veramente nazionale, la cui omogeneità d'interessi poteva fondare la saldezza della nazione".

    S'individua dunque, dietro la biografia di quest'uomo, l'immagine dell'Italia d'allora, che tentava disperatamente di togliersi di dosso quell'appellativo di Italietta che l'aveva finora contraddistinta. È l'immagine di un Paese ancora agli ultimi posti della gerarchia europea, con un presente prevalentemente agricolo, frustrato però dalle molte differenze regionali e da un'organizzazione economica in gran parte precapitalistica.

    Il suo impegno di studioso e di politico sarà quindi quello di far crescere le attività agricole, modernizzandole ed assegnando loro un ruolo importante nella costruzione del nuovo benessere nazionale. L'A. del saggio precisa infatti d'aver voluto seguire l'intendimento, con la biografia di un personaggio come Serpieri, di prospettare al lettore "uno spaccato della vita rurale dell'epoca, della cultura e del pensiero in auge nel ventennio fascista". Perché meglio si capisse, e si valutasse, la portata economica e politica delle riforme introdotte con la c.d. legislazione della bonifica integrale. E, soprattutto, s'avesse contezza dell'ambiente socio-economico esistente in quegli anni.

    Il suo obiettivo era quello di riuscire a "contadinizzare" l'intero Paese (una sorta di sbracciantizzazione delle campagne), da realizzarsi attraverso quella triade di valori che Serpieri aveva indicato in "Proprietà - Famiglia - Religione", per fare dell'Italia la più grande potenza agricola d'Europa. Il fascismo gli era parso come lo strumento politico più adatto per realizzare questi suoi programmi.

    Ed in quest'ottica si colloca quella che, per diffusa convinzione, fu una delle più eclatanti caratteristiche della politica agricola del fascismo: la battaglia del grano. Che ebbe come stratega proprio Serpieri, a cui si deve la stessa articolazione dell'iniziativa, in cui "al progresso dei procedimenti colturali e alla propagazione dei metodi migliori" venne accompagnata una forte campagna di promotion con gare provinciali e nazionali e "ricompense che andarono aumentando dalle 36.500 lire del 1924 al 1.700.000 del 1930, somme allora considerevoli". E l'Italia riuscì, allora, a diminuire di tre quinti la sua dipendenza cerealicola dall'estero.

    Questo della dimensione "nazionale ed autarchica" dell'economia agricola sarà uno dei limiti del suo pensiero, tanto da farlo militare, negli anni della Repubblica, fra gli oppositori dei trattati agricoli del MEC. Poiché, a parer suo, essi avrebbero ulteriormente indebolito la nostra organizzazione produttiva in agricoltura, a tutto vantaggio dei paesi "forti". Fu questa l'ultima sua coraggiosa battaglia, compiuta come valoroso articolista sui principali quotidiani nazionali. Averlo ora ricordato è un indubbio merito dell'Autore, a cui si deve, soprattutto, l'ampio supporto di documentazioni che permette al lettore di meglio valutare la personalità ed il valore del personaggio.

    scheda a cura di Paolo Fadda
    pubblicata sul numero 6/2001 di Sardegna Economica

  2. #2
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    La città negata: urbanesimo e ruralità nell’Italia fascista
    Ludovico Testa

    «Impedire l’immigrazione nelle città, sfollare spietatamente le medesime; facilitare con ogni mezzo e anche, se necessario, con mezzi coercitivi, l’esodo dai centri urbani; difficoltare con ogni mezzo […] l’abbandono delle campagne, osteggiare con ogni mezzo l’immigrazione a ondate nelle città».

    Con queste parole, nell’articolo “Sfollare le città”, comparso il 22 dicembre 1928 sulle colonne de Il Popolo d’Italia, Benito Mussolini esprimeva la posizione del regime di fronte al fenomeno dell’urbanesimo, che nel corso del decennio aveva spinto masse sempre più numerose ad abbandonare le campagne per trasferirsi in città.

    La drasticità con la quale il capo del governo indicava la soluzione del problema non costituiva solo una tra le tante manifestazioni della ben nota irruenza verbale mussoliniana. Essa rifletteva e amplificava quell’atteggiamento a metà strada tra l’inquietudine e la diffidenza che aveva animato le classe dirigente post unitaria di fronte alla prospettiva di un possibile sviluppo delle principali città italiane sul modello delle metropoli europee. Lo spetto della “città tentacolare” come luogo di corruzione e di vizio per la massa di diseredati che vi affluivano in cerca di lavoro, l’impossibilità di un sistema economico industrialmente arretrato ad assorbire tale eccedenza di manodopera e la conseguente pericolosità sociale rappresentata dalla concentrazione nei grandi agglomerati urbani di masse proletarie e irrequiete avevano spinto i governi dell’Italia liberale a scoraggiare l’abbandono delle campagne e a favorire, al contrario, la dispersione nel mondo rurale della popolazione inattiva presente nelle principali città.


    Se paragonate alle popolose capitali straniere, all’inizio del XX secolo le principali città italiane erano cresciute demograficamente in modo assai modesto, confermando la secolare peculiarità di un paese caratterizzato dall’assenza di grandi metropoli e dalla presenza di una moltitudine di piccoli e medi centri urbani fortemente integrati con l’ambiente rurale circostante. Il “decollo industriale” che aveva interessato l’economia nazionale nell’età giolittiana non aveva sostanzialmente scalfito l’assoluto predominio esercitato dal settore primario (l’agricoltura), dove operava oltre il 50% di una forza lavoro in larga parte suddivisa tra piccoli proprietari, mezzadri e braccianti. È in questo contesto che il movimento socialista aveva mosso i primi passi; è nelle campagne della Val padana che si erano verificati i primi scioperi di massa ed è dalle campagne della Romagna che il giovane Mussolini aveva imboccato quella strada che lo avrebbe prima portato ad abbracciare con passione il Partito Socialista, per diventarne in seguito acerrimo nemico. Lo stesso “fascismo della prim’ora” si era sviluppato nell’ambiente rurale, raccogliendo dal ceto dei possidenti agrari le simpatie e gli appoggi necessari a imporsi sulle masse contadine, per poi stringere d’assedio le città e infine marciare vittoriosamente sulla capitale.

    Un’Italia rurale e provinciale dunque, quella in favore della quale l’articolo di Mussolini si schierava a difesa; un’Italia minacciata dalla crescente urbanizzazione figlia della crisi economica postbellica e delle restrizioni all’emigrazione all’estero imposte da molti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti. Nell’ottica mussoliniana, tuttavia, la lotta alla degenerazione culturale e morale insita nel processo di urbanizzazione traeva motivazione aggiuntiva e determinante soprattutto dagli effetti che tale degrado si pensava avrebbe prodotto sulle dinamiche demografiche del paese. Come lo tesso Mussolini affermava nella prefazione all’edizione italiana del saggio di Richard Koherr, statistico tedesco delle SS, “la dimostrazione che il regresso delle nascite attenta in un primo tempo alla potenza dei popoli e in successivi tempi li conduce alla morte, è inoppugnabile. Anche le varie fasi di questo processo di malattia e di morte, sono esattamente prospettate e hanno un nome che le riassume tutte: urbanesimo o metropolismo. […] A un dato momento la città cresce morbosamente, patologicamente, non, cioè, per virtù propria, ma per un apporto altrui. Più la città aumenta e si gonfia a metropoli, e più diventa infeconda. La progressiva sterilità dei cittadini è in relazione diretta coll’aumento rapidamente mostruoso della città. […] La metropoli cresce, attirando verso di sé la popolazione della campagna, la quale, però, appena inurbata, diventa — al pari della preesistente popolazione — infeconda. Si fa il deserto nei campi; ma quando il deserto estende le sue plaghe abbandonate e bruciate, la metropoli è presa alla gola: né i suoi commerci, né le sue industrie, né i suoi oceani di pietre e di cemento armato, possono ristabilire l’equilibrio oramai irreparabilmente spezzato: è la catastrofe.”


    Provvedimenti e mitologie
    Nell’ottica fascista, lo sviluppo della grande città costituiva dunque un pericoloso ostacolo alla crescita armonica della nazione, che al contrario trovava piena realizzazione nel consolidamento e nella proliferazione dei piccoli centri, legati da un rapporto osmotico con la campagna circostante e rispettosi dell’equilibrio tra mondo urbano e realtà rurale. La questione venne affrontata su molteplici piani, a partire da quello legislativo. Già partire dal 1926 la vigilanza sugli spostamenti della popolazione fu affidato a un Comitato permanente, facente capo la Ministero dei Lavori pubblici e via via dotato di poteri sempre più ampi. Nel 1939 una apposita legge stabilì per tutti il divieto di trasferimento nelle città con popolazione superiore ai 25.000 abitanti, se non giustificato da comprovate ragioni di lavoro o da motivazioni ben circostanziate. Il controllo imposto dal governo centrale sullo sviluppo urbanistico territoriale si articolò nel vario di una serie di Piani regolatori che, partendo da singole città o singole regioni, avrebbe trovato pieno compimento nella legge urbanistica generale, varata nel 1942 e, nonostante molteplici modifiche, rimasta ancora oggi punto di riferimento per la pianificazione urbanistica del territorio nazionale.

    Alle disposizioni normative si affiancarono iniziative apparentemente contraddittorie ma, in realtà, finalizzate da un lato a rafforzare il “mito della ruralità” promosso dalla dottrina fascista, dall’altro a lasciare visibile e duratura impronta del regime sul territorio. È in questa prospettiva che va interpretata la fondazione di una miriade di borghi e piccoli centri urbani o, come si diceva allora, di “comuni rurali”, posti al servizio della campagna circostante, come la pentapoli mussoliniana (Littoria, Sabaudia, Aprilia, Pomezia, Pontinia) costruita tra il 1932 e il 1936 sul territorio della Paludi pontine da poco restituite all’agricoltura. Lo stesso dicasi per i numerosi interventi eseguiti nelle città più grandi (a partire dalla capitale) in nome di un altro mito, quello della “romanità”, e consistenti nella costruzione di imponenti opere architettoniche, di nuovi quartieri e nella demolizione degli edifici che impedivano alle vestigia del glorioso passato italico di svettare nella necessaria solitudine. In entrambi i casi la concezione fascista della città appare, per contrasto, funzionale dunque alla valorizzazione di due miti, quello della ruralità e quello della romanità, tra loro differenti ma complementari nella negazione del ruolo strategico svolto dalla metropoli nel mondo moderno.

  3. #3
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Il fascismo nasce come movimento rurale e agrario.
    Fu Mussolini a trasformarlo in movimento cittadino?

  4. #4
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Citazione Originariamente Scritto da IlWehrwolf Visualizza Messaggio
    Il fascismo nasce come movimento rurale e agrario.
    Fu Mussolini a trasformarlo in movimento cittadino?
    In realtà, fu l'esatto contrario: il fascismo nacque come movimento cittadino. Fu in seguito che diventò un movimento rurale. La trasformazione avvenne nel giro di un anno e spostò il fascismo a destra.
    Credere - Pregare - Obbedire - Vincere

    "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo" (Ger 17, 5).

  5. #5
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Citazione Originariamente Scritto da Giò Visualizza Messaggio
    In realtà, fu l'esatto contrario: il fascismo nacque come movimento cittadino. Fu in seguito che diventò un movimento rurale. La trasformazione avvenne nel giro di un anno e spostò il fascismo a destra.
    Strano. Ho sempre pensato al Fascismo agrario come a un movimento tipo "Blut und Boden" e poi spostatosi su posizioni meno identitarie.

  6. #6
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Quindi il "fascismo agrario" era di sinistra o quantomeno non di destra.

  7. #7
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Citazione Originariamente Scritto da IlWehrwolf Visualizza Messaggio
    Strano. Ho sempre pensato al Fascismo agrario come a un movimento tipo "Blut und Boden" e poi spostatosi su posizioni meno identitarie.
    Citazione Originariamente Scritto da IlWehrwolf Visualizza Messaggio
    Quindi il "fascismo agrario" era di sinistra o quantomeno non di destra.
    Gli storici concordano sul fatto che la ruralizzazione del blocco sociale del fascismo lo abbia spostato a destra, accentuandone le istanze "conservatrici" e nazionaliste. Ed in effetti, finché il fascismo fu prevalentemente urbano, ebbe un'intonazione più spiccatamente sociale, potremmo dire (con una certa approssimazione) di sinistra.
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    "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo" (Ger 17, 5).

  8. #8
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Il Fascismo senza maschere, quello autentico e rivoluzionario – recensione a cura di Maurizio Rossi

    La nuova indagine di Luca Leonello Rimbotti



    Qualcuno forse si domanderà, ma come ancora un altro libro sul Fascismo? Non siamo ormai già a conoscenza di tutto? I segreti, le storie, anche le più controverse, le vicende e i dibattiti, non sono forse già stati tutti svelati e spiegati in ogni prospettiva possibile? C’è ancora qualcosa di ulteriore da scoprire, da indagare e da capire su quella che è stata, piaccia o meno, l’unica, possente rivoluzione che l’Italia abbia mai avuto nella sua complicata storia?

    Evidentemente sì. Anzi, ne siamo più che certi. E l’ultima fatica di Luca Leonello Rimbotti sul tema, recentemente pubblicata dalle Edizioni Passaggio al Bosco nella collana «Bastian Contrari» con il titolo «Fascismo rivoluzionario. Il fascismo di sinistra dal sansepolcrismo alla Repubblica Sociale» ne è la migliore conferma.


    Per coloro che ancora non fossero a conoscenza delle Edizioni Passaggio al Bosco possiamo sinteticamente sottolineare che si tratta di una giovane e coraggiosa iniziativa editoriale fiorentina nata da un qualificante retroterra militante, assolutamente non conformista, che può già vantare nel suo catalogo un buon elenco di titoli di cultura politica particolarmente interessanti e adatti al momento storico che stiamo attraversando.


    Attraverso le oltre quattrocento pagine dell’opera, ma non lasciatevi impressionare dalla mole, si snoda una valida ed esaustiva esposizione delle stagioni del pensiero fascista, in tutte le sue molteplici espressioni. Un fascismo senza maschere, appunto; privo di interessate ricostruzioni artificiali, ma intenso e sincero nel suo percorso. Pagine così interessanti e ricche di contenuti e così belle per ciò che riescono a rendere di nuovo visibile e tangibile che non soltanto mettono in evidenza la conoscenza precisa e obiettiva dell’autore, ma ancor di più pongono nella giusta attenzione la densità e la profondità dell’ideologia fascista; dalla sua nascita movimentista alla maturità di una rivoluzione fattasi Stato, fino al suo epilogo tragico, ma eroico, nella trincea rivoluzionaria della Repubblica sociale. Tante storie, progetti, riflessioni e percorsi che ci parlano del fascismo come di un instancabile e inesauribile laboratorio di volontà e di decisione e quindi di una rivoluzione perennemente in marcia, nonostante gli innumerevoli sabotaggi, le battute di arresto e anche le compromissioni sempre avversate dalla base del movimento.



    Sappiamo che il movimento fascista manifestò fin dalle origini diciannoviste, la sua ferma e inderogabile volontà politica di perseguire il fine dell’integrazione totale del popolo italiano all’interno di un processo rivoluzionario di radicale trasformazione dell’intera società in senso fascista, senza escludere alcun comparto sociale o aspetti particolari dalla sua azione di penetrazione; affinché si raggiungesse il completamento culturale e politico della sintesi organica tra Stato, nazione e popolo. Una sintesi che fu indubbiamente di rottura con le ideologie del secolo precedente, che venne dettata da esigenze antiliberali, antimarxiste e antiplutocratiche.

    Abbiamo detto delle origini diciannoviste, per la verità dovremmo andare ancora un po’ più indietro nel tempo che comprendere il senso innovativo del pensiero mussoliniano, cioè a quando nell’agosto del 1918 Mussolini decise di cambiare la dicitura del proprio giornale, Il Popolo d’Italia, che passò dall’essere «quotidiano socialista» a quella più decisamente specifica e inglobante di «quotidiano dei combattenti e dei produttori». Con questo passaggio, il Mussolini politico e combattente che aveva saputo interpretare e vivere da volontario la grande guerra come guerra di popolo e l’interventismo come l’innesco rivoluzionario di nuove consapevolezze al di fuori delle politiche borghesi della destra e della sinistra si rivolgeva alle masse lavoratrici italiane, le stesse che avevano riempito le trincee, incitandole ai nuovi compiti che si prospettavano, ovvero emergere nella storia dell’Italia come le nuove aristocrazie dirigenti della nazione contro i parassiti del lavoro e del sangue versato sul fronte. Si trattò di una coraggiosa scommessa per il cambiamento, le cui radici affondavano nel sacrificio della guerra, il momento nel quale le masse popolari e contadine italiane scoprirono di appartenere a una nazione. La trincea non sapeva quali fossero le differenze di classe o di ceto, ma conosceva il cameratismo del sangue dei soldati. Quella comunità solidale esaltata da Mussolini che rappresentò il nucleo iniziale del fascismo.



    Per non parlare poi del discorso che Mussolini il 20 marzo 1919 tenne alle maestranze in sciopero dello stabilimento metallurgico Franchi e Gregorini di Dalmine, che precedette di tre giorni l’adunata di Piazza San Sepolcro a Milano e la nascita ufficiale del primo fascismo. Uno sciopero ben motivato nelle legittime rivendicazioni, ma differente nelle sue modalità da quelli consueti. Infatti, i lavoratori organizzati dai sindacalisti rivoluzionari corridoniani stavano autogestendo la produzione nella fabbrica occupata.



    A loro, che rappresentavano i produttori e i combattenti quindi le nuove aristocrazie in pectore, Mussolini rivolse infiammate parole di elogio e di stimolo, in esse gli elementi di fondazione della futura ideologia fascista erano già presenti. Nel seguente passaggio estratto dal discorso appare evidente l’intenzione di Mussolini di raccogliere in un unico programma istanze che fino al allora avevano viaggiato su binari differenti e distanti: «Il significato intrinseco del vostro gesto è chiaro, è limpido, è documentato nell’ordine del giorno. Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria, voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo, ma pensando agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione. Non potevate negare la nazione, dopo che per essa anche voi avete lottato, dopo che per essa 500 mila uomini nostri sono morti. La nazione che ha fatto questo sacrificio non si nega, poiché essa è una gloriosa, una vittoriosa realtà. Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario; voi siete i produttori, ed è in questa vostra rivendicata qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari cogli industriali. Voi insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria per gli altri creatori della ricchezza.»



    Rimbotti ci parla di tutto questo con passione e con dovizia di particolari. Particolari importanti perché nelle radici del fascismo possiamo già leggere i successivi arricchimenti politici e dottrinari: dalla fase rivoluzionaria dello squadrismo e della guerra civile in cui si immerse alla conquista del potere, fino alla stagione del regime consolidato, del dibattito sul corporativismo, delle grandi innovazioni e di una modernizzazione sociale in marcia con uno spirito del tutto nuovo, delle varie anime interne al regime che si fronteggiarono aspramente, nei segmenti di una rivoluzione certamente incompiuta per l’insorgere di fattori anche estranei alla dialettica fascista ma propri di differenti logiche di potere. Dobbiamo riconoscere che la necessaria trasformazione fascista in senso corporativo dell’economia e della produzione nella sua interezza, quindi di un totale e radicale superamento dell’organizzazione capitalistica imprenditoriale nell’indirizzo di una civiltà fascista del lavoro, non si ebbe; la Camera dei Fasci e delle Corporazioni venne inaugurata il 23 marzo 1939, troppo tardi e in clima di generale disillusione.



    Ciononostante, l’impasse non impedì che numerosi traguardi sociali venissero lo stesso conseguiti, molte riforme strutturali portate a termine, la Carta del Lavoro fu un monumento di socialità e di organizzazione; il tutto a dispetto delle pesanti e minacciose opposizioni delle forze conservatrici, che nel complesso agivano indisturbate per sabotare il fascismo, dei ceti imprenditoriali, della monarchia e perfino delle gerarchie ecclesiastiche che non vedevano di buon occhio gli esperimenti sociali del regime. Molto fu fatto, molto restava ancora da fare come lamentavano i fascisti più intransigenti, spesso vecchi squadristi o giovani irrequieti.

    E per la svolta socializzatrice si dovette attendere la Repubblica sociale.

    La rivoluzione compiuta sociale e totalitaria che spesso Mussolini aveva invocato dovette essere rinviata a tempi più opportuni e favorevoli.

    Insomma, quelle tante complessità che caratterizzarono l’esperienza fascista e che hanno sempre affascinato e incuriosito gli studiosi della materia.

    Comunque sta di fatto che il fascismo, coerentemente con la sua vocazione rivoluzionaria originale e originaria, riuscì durante gli anni del regime a mettere in campo un processo di trasformazione globale della società, delle mentalità e dei costumi che non poteva prescindere dallo sviluppo e dall’applicazione di un vasto panorama di interventi pubblici politici e sociali che avrebbero dovuto, attraverso un uso capillare della propaganda e dell’educazione tramite l’inquadramento politico dei vari strati della popolazione, sviluppare una nuova coscienza di appartenenza alla comunità nazionale ricostruendo così di sana pianta il tessuto della vita collettiva. Nel significato fascista si trattava di una comunità nazionale intesa come un luogo spirituale e sociale compiuto che si sarebbe identificata per automatismo nello Stato fascista e che attraverso la mobilitazione educativa delle organizzazioni del partito sarebbe approdata ad una sorta di formalizzazione delle emozioni e l’emergere di nuovi valori civici e politici intesi in chiave mistica, si parlò infatti di una «mistica fascista» da iniettare nella vita civile, ed infine anche eroica; il vivere la quotidianità fascista con spirito antiborghese, con tensione virile, agonistica, e pertanto eroica.

    Gli stessi canoni sviluppati dalla cultura fascista miravano a un approdo definitivo verso un fascismo risolto e compiuto nella totalità del popolo italiano, che sarebbe, per forza di cose, emerso come la caratteristica morale e politica identificativa della nuova Italia.

    Il nostro autore qualifica tutto questo insieme di programmi e di aspirazioni, di potenzialità e di radicalismo, come «fascismo di sinistra», quindi rivoluzionario e non addomesticato perché appunto «di sinistra». È giusto? È sbagliato? Una tesi ardita? Difficile a dirsi, come difficile è il voler utilizzare categorie già vecchie e superate all’epoca, frutto per altro della interessata stratificazione borghese della vita politica. La democrazia borghese ha sempre conosciuto una «destra» e una «sinistra», con tutte le loro declinazioni possibili e magari anche in concorrenza tra loro, ambedue però funzionali alla dialettica di sopravvivenza e di giustificazione interna della società borghese. Anche al fascismo, ideologia nuova e di rottura del XX° secolo, è allora applicabile questo schema?

    Il fascismo rigettò il mondo borghese e il massimalismo progressista creando in primis le proprie categorie di riferimento, e lo fece andando ben oltre la «destra» e la «sinistra», però è anche vero che sopravvissero al suo interno tra le pieghe del movimento modi diversi di interpretarlo e questo fu una debolezza. Una rivoluzione che vanta aspettative totalitarie questo lusso non se lo può mai permettere, la credibilità della sua stessa idea di rivoluzione ne risulterebbe inficiata.

    Le grandi rivoluzioni del primo dopoguerra, il fascismo, il nazionalsocialismo, anche il comunismo quello staliniano, hanno rappresentato in generale delle complessità ideologiche e culturali particolarmente articolate che sfuggono alle rigidità interpretative del pensiero politico moderno. Il loro saper essere state, parliamo soprattutto del fascismo e del nazionalsocialismo, allo stesso tempo sintesi nuove e antiche e risoluzione delle contraddizioni della modernità, quindi visioni del mondo destinate a un nuovo meriggio, le fa apparire ancora oggi complicate nelle valutazioni e nelle analisi.

    Però, sempre il nostro autore riesce a giustificare in maniera coerente e accattivante questa sua specifica chiave di lettura che sposta irrimediabilmente l’asse del fascismo, puro, intransigente e rivoluzionario verso la «sinistra». Spetterà allora al lettore, che sicuramente non potrà che riconoscere il valore dell’accurata opera di Rimbotti sul fascismo, trarne le personali valutazioni.

    Il dibattito resta ancora aperto.

    Maurizio Rossi

  9. #9
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Strapaese tutta la vita.
    Dicono che viaggiare sviluppa l'intelligenza. Ma si dimentica sempre di dire che l'intelligenza bisogna averla già prima.-.G. K. Chesterton

  10. #10
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    Predefinito Re: Fascismo "rurale" o fascismo "cittadino"?

    Citazione Originariamente Scritto da Draigo Visualizza Messaggio
    Strapaese tutta la vita.
    Sul fascismo di "Strapaese" è uscito qualche testo?

 

 
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