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  1. #31
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    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura




    Nel 2021 ricorrono i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri – era il 1321. Quale occasione migliore per ricordarlo in questo topic, anche se il divino poeta non era esattamente un buongustaio? Pare, infatti, che non fosse affatto ghiotto e saldamente convinto che bisognasse mangiare per vivere, non viceversa. Per Dante era disdicevole abbandonarsi smisuratamente ai piaceri della gola... almeno, stando alla descrizione che di lui ci ha lasciato Boccaccio:

    Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all'ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità… né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati lodava e il più si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenza apparare, affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare.

    Dante, quindi, non amava la ricercatezza nel cibo; al contrario, si nutriva con sobrietà e in modo semplice, rispettando le regole canoniche (non mangiare fuori pasto, evitare ricercare cibi prelibati, non eccedere nelle quantità e nei condimenti, e così via). Del resto, viveva in un'epoca in cui dominavano le indicazioni dei Padri della Chiesa e la gola era uno dei sette vizi capitali. Il poeta sembra attenersi a queste indicazioni, così come all'abitudine medioevale di mangiare due volte al giorno: la mattina fra le 9 e le 10 (il desinare) e la sera, al tramonto (il cenare). Solo i nobili e i ricchi potevano permettersi tre pasti al giorno, e spesso anche la merenda, insieme alla raffinatezza dei cibi e delle stoviglie, allietando i pasti con l'allegra compagnia di buffoni, giullari e suonatori... tutti artifici che Dante disapprovava.

    Il poeta fiorentino adorava però il pane, specie quello toscano senza sale, sciapo, definito col termine toscano di "sciocco", probabilmente dal latino exsuccus, "privo di succo, di sugo"... proprio come uno sciocco è una persona senza sale in zucca. In Toscana, l’ipotesi sull'origine del pane sciocco viene fatta risalire al XII secolo, all'epoca della guerra tra Firenze e Pisa, alla quale lo stesso Dante fa riferimento nel XXXIII canto dell'Inferno:

    Ahi Pisa, vituperio de le genti
    del bel paese là dove 'l sì suona,
    poi che i vicini a te punir son lenti.

    (vv. 79-81)

    I versi fanno riferimento al periodo in cui Pisa controllava i porti facendo pagare caro ai fiorentini le quantità di sale che sbarcavano. Firenze decise così di non utilizzare più il sale iniziando una produzione di pane sciapo.
    Altro riferimento al pane lo troviamo, ancora nella Commedia, nel XVII canto del Paradiso, in cui Cacciaguida profetizza a Dante l'esilio:

    Tu proverai sì come sa di sale
    lo pane altrui, e come è duro calle
    lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

    (vv. 58-60)

  2. #32
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    Ospite

    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Il cibo nella Divina Commedia - Inferno





    Dante Alighieri scrive la Divina Commedia, tra il 1304 e il 1321. In questo periodo la cucina fa enormi passi avanti con la pubblicazione dei primissimi ricettari di cui si ha conoscenza (per esempio, il "Liber de coquina", scritto intorno al 1304, e il "Libro della cocina", Scritto da un anonimo toscano del Trecento). I cibi e la loro preparazione cominciano ad essere presenti nella letteratura e forse è per questo che lo stesso Dante decide di inserire nella sua opera vari riferimenti alla gastronomia.

    Abbiamo però visto che Dante era tutt'altro che una buona forchetta e considerava il cibo quasi alla spregua di una seccatura necessaria. Quindi, i riferimenti all'arte culinaria presenti nel suo poema hanno spesso connotazioni negative. Ecco alcuni esempi...
    Nell'Inferno rappresentato dal poeta fiorentino, la gola - inteso come peccato capitale - è indicato come uno dei meno dignitosi. Nel girone dei golosi (VI canto), sotto la stretta sorveglianza di Cerbero, che incarna l'ingordigia dei dannati, i peccatori sono sottoposti ad una pena avvilente: giacciono per terra nella sporcizia, esposti alle intemperie di una pioggia maleodorante, graffiati e scorticati da Cerbero... e, come lui, emettono latrati bestiali.
    E' lo stesso concetto che Dante aveva sottolineato già nel I canto, nel presentare le tre fiere all’entrata dell'Inferno: la lonza (incarnazione della lussuria), il leone (della superbia) e la lupa (dell'avarizia e della cupidigia)... quest’ultima, considerata la più pericolosa per l'uomo, perché intesa come fame per i beni terreni, a scapito di tutto ciò che è puro e spirituale. Così, poco dopo Dante scrive di un misterioso Veltro (la cui identificazione è controversa), il quale ucciderà la Lupa...

    Molti son li animali a cui s'ammoglia,
    e più saranno ancora, infin che 'l veltro
    verrà, che la farà morir con doglia.
    Questi non ciberà terra né peltro,
    ma sapïenza, amore e virtute,
    e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

    (Canto I, 100 – 105)

    Nell'Inferno, anche vari aspetti del mondo gastronomico rientrano nelle pene: in un certo senso, l'atto stesso del cucinare diventa veicolo di somministrazione della pena ai dannati. Nei canti XXI e XXII, ovvero nella quinta bolgia dell'VIII cerchio, troviamo i barattieri, ovvero gli speculatori fraudolenti di cose e cariche pubbliche a scopo di lucro personale (in pratica, l'odierno reato di concussione). Qui, i dannati sono immersi nella pece bollente sotto la sorveglianza dei Malebranche, demoni alati armati di bastoni uncinati con i quali afferrano e straziano ogni dannato che tenti di emergere dalla pece...

    Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli
    fanno attuffare in mezzo la caldaia
    la carne con li uncin, perché non galli.

    (Canto XXI, 55-57)

    Questa scena rappresenta efficacemente l'immagine dell'Inferno come una grande cucina dove i diavoli, mostruosi cuochi, ordinano ai loro sguatteri di immergere bene la carne dei dannati affinché non affiori e cuocia perfettamente.

    Scene analoghe sono descritte anche in altri punti della prima parte del poema. Per esempio, i dannati del primo girone del VII cerchio (canto XII) sono immersi in un fiume di sangue bollente, il Flegetonte, in misura maggiore o minore a seconda del peccato commesso: fino agli occhi i tiranni, fino al collo gli assassini, fino al petto i ladroni da strada, fino ai piedi altri peccatori non meglio precisati. I centauri, armati di arco e frecce, fanno in modo che nessuno di loro emerga dal fiume più di quanto è stabilito dalla giustizia divina.

    Verso la fine della prima cantica, nel nono cerchio, dove vengono puniti i traditori della patria (canti XXXII e XXXIII), Dante incontra il conte Ugolino della Gherardesca immerso nelle acque gelate di Cocito, che gli appare come un dannato vendicatore, intento a divorarela testa dell'arcivescovo Ruggieri. Ma, alla vista di Dante, si interrompe e gli racconta la sua storia, sottolineandone l’atrocità. Racconta che fu incarcerato con i suoi due figli e due nipoti in una torre a Pisa, dove rimase per alcuni mesi (cosa che riuscì a calcolare contando le fasi della luna). Un giorno, il conte Ugolino ebbe un incubo, che posi si sarebbe rivelato un presagio, nel quale gli apparve Ruggeri in compagnia di alcune famiglie pisane di fede ghibellina mentre dirigeva una battuta di caccia contro un lupo con i suoi piccoli, che venivano poi sbranati da una muta di cani affamati. Dopo quel sogno, Ugolino e i figli vennero infatti chiusi a chiave nella torre e non venne più dato loro da mangiare. I bambini piangevano e chiedevano aiuto, fino ad offrirsi al padre come cibo, dopo averlo visto mordersi una mano per rabbia e impotenza. I bambini alla fine morirono tutti di fame e Ugolino racconta di averli chiamati piangendo ancora per i due giorni seguenti alla loro morte e poi pronuncia la frase poscia più che 'l dolor poté 'l digiuno, interpretata in modo diverso: secondo alcuni, Ugolino morì di fame e non sentì più dolore; secondo altri, vinse il dolore e la fame divorando i bambini. Ugolino, racconta Dante, ad un tratto si volta verso la sua nemesi, Ruggieri, e con profondo odio lo attacca mordendogli la testa. Ed ecco un esplicito riferimento al cibo:

    e come 'l pan per fame si manduca,
    così 'l sovran li denti a l'altro pose
    là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:

    (Canto XXXII, 127 – 129)

    E ancora...

    La bocca sollevò dal fiero pasto
    quel peccator, forbendola a' capelli
    del capo ch'elli avea di retro guasto.

    (Canto XXXIII, 1-3)

  3. #33
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    Ospite

    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Il cibo nella Divina Commedia - Purgatorio




    Domenico di Michelino, La Divina Commedia illumina Firenze, 1456
    Affresco nella Chiesa di Santa Maria del Fiore, a Firenze




    Ci sono numerosi riferimenti al cibo e alla fame anche nel Purgatorio, che mostrano come Dante avesse una concezione del cibo completamente opposta rispetto alla nostra, dove la pena per i golosi è chiaramente legata alla colpa.
    Il cibo viene evocato già nel II canto, quando le anime approdano in Purgatorio; qui, appena sbarcate sulla spiaggia e ancora disorientate, vengono paragonate alla degustazione di una nuova pietanza:

    La turba, che rimase lì, selvaggia
    parea del loco, rimirando intorno,
    come colui che nuove cose assaggia.

    (Canto II, 52-55)

    Nella VI cornice troviamo i golosi, colpevoli di eccessivo amore per il cibo e le bevande: sono tormentati da fame e sete continue, acuite dal profumo di dolci frutti che pendono da due alberi posti all'ingresso e all'uscita (che le anime non possono toccare per una sorta di purificazione divina), oltre che da una fonte d'acqua purissima che sgorga dalla roccia e sale verso l'alto. Recitano il versetto 17 del Miserere, ovvero Labia mea, Domine, e sono spaventosamente magre, al punto che la pelle aderisce totalmente alle ossa e il volto è così emaciato che vi si potrebbe leggere la parola OMO (formata dalla linea delle sopracciglia e dagli occhi). Dante descrive la loro pena nei canti XXIII-XXIV, dove incontra Forese Donati e Bonagiunta Orbacciani da Lucca, entrambi puniti in senso privativo. Infatti, Forese Donati spiega al poeta che il desiderio dei frutti e dell'acqua che scorre, acuito dalla vista e dai profumi, è la loro penitenza e l'atto di purificazione necessario per poter raggiungere il Paradiso:

    Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
    cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
    rimasa dietro ond’io sì m’assottiglio.

    Tutta esta gente che piangendo canta
    per seguitar la gola oltra misura,
    in fame e ‘n sete qui si rifà santa.

    Di bere e di mangiar n’accende cura
    l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
    che si distende su per sua verdura.

    (Canto XXIII, 61-69)

    Tra le anime dei golosi che Forese Donati indica a Dante, c'è anche quella di papa Martino IV, che fu pontefice dal 1281 al 1285 e la cui ghiottoneria era proverbiale, essendo soprattutto goloso di anguille. Il poeta non si sofferma a parlare con lui, però ne fa una descrizione breve quanto significativa:

    "Questi", e mostrò col dito, "è Bonagiunta,
    Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
    di là da lui più che l’altre trapunta

    ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
    dal Torso fu, e purga per digiuno
    l’anguille di Bolsena e la vernaccia".

    (Canto XXIII, 19-24)

    In definitiva, i golosi dell'Inferno e del Purgatorio non vengono mai descritti in situazioni di ingordigia canonica, legata al sodisfacimento del piacere della gola. La relazione tra vizio e pena è quasi sempre allusiva perché il cibo, più che essere descritto, viene evocato. Nella mentalità medioevale, infatti, la letteratura, attività legata alle parti più nobili dell'anima, non poteva trattare di cibo e cucina, che riguardavano le parti più basse del corpo e i sensi considerati considerati "inferiori" (tatto, olfatto e gusto).

  4. #34
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    Ospite

    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Il cibo nella Divina Commedia - Paradiso



    Gustave Dorè, Dante e Beatrice nel XIV canto del Paradiso, "Il cielo di Marte", 1868


    Nel Paradiso, Dante torna ad utilizzare il cibo come metafora, come nutrimento dell'anima: il concetto di cibo è infatti completamente dissociato dalla sfera terrena, perché qui la fame è qualcosa di inconcepibile, di inesistente. Già nel II canto il poeta si rivolge alle schiere celesti, composte da pochi eletti che si nutrono di "pan de li angeli", cioè della dottrina teologica, riprendendo l'espressione delle Sacre Scritture "L'uomo mangiò il pane degli angeli" (Ps. 77,25; Sap. 16,20). Nel caso del Paradiso dantesco, la ghiottoneria è lecita perché implica una fame di beatitudine:

    Voialtri pochi che drizzaste il collo
    per tempo al pan de li angeli, del quale
    vivesi qui ma non sen vien satollo...

    (Canto II, 9-12)

    Nel regno delle glorie celesti, non solo il cibo ma anche l'atto del banchettare non è più fonte di peccato ma premio per una vita retta e pura. Il desiderio di nutrirsi viene elevato ad un atto spirituale molto importante, che i commensali compiono alla presenza di Dio. Il cibo, quindi, abbandona il suo ruolo di peccato e si riveste di significati simbolici.

    Un'altra metafora sul cibo la troviamo all'inizio del IV canto: Dante ha due dubbi e non sa quale esprimere per primo, come un uomo che si trova di fronte a due cibi ugualmente appetitosi e posti ad uguale distanza e non sa quale scegliere, rischiando di morire di fame:

    Intra due cibi, distanti e moventi
    d’un modo, prima si morria di fame,
    che liber’omo l’un recasse ai denti;

    (Canto IV, 1-3)

    Durante il suo viaggio in Paradiso, mentre attraversa il cielo di Marte (che ospita le anime dei combattenti per la fede), Dante incontra il suo antenato Cacciaguida, capostipite della casata degli Elisei Alighieri nonché valoroso crociato. La cronaca dell'incontro occupa ben tre canti (dal XV al XVII) , che sono particolarmente importanti perché ci forniscono numerose informazioni sul nobile e potente casato degli Elisei Alighieri e sulla situazione politica di Firenze nel XII secolo, ma sono altrettanto importanti per la funzione morale rivestita da Cacciaguida. Il crociato, infatti, diventa portavoce dello sdegno provato da Dante nei confronti della corruzione in cui è caduta Firenze rispetto alla purezza dei costumi antichi. Oltre a questo, Cacciaguida predice a Dante il futuro esilio.
    Nel XVI canto Cacciaguida illustra la corruzione e il degrado raggiunti da Firenze ricorrendo ad una metafora sul cibo: la mescolanza delle genti, dice l'antenato di Dante, è stata la causa dei mali di Firenze, così come il mangiare dell'altro cibo oltre quello non si è digerito è causa di malessere:

    Sempre la confusion de le persone
    principio fu del mal de la cittade,
    come del vostro il cibo che s’appone;

    (Canto XVI, 67-69)

    Per quanto riguarda le bevande, per Dante quella per eccellenza è l'acqua; l’altra è il latte, che il poeta cita con significati allegorici. Nel XXIII canto, il protendersi dei beati verso Maria viene paragonato allo slancio del neonato verso la mamma dopo essere stato allattato:

    E come fantolin che ‘nver’ la mamma
    tende le braccia, poi che ‘l latte prese,
    per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma;

    (XXIII, 121-123)

    Il vino, invece, è la bevanda che procura l'offuscamento dei sensi e delle facoltà mentali. Qui, diventa metafora di sete di verità̀, poiché́ fin dall'antichità̀ questa bevanda era connessa alla sincerità (In vino veritas). Proprio a questa allegoria ricorre il poeta quando, nel IV Cielo (quello degli Spiriti Sapienti), incontra san Tommaso d'Aquino, nel X canto del Paradiso. Il lungo discorso del santo è stilisticamente elevato e si apre con la metafora del vino e della fiala ("ampolla") che dovrà soddisfare la sete di conoscenza di Dante...

    ... qual ti negasse il vin de la sua fiala
    per la tua sete, in libertà non fora
    se non com’acqua ch’al mar non si cala.

    (Canto X, 88-90)


    -------------------------

    A conclusione di questo breve excursus sul cibo nella Divina Commedia, segnalo il libro di Rosa Elisa Giangoia, "A convito con Dante" (Leone verde Edizioni, Torino), che contiene notizie, curiosità ed usanze gastronomiche dell'epoca in cui visse Dante, oltre ad una rilettura "gustosa" del divino poema dantesco, con alcuni dei riferimenti riportati qui e numerosi altri. Infine, il libro di Elisa Giangoia riporta alcune ricette tratte dai già citati "Libro de arte coquinaria" del maestro Martino, dal "Libro della cocina" di un anonimo toscano del Trecento e dal "Liber de coquina" di un altro anonimo trecentesco della corte angioina.

  5. #35
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    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop

    Autore: Fannie Flagg

    La signora Weems, nel “Bollettino di Whistle Stop” e l’anziana signora Threadgoode dalla casa di riposo di Rose Terrace ci raccontano la storia di un paesino in Alabama tra gli anni 30 e 80 di una grande famiglia di personaggi.

    Aneddoti e vicissitudini, stralci di vita e disavventure in un’America alle prese con la Grande Depressione e la convivenza con i neri liberi, ancora soggetta a rigurgiti di razzismo.

    Siamo vicino a Birmingham, una cittadina all’epoca con un tasso di analfabetismo molto alto.

    Whislte Stop oltre ad essere una fermata ferroviaria che ospita poche anime e qualche negozio è anche rinomata per un Caffè gestito da due donne, Ruth e Idgie. Non si tratta di un locale come gli altri. E’ un luogo dove si respira libertà dai pregiudizi e dalle convenzioni. Un posto dove c’è spazio per chiunque, dove ci si può sentire a casa.

    Un Caffè coraggioso, sdegnante dei luoghi comuni e dove si respira un’umanità vera.

    Questa è la storia non solo di due donne che hanno affrontato la vita con uno scudo potente ed indistruttibile quale può essere solo quello dell’amore ma anche di tutte le persone che ruotano intorno a loro e le cui vite si intrecciano sino a formare una trama fitta e coinvolgente.

    Il vecchio e di buon cuore Big George, sempre al suo posto ma pronto a difendere le persone che ama; Artis, dalla pelle così scura da avere le gengive blue ed il suo spirito ribelle e privo di freni; Stump che ha raggiunto traguardi impensabili nonostante la sua menomazione, Frank Bennett e la sua indistruttibile disumanità, Sipsey con il mestolo sempre in mano, Smokey un perdigiorno che sotto i vestiti logori nasconde una vita difficile ed un cuore bisognoso.

    E poi ci sono Ruth e Idgie, due facce dell’amore appartenenti alla stessa medaglia. L’una dolce, sensibile, delicata nei modi e nelle parole; l’altra impetuosa, energica, forte e dura come una pietra ma dall’animo umano. Loro sono il fulcro della storia.

    Ed ovviamente il loro inimitabile piatto forte del Caffè:

    “…pomodori verdi fritti e granturco alla panna, sei fette di pancetta affumicata, qualche cucchiaiata di fagioli di Lima e quattro enormi e leggerissimi biscotti al latticello”

    Non meno importante il ruolo di Evelyn, una donna sovrappeso, delusa e stanca della vita monotona matrimoniale che incontra per caso Virginia Threadgoode in una casa di riposo. I racconti dell’anziana diventano medicina per la donna che non trova lo slancio per cambiare il suo destino. Prima curiosa, poi appassionata della storia del Caffè di Whistle Stop (ormai quasi disabitata e desolata) Evelyn trae il meglio dalle parola della sua nuova amica e riesce ad affrontare quel cambiamento che da tanto desiderava ma per il quale le mancava il coraggio.

    Nelle ultime pagine, ogni singolo personaggio trova un epilogo, una fine. Ognuno arriva alla sua fermata raccogliendo i frutti di quanto seminato e lasciando un pezzetto di se nei vivi ricordi di chi racconta.

    Una narrazione particolare, su due fondamentali piani paralleli. Quello del bollettino di una delle abitanti di Whistle Stop e quello dei racconti della Signora Threadgoode nella casa di riposo. Un alternanza non solo della voce narrante ma anche dell’arco temporale. Ci si sposta velocemente dagli anni 30 agli anni 80 senza perdere il filo conduttore e questa sicuramente è una capacità indiscutibile della Flagg.

    Lo smarrimento iniziale per questo genere di scrittura si perde subito perché si è immersi nel fiume di personaggi e vicende che vengono raccontati, intrecciandosi gli uni con gli altri per creare quella bellissima foto che a fine libro viene data ad Evelyn e che riassume nei volti e nelle pose tutto quello che è stato detto in precedenza.

    Emerge dal romanzo il disagio dell’epoca verso gli uomini di colore. Liberi sulla carta ma di fatto ancora incatenati a pregiudizi razzisti ed a trattamenti disparitari. Viene fuori la grande divisione, forse ancora terribilmente attuale, tra chi non vede differenze e chi di queste ne fa una barriera.

    Consigliato a chi ama le storie ricche e semplici. A chi si lascia tentare da uno stile originale e si tuffa con l’anima nel romanzo. A chi piace la narrativa quando non è solo invenzione ma anche storia di vita vissuta. A chi è nostalgico degli anni 30, a chi ha visto il film e vuole approfondire quello che è impossibile rappresentare sulla pellicola.

    http://carezzedicarta.altervista.org...-fannie-flagg/
    Se non hai il coraggio di mordere, non ringhiare.

  6. #36
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    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da Rachel Walling Visualizza Messaggio
    Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop
    Et voilà... piuttosto divertente, anche:


  7. #37
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    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da Blue Visualizza Messaggio
    Et voilà... piuttosto divertente, anche:

    Bellissimo!
    Se non hai il coraggio di mordere, non ringhiare.

  8. #38
    Blue
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    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Assaggiare il Decameron




    Sandro Botticelli, Nostalgia degli onesti, Terza giornata, 1483
    Madrid, Museo del Prado



    Si narra che nella contrada di Bengodi esista una montagna di formaggio parmigiano grattugiato,
    sulla cui cima abita della gente che, dalla mattina alla sera, prepara maccheroni e ravioli,
    li cuoce nel brodo di capponi e poi li fa piovere giù per il pendio, dove chi più ne piglia più ne ha;
    lì vicino scorre poi un fiumicello di vernaccia… la migliore vernaccia che abbiate mai bevuto!



    Questa meravigliosa contrada, che chiunque vorrebbe visitare per gustarne le delizie, è descritta da Giovanni Boccaccio nella terza novella dell'ottava giornata del Decameron. Già nel Medioevo, infatti, esistevano pietanze che ancora oggi sono presenti sulle nostre tavole, come il formaggio parmigiano, i maccheroni (in realtà l'identificazione dei maccheroni fiorentini del Trecento è controversa poiché, generalmente intesi come 'gnocchi', essi sono stati recentemente interpretati come una 'pasta distesa sottilmente in falde', l'equivalente di 'piccole lasagne', significato che ancora oggi sopravvive in Toscana), i ravioli.

    La vernaccia, poi, vino bianco pregiato originario del senese, è attestata già nel Purgatorio di Dante, dove, tra i golosi della sesta cornice, Simon de Brion, canonico e tesoriere della cattedrale di Tours ed eletto papa col nome di Martino V, purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia (Pg. XXIV, 23-24).

    Che il cibo, dal Medioevo ai giorni nostri, sia caratterizzato da una forte continuità ci è noto grazie a vari documenti, non soltanto di natura letteraria. Abbiamo ad esempio i ricettari, come quello contenuto nel più antico manoscritto in volgare che ci sia finora pervenuto, grazie al quale sappiamo che nel Medioevo le ricette presentavano una struttura ben precisa, non dissimile da quella che seguiamo oggi per realizzare i nostri piatti: una frase ipotetica in apertura, Se vuoli fare, seguita dal nome della ricetta e da una serie di imperativi alla seconda persona singolare che scandiscono le varie operazioni da svolgere (togli... e metti). Ci sono poi anche libri e registri di spese, grazie ai quali sappiamo che già negli ultimi decenni del Duecento circolavano cibi come pappardelle, mostarda, vermicelli, cialda, pan pepato...

    È interessante poi il caso dell'arista, parola di probabile origine greca che indica la 'schiena e lombo del maiale' e che per lungo tempo è stata collegata alle vicende del Concilio di Firenze del 1439. Artusi, infatti, cita l'episodio nella "Scienza in cucina", contribuendo alla diffusione di questa datazione. In realtà, grazie al registro di un convento di Firenze (l'attuale Santissima Annunziata) risalente alla fine del Duecento, sappiamo che arista è parola ben più antica ed è infatti un piatto noto a Firenze fin dagli anni della giovinezza di Dante.

    Insomma: se grattugiando il parmigiano per insaporire un piatto di ravioli d'ora in poi ci verrà in mente Boccaccio e la sua incredibile contrada, è bene anche sapere che la prossima volta che gusteremo l'arista, magari insieme as un bel bicchiere di vino vermiglio (così veniva chiamato il vino rosso nel Medioevo), il nostro pranzo non sarà poi così diverso da un pasto che può aver gustato, tra una terzina e l'altra, il divino Poeta!


    (Ad. da: "La cucina nel Medioevo")

  9. #39
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    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Il decameron Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura
    Se non hai il coraggio di mordere, non ringhiare.

  10. #40
    Blue
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    Predefinito Re: Letture gustose: quando il cibo incontra la letteratura

    Il cibo, come l'amore, unisce... e chi ha letto qualche novella del Decameron lo sa bene.
    Il pretesto, è noto: il Decameron è una raccolta di cento novelle ripartite in dieci giornate, narrate a turno da dieci ragazzi scappati dalla città per sfuggire alla peste che imperversa a Firenze. Qui il cibo, associato all'amore (spesso scollacciato), diventa anche motivo d'evasione dal presente, di godimento fine a se stesso, di divertimento: è anzitutto questo che ci viene in mente, quando pensiamo al Decameron.
    Ma c'è una novella, una bellissima novella, che si discosta dall'atmosfera godereccia e ridanciana che attraversa l'opera: è quella di Federigo degli Alberighi (V Giornata, Novella IX) e non è affatto divertente; anzi, assume la fisionomia del dramma. Però... amor omnia vincit!




    Maestro della Cité des Dames (1414-1419)
    Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 1989, f. 174v.
    Il copista del manoscritto, datato 15 giugno 1414, è Laurent de Premierfait.
    Federigo degli Alberighi mostra a monna Giovanna e un'altra donna il proprio falcone;
    Federigo serve il falcone come pietanza a Giovanna, mostrandole le zampe dell'animale.



    Federigo degli Alberighi ama e non è amato,
    e in cortesia spendendo si consuma e rimangli
    un sol falcone, il quale, non avendo altro,
    dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa;
    la qual, ciò sappiendo, mutata d'animo,
    il prende per marito e fallo ricco.

    (Dec. V, 9)

    Federigo degli Alberighi, uomo nobile e di bell'aspetto, appartiene ad una prospera e potente famiglia fiorentina. Il giovane si innamora di una nobildonna, monna Giovanna, che però è sposata e non lo degna di uno sguardo. Federigo, però, non si dà per vinto: organizza banchetti, balli e feste per far colpo sull'amata, ma è tutto inutile: anzi, lei lo disprezza perché lo vede sperperare il proprio patrimonio. Infatti, il giovane si rovina al punto che, delle sue ricchezze, gli restano solo un piccolo podere in campagna e il suo amato falcone, grazie al quale guadagna qualche soldo per vivere e per mangiare, andando a caccia.

    Passa il tempo e Giovanna rimane vedova, dedicandosi completamente al suo unico figlio, un adolescente molto malato. Giovanna pensa di farlo guarire portandolo in campagna, dove l'aria è migliore, e insieme al ragazzo, si trasferisce fuori città, in un podere proprio vicino a quello di Federigo. Inevitabile che il ragazzo, ben presto, faccia amicizia con Federigo e sia affascinato dal suo falcone. Anzi, l'animale diventa l'unico conforto alla sua malattia, al punto che vorrebbe averlo tutto per sé, ma non osa chiederlo a Federigo perché si rende conto di quanto gli sia caro. Così, cerca di convince la madre ad andare da Federigo a chiedergli il falcone, convinto che, se lo avrà, guarirà prima.

    Monna Giovanna è titubate a chiedere a Federigo il suo bene più prezioso, consapevole del fatto che è stato proprio l'amore non ricambiato verso di lei a ridurlo in rovina, costringendolo a vivere di sola caccia. Tuttavia, l'amore verso il figlio ha il sopravvento e alla fine si decide ad andare da lui, accompagnata da una dama, col pretesto di fargli una visita di cortesia. Il nobile vorrebbe organizzare un sontuoso banchetto in suo onore; ma, povero com'è, non ha nulla da offrirle... eccetto il suo falcone. Con la morte nel cuore, decide di sacrificare l'amato falcone e farlo cucinare per offrirlo in pasto a Monna Giovanna. Così, quando la nobildonna alla fine del pasto gli rivela il vero motivo della visita, Federigo si dispera e scoppia in lacrime, confessandole di aver sacrificato il suo bene più prezioso per offrirglielo in pasto. Monna Giovanna è colpita, triste, turbata... e quando torna a casa e racconta tutto al figlio, il ragazzo peggiora e, in breve tempo, muore.

    In seguito, i fratelli di Giovanna consigliano alla sorella di risposarsi. Giovanna ci pensa e alla fine promette ai fratelli di farlo, a patto che il marito sia Federigo degli Alberighi e solo lui. La nobildonna non ha dimenticato la nobiltà d'animo di lui, che non ha esitato a sacrificare il falcone per offrirglielo in pasto. Ma i fratelli si oppongono, non vogliono saperne: sconveniente che lei sposi un uomo sul lastrico, uno che ha sperperato una fortuna. Ma la donna è irremovibile e alla fine riesce a spuntarla. Così, Giovanna e Federigo si sposano felicemente e lui finalmente mette giudizio: la smette poi di sperperare soldi e diventa un buon marito.

    Una novella molto bella, che si presta a molteplici chiavi di lettura... uno su tutti, il duplice sacrificio dove l'uno mangia ciò che gli dava vita e l'altra ciò che avrebbe potuto dare vita a suo figlio. Ma l’amore, come si diceva all’inizio, vince sempre.

 

 
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