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    Predefinito Politiche economiche "fasciste"

    COME HITLER AFFRONTO’ LA DISOCCUPAZIONE
    E RIAVVIO’ L’ECONOMIA DELLA GERMANIA


    A cura di: Mark Weber


    Per far fronte alla massiccia disoccupazione e alla paralisi economica della Grande Depressione, i governi tedesco e americano vararono programmi ambiziosi e innovativi. Mentre le misure del "New Deal” del Presidente Franklin Roosevelt aiutarono solo marginalmente, le politiche molto più focalizzate ed esaurienti del Terzo Reich si dimostrarono notevolmente efficaci. Nel giro di tre anni non vi era più disoccupazione e l’economia della Germania era in netta ripresa. E mentre il risultato di Roosevelt nel far fronte alla Depressione è noto, la straordinaria storia di come Hitler affrontò la crisi non è molto riconosciuta o capita.

    Adolf Hitler divenne Cancelliere della Germania il 30 Gennaio 1933. Alcune settimane dopo, il 4 Marzo, Franklin Roosevelt si insediò come Presidente degli Stati Uniti. Entrambi rimasero alla guida del loro paese per i successivi dodici anni, fino all’Aprile del 1945, appena prima che la Seconda Guerra Mondiale terminasse in Europa. Agli inizi del 1933 la produzione industriale in entrambe le nazioni era scesa della metà rispetto a ciò che fu nel 1929. Ogni leader varò rapidamente nuove coraggiose iniziative per far fronte alla terribile crisi economica, in particolare la piaga della disoccupazione di massa. E sebbene ci siano delle sorprendenti somiglianze negli sforzi compiuti dai due governi , i risultati furono molto diversi.

    Uno degli economisti americani più accreditati e maggiormente letti del ventesimo secolo fu John Kenneth Galbraith. Fu consigliere di diversi presidenti e per un certo tempo rivestì l’incarico di Ambasciatore americano in India. Fu l’autore di varie dozzine di libri e per anni insegnò economia all’Università di Harvard. In merito ai risultati ottenuti dalla Germania, Galbraith scrisse: " l’eliminazione della disoccupazione in Germania durante la Grande Depressione senza inflazione – e con la fiducia iniziale sulle opere civili essenziali – fu un notevole successo. Cosa che raramente fu encomiata e poco evidenziata. Il concetto che Hitler non poteva fare del bene si applicava anche all’economia, oltre che a tutto il resto ".

    La politica economica del regime di Hitler, prosegue Galbraith, comprendeva " assunzione di prestiti su larga scala per spese pubbliche, principalmente per opere pubbliche, ferrovie, canali e la rete autostradale. Il risultato fu un colpo alla disoccupazione molto più efficiente che in qualsiasi altro paese industriale ". (1) " Nel tardo 1935 ", scriveva, "la disoccupazione in Germania era finita. Nel 1936 l’alto reddito spingeva i prezzi verso l’alto oppure ne creava le premesse. La Germania, verso la fine degli anni 30, aveva raggiunto la piena occupazione a prezzi stabili. Nel mondo industriale fu un successo assolutamente unico ". (2) " Hitler anticipò anche la moderna politica economica ", sottolineava l’economista, " riconoscendo che un rapido approccio alla piena occupazione era possibile solo se combinato al controllo dei prezzi e dei salari. Che una nazione oppressa da paure economiche reagisse a Hitler come gli americani fecero con Franklin Delano Roosevelt, non stupisce " (3)

    Altri paesi, scriveva Galbraith, non capirono o non impararono dall’esperienza tedesca: " L’esempio tedesco fu istruttivo ma non convincente. I conservatori inglesi e americani guardavano le eresie finanziarie di Hitler, l’indebitamento e la spesa, e all’unisono predissero il fallimento. I progressisti americani e i socialisti inglesi guardavano la repressione, la distruzione dei sindacati, le Camice Brune, le Camice Nere, i campi di concentramento, con isterica retorica, ignorando l’economia. Credevano che nulla di buono, nemmeno la piena occupazione, potesse provenire da Hitler " (4).

    Due giorni dopo essersi insediato come Cancelliere, Hitler si rivolse alla nazione via radio. Sebbene lui e altri leaders del suo movimento avevano messo in chiaro le loro intenzioni di riorganizzare la vita educativa, culturale, politica e sociale della nazione in conformità ai principi nazionalsocialisti, tutti sapevano che, con sei milioni di senza lavoro e l’economia nazionale paralizzata, la più importante priorità del momento era quella di riavviare la vita economica della nazione, soprattutto fronteggiando la disoccupazione e offrendo lavori produttivi.

    " E’ orribile vedere la povertà del nostro popolo! ", disse Hitler nel suo discorso inaugurale. (5) " Assieme ai milioni di operai delle industrie disoccupati e affamati, c’è anche l’impoverimento dell’intera classe media e dei piccoli imprenditori. Se questo crollo alla fine toccherà anche gli agricoltori tedeschi, dovremo far fronte ad una catastrofe di una dimensione incalcolabile. E non sarebbe soltanto il crollo di una nazione ma anche di duemila anni di un retaggio fatto delle più grosse conquiste della civiltà e della cultura umana ".

    Hitler disse: " il nuovo governo dovrà riuscire nel compito di riorganizzare l’economia della nostra nazione tramite due grandi piani quadriennali. Gli agricoltori tedeschi vanno aiutati a mantenere le forniture alimentare della nazione e, di conseguenza, il suo fondamento vitale. L’operaio tedesco verrà salvato dalla rovina con un attacco concertato e globale contro la disoccupazione ".

    " Entro quattro anni ", promise, "la disoccupazione sarà definitivamente risolta. I partiti marxisti e i loro alleati hanno avuto 14 anni per dimostrare ciò che potevano fare. Il risultato è un ammasso di rovine. Ora, popolo di Germania, dacci quattro anni e poi ci giudicherai! "

    Rigettando le oscure e impraticabili opinioni economiche di alcuni attivisti Radicali del suo Partito, Hitler si rivolse a uomini di provata abilità e competenza. Come è noto, si avvalse della collaborazione di Hjalmar Schacht, un banchiere di prim’ordine e un esperto di questioni finanziarie con una impressionante carriera sia nell’industria privata che in quella pubblica. Anche se Schacht non era assolutamente un nazionalsocialista, Hitler lo nominò Presidente della Banca Centrale Tedesca, la Reichsbank, e in seguito Ministro dell’Economia.

    Dopo aver preso il potere, scrive il Prof. John Garraty, uno storico americano in vista, Hitler e il suo nuovo governo " si misero immediatamente a contrastare la disoccupazione con tutte le forze. Stimolarono l’industria privata con sussidi e sconti fiscali, incentivando la spesa al consumo come, ad esempio, concedendo prestiti matrimoniali, e si lanciarono in un massiccio programma di opere pubbliche che vide la costruzione di autostrade, alloggi, ferrovie e progetti di idrovie navigabili " (6).

    I nuovi leaders del regime riuscirono inoltre a convincere quei tedeschi che erano scettici e persino contrari della loro sincerità, risolutezza e abilità. Ciò promosse speranza e fiducia che, a sua volta, incoraggiarono gli industriali ad assumere e ad investire, e i consumatori a spendere con un occhio rivolto al futuro.

    Come aveva promesso, Hitler ed il suo governo nazionalsocialista sconfissero la disoccupazione nel giro di quattro anni. Il numero dei senza lavoro fu portato da 6 milioni, durante la presa del potere all’inizio del 1933, a 1 milione nel 1936. (7). E il tasso dei disoccupati scese così velocemente che tra il 1937 e il 1938 vi era una penuria di manodopera nazionale. (8)

    Per la grande massa dei tedeschi, i salari e le condizioni di lavoro migliorarono costantemente. Dal 1932 an 1938 i redditi settimanali lordi aumentarono del 21%. Dopo aver preso in considerazione ritenute fiscali e assicurative e adeguamenti al costo della vita, l’aumento reale del reddito settimanale durante questo periodo era del 14%. Allo stesso tempo, gli affitti rimasero stabili e ci fu un relativo calo dei costi di riscaldamento e di illuminazione. I prezzi invece scesero per alcune merci al consumo, come apparecchiature elettriche, sveglie e orologi, nonché alcuni prodotti alimentari. Il reddito dei lavoratori continuò a crescere persino dopo lo scoppio della guerra. Nel 1943 il reddito orario medio dei lavoratori tedeschi era cresciuto del 25% e quello settimanale del 41%. (9)

    La "normale” giornata lavorativa per la maggior parte dei tedeschi era di otto ore e la retribuzione degli straordinari era generosa. (10) Oltre agli stipendi più alti, i benefici includevano condizioni lavorative decisamente migliorate, come migliori condizioni sanitarie e di sicurezza, mense con pasti caldi sovvenzionati, campi di atletica, parchi, concerti e rappresentazioni teatrali sovvenzionate, fiere, gruppi sportivi ed escursionistici, balli, corsi educativi per adulti e turismo sovvenzionato. (11). Fu migliorata una già esistente e ottima rete di programmi sociali, incluso programmi assicurativi per anziani e di cure sanitarie nazionali.

    Hitler voleva che i tedeschi avessero " il più alto standard di vita possibile ", disse in un’intervista di un giornalista americano agli inizi del 1934. " Sono dell’opinione che gli americani abbiano ragione nel non volere rendere tutti uguali ma sostenere piuttosto il principio della scala. Tuttavia ad ogni singola persona deve essere data l’opportunità di salire quella scala " (12). Mantenendo questo punto di vista, il governo di Hitler promosse la mobilità sociale, con ampie opportunità di miglioria e di avanzamento. Come afferma il Prof. Garraty: " E’ fuori dubbio che i nazisti incentivassero la mobilità economica e sociale della classe lavorativa ". Per incentivare l’acquisizione di nuovi mestieri qualificati, il governo sviluppò ampiamente i programmi di addestramento attitudinale ed offrì generosi incentivi per ulteriori avanzamenti di lavoratori efficienti. (13).

    Sia l’idea nazionalsocialista che il pensiero di base di Hitler, scrive lo storico John Garraty, " inducevano il regime a favorire il tedesco comune al posto di un qualsiasi gruppo élitario. Gli operai avevano un posto d’onore nel sistema ". In base a ciò, il regime forniva sostanziali agevolazioni accessorie per gli operai che includevano alloggi sovvenzionati, gite a basso costo, programmi sportivi e ulteriori piacevoli agevolazioni aziendali. (14)

    Nella sua dettagliata e critica biografia di Hitler, lo storico Joachim Fest riconobbe: " Il regime insistette nel fatto che non era il dominio di una classe sociale sulle altre, e dando a tutti l’opportunità di crescere, dimostrò infatti una neutralità di classe. In effetti queste misure infransero le vecchie e rigide strutture sociali. Esse migliorarono concretamente la condizione materiale di gran parte della popolazione ". (15)

    Ecco alcuni dati che danno un idea di come migliorò la qualità della vita. Fra il 1932, ultimo anno dell’epoca pre-hitleriana, e il 1938, l’ultimo anno intero prima dello scoppio bellico, il consumo di alimentari aumentò di un sesto, mentre abbigliamento e tessili incrementarono di più di un quarto, mobili e articoli casalinghi del 50%. (16) Durante il periodo di pace nel Terzo Reich, il consumo di vino aumentò del 50% e il consumo di champagne di ben cinque volte. (17) Fra il 1932 e il 1938 il volume turistico aumentò di oltre il doppio, mentre i proprietari di automobili durante gli anni 30 triplicarono. (18) La produzione tedesca di veicoli a motore, che includeva le auto fabbricate dalle americane Ford e General Motors (Opel), raddoppiò nel periodo 1932-1937, mentre le esportazioni di veicoli a motore tedeschi aumentarono di otto volte. Il traffico aereo passeggeri in Germania aumentò di oltre il triplo dal 1933 al 1937. (19).

    L’industria tedesca risorse e prosperava. Durante i prime quattro anni dell’epoca nazionalsocialista, gli utili netti delle grandi imprese quadruplicarono e il reddito manageriale e imprenditoriale aumentò di quasi il 50%. " Le cose sarebbero andate ancora meglio in seguito ", scrive lo storico ebreo Richard Grunberger nel suo studio dettagliato: I Dodici Anni del Reich. " Nel triennio 1939-1942 l’industria tedesca si espanse tanto quanto lo era nei precedenti 5 anni ". (20).

    Sebbene gli affari in Germania andavano bene, gli utili erano controllati e venivano mantenuti per legge entro certi limiti. (21). A cominciare dal 1934, i dividendi per gli azionisti di grandi imprese tedesche erano limitati al 6% annuo. Gli utili non divisi venivano investiti in buoni governativi del Reich che davano una resa di interessi annua del 6%, e in seguito, dopo il 1935, del 4,5%. Questa politica ebbe la prevedibile conseguenza di incoraggiare il reinvestimento aziendale e l’auto-finanziamento e quindi di ridurre l’indebitamento con le banche e, più in generale, di diminuire l’influenza di capitale commerciale. (22)

    Le percentuali di imposte aziendali crescevano costantemente, dal 20% nel 1934 al 25% nel 1936, fino al 40% nel 1939-1940. Gli amministratori delle aziende tedesche potevano concedere dei premi ai dirigenti, ma solo se questi erano direttamente proporzionali agli utili ed autorizzavano anche premi corrispondenti o " contributi sociali volontari " ai dipendenti. (23)

    Fra il 1934 e il 1938 l’utile lordo tassabile degli uomini d’affari tedeschi aumentò del 148% ed il volume fiscale generale incrementò durante questo periodo del 232%. Il numero di contribuenti nella fascia più alta dei redditi, coloro che guadagnavano più di 100.000 Marchi all’anno, aumentò durante questo periodo del 445%. (Mentre invece, il numero di contribuenti nella fascia più bassa dei redditi, coloro che guadagnavano meno di 1.500 Marchi all’anno, aumentò solo del 5%). (24)

    La tassazione nella Germania nazionalsocialista era nettamente "progressiva”, cioè coloro che avevano un reddito maggiore pagavano in proporzione di più di quelli della fascia a basso reddito. Fra il 1934 e il 1938 la percentuale media di tassazione sui redditi superiori ai 100.000 Marchi annui aumentò dal 37,4 al 38,2%. Nel 1938 i tedeschi nella fascia di tassazione più bassa erano il 49% della popolazione e avevano il 14% del reddito nazionale, ma pagavano solamente il 4,7% di tassazione fiscale. Quelli nella categoria più alta erano solo l’1% della popolazione ma col 21% del reddito nazionale e pagavano il 45% di tassazione fiscale. (25).

    Gli ebrei rappresentavano circa l’1% della popolazione totale tedesca quando Hitler andò al potere. Mentre il nuovo governo si affrettava a rimuoverli dalla vita politica e culturale della nazione, agli ebrei fu permesso di continuare nella vita economica, almeno per diversi anni. Infatti, molti ebrei beneficiarono delle misure prese dal regime e della ripresa economica generale. Nel Giugno del 1933, ad esempio, Hitler approvò una piano di investimenti governativo su larga scala di 14,5 milioni di Marchi nella ditta Hertie di proprietà ebraica, una catena di grandi magazzini di Berlino. Questa "cauzione” fu pagata per evitare il fallimento di fornitori, finanziatori e soprattutto i 14.000 dipendenti di questa grande società. (26)

    Il Prof. Gordon Craig, che per anni insegnò storia all’Università di Stanford, sottolinea: " nel commercio al dettaglio e dell’abbigliamento, le ditte ebraiche continuarono ad operare con profitto fino al 1938, e in particolare a Berlino e Amburgo aziende di rinomata reputazione e gusto continuavano ad avere i loro vecchi clienti nonostante la proprietà era di ebrei. Nel mondo della finanza non fu posta alcuna restrizione sulle attività di società ebraiche alla Borsa di Berlino (mercato azionario) e fino al 1937 gli istituti bancari di Mendelssohn, Bleichroeder, Arnhold, Dreyfuss, Straus, Warburg, Aufhaeuser e Behrens erano ancora attivi ". (27). Cinque anni dopo che Hitler prese il potere, il ruolo ebraico nella vita economica era ancora rilevante e gli ebrei possedevano ancora considerevoli beni immobili, specialmente a Berlino. Tutto ciò cambiò radicalmente nel 1938 e alla fine del 1939 gli ebrei erano stati ampiamente rimossi dalla vita economica tedesca.

    Il tasso di criminalità in Germania scese drasticamente durante gli anni di Hitler, con cali significativi negli omicidi, furti, rapine, peculato e furtarelli vari. (28). Le migliorie della salute e dell’aspetto dei tedeschi stupirono molti stranieri. " La mortalità infantile fu notevolmente ridotta ed è ampiamente inferiore a quella della Gran Bretagna ", scrisse Sir Arnold Wilson, un membro del Parlamento Britannico che visitò la Germania sette volte dopo che Hitler andò al potere. " la tubercolosi e altre malattie erano considerevolmente diminuite. I tribunali penali non avevano mai avuto così poco da fare e le prigioni non avevano mai avuto così pochi ospiti. E’ un piacere vedere l’idoneità fisica della gioventù tedesca. Persino le persone più povere sono vestite meglio di quanto lo fossero in passato e i loro visi allegri testimoniano il miglioramento psicologico che era dentro di loro ". (29)

    Il migliorato benessere psicologico-emozionale dei tedeschi durante questo periodo è stato anche rilevato dallo storico Richard Grunberger. " Non ci sono molti dubbi ", scrisse, " che la presa di potere dei nazionalsocialisti generò un ampio miglioramento nella salute emotiva; ciò non fu soltanto un risultato della ripresa economica ma anche l’alto senso dei tedeschi nell’identificarsi con gli obiettivi nazionali ". (30)

    L’Austria attraversò una fenomenale ripresa dopo che fu annessa al Reich tedesco nel Marzo del 1938. Immediatamente dopo l’Anschluss (annessione), i responsabili del governo si diedero rapidamente da fare per alleviare l’indigenza sociale e rivitalizzare l’economia moribonda. Investimenti, produzione industriale, costruzione di alloggi, spesa dei consumatori, turismo e standard di vita crebbero velocemente. Fra il Giugno e il Dicembre del 1938 soltanto, il reddito settimanale degli operai dell’industria austriaci crebbe del 9%. Il successo del regime nazionalsocialista nel combattere la disoccupazione fu così rapido che lo storico americano Evan Burr Bukey arrivò a definirlo: " uno dei successi economici più notevoli nella storia moderna”. Il tasso dei senza lavoro in Austria scese dal 21,7% nel 1937 al 3,2% nel 1939. Il Prodotto Interno Lordo crebbe del 12,8% nel 1938 e di uno stupefacente 13,3% nel 1939. (31)

    Una notevole espressione di fiducia nazionale stava alla base del netto aumento delle nascite. Entro l’anno in cui Hitler salì al potere, l’indice di natalità ebbe un balzo del 22%, arrivando ad un livello alto nel 1938. Rimase tale persine nel 1944, l’ultimo intero anno di guerra. (32) Secondo lo storico John Lukacs, il balzo dell’indice di natalità era un espressione di " ottimismo e fiducia " da parte dei tedeschi durante gli anni di Hitler. " Per ogni due bambini nati in Germania nel 1932, quattro anni dopo ne sarebbero nati tre ", afferma. " Nel 1938 e 1939, il più alto tasso di matrimoni in Europa fu registrato in Germania, soppiantando persino quelli dei più prolifici popoli dell’Europa dell’Est. L’aumento fenomenale nel tasso di natalità tedesco fu persino più consistente dell’incremento del tasso dei matrimoni ". (33) " la Germania nazionalsocialista, sola fra le nazioni popolate da bianchi, riuscì a raggiungere un incremento nella fertilità ", evidenzia l’eminente storico americano di origine scozzese Gordon A. Craig, " con un forte aumento della natalità dopo che Hitler arrivò al potere e con un costante aumento negli anni che seguirono ". (34)

    In un lungo discorso rivolto al Reichstag agli inizi del 1937, Hitler ricordò gli impegni che aveva preso quando il suo governo assunse il potere. Egli spiego anche i principi sui quali erano basate le sue politiche e guardò indietro a ciò che era stato fatto in quattro anni. (35) " Colore che parlano di ‘democrazie’ e ‘dittature’”, disse, " semplicemente con comprendono che in questo paese è stata fatta una rivoluzione, i cui risultati possono essere considerati democratici nel più alto significato del termine, sempre che la democrazia abbia un qualsiasi vero significato. La rivoluzione nazionalsocialista non ha avuto come obiettivo di trasformare una classe privilegiata in una classe che non avrebbe avuto diritti in futuro. Il suo scopo è stato quello di dare uguali diritti a coloro che non avevano diritti. Il nostro obiettivo è stato reso raggiungibile per l’intero popolo tedesco, non solo in campo economico ma anche in quello politico e assicurato dal coinvolgimento delle masse in modo organizzato. Negli ultimi quattro anni abbiamo aumentato la produzione tedesca in tutti i settori fino a raggiungere livelli straordinari. E questo aumento produttivo è andato a beneficio di tutti i tedeschi ".

    In un altro discorso, due anni dopo, Hitler parlò brevemente dei successi in campo economico del suo regime (36): " Vinsi il caos in Germania, restaurai l’ordine, aumentai enormemente la produzione in tutti campi della nostra economia nazionale, con enormi sforzi produssi surrogati di varie materie prime che non abbiamo, ho incoraggiato nuove invenzioni, sviluppato gli scambi, costruito nuove strade e canali navigabili, trasformato fabbriche enormi e nel contempo mi sono impegnato a promuovere l’istruzione e la cultura del nostro popolo per lo sviluppo della nostra comunità sociale. Riuscii a trovare un lavoro utile per tutti e sette milioni di disoccupati che ci facevano così tanta pena, a far restare il contadino sulla sua terra nonostante tutte le difficoltà e a risparmiare la terra stessa per lui, a ripristinare un commercio tedesco prospero e a promuovere al massimo gli scambi ".

    Lo storico americano John Garraty paragonò le risposte americane e tedesche alla Grande Depressione in un articolo molto discusso pubblicato sulla Rivista di Storia Americana. Scrisse (37): " I due protagonisti (cioè gli Stati Uniti e la Germania) reagirono tuttavia alla Grande Depressione in modi simili, diversi da quelli di altre nazioni industriali. Dei due, i nazionalsocialisti ebbero maggior successo a curare le ferite economiche degli anni 30. Essi ridussero la disoccupazione e stimolarono la produzione industriale più velocemente di quanto fecero gli americani e, considerando le loro risorse, affrontarono i loro problemi commerciali e monetari con maggior riuscita, sicuramente in modo più fantasioso. Questo in parte perché i nazionalsocialisti usarono il finanziamento in disavanzo su più vasta scala e in parte perché il sistema totalitario si presta meglio alla mobilitazione della società, sia con la forza che con la persuasione. Nel 1936 la depressione era praticamente finita in Germania, ma ancora lontana dalla fine negli Stati Uniti ".

    Infatti, il tasso dei senza lavoro negli Stati uniti rimase alto finché non si arrivò a stimolare la produzione bellica su vasta scala. Persino nel Marzo del 1940, la disoccupazione americana era ancora sul 15% della forza lavoro. Fu la produzione di guerra, e non i programmi del "New Deal” di Roosevelt , a portare la piena occupazione. (38)

    Il Prof. William Leuchtenburg, uno storico americano di fama, meglio conosciuto per i suoi libri sulla vita e sulla carriera di Franklin Roosevelt, riassunse l’operato misto del Presidente in uno studio molto acclamato. "Il New Deal lasciò molti problemi irrisolti e ne creò altri nuovi e sconcertanti ", conclusa Leuchtenburg, " Esso non dimostrò mai di poter raggiungere la prosperità in tempo di pace. Ancora nel 1941 i disoccupati erano ancora sei milioni e non fu che durante l’anno di guerra 1943 che l’esercito dei senza lavoro scomparse ". (39)

    Il contrasto fra i successi economici tedeschi e americani durante gli anni 30 è ancora più evidente se si prende in considerazione che gli Stati Uniti avevano ricchezze e risorse naturali immensamente maggiori, incluse grandi riserve petrolifere, nonché una minore densità di popolazione e nessun vicino ostile e bene armato.

    Un interessante confronto tra l’approccio americano e tedesco alla Grande Depressione apparve in una edizione del 1940 del settimanale berlinese "Das Reich”. Il titolo era: " Hitler e Roosevelt: un successo tedesco, un tentativo americano ". L’articolo citava il " sistema democratico parlamentare” degli Stati Uniti come un fattore chiave nel fallimento degli sforzi dell’amministrazione Roosevelt di ripristinare il benessere. " Noi tedeschi iniziammo con una idea e mettemmo in atto misure pratiche senza curarci delle conseguenze. L’America iniziò con molte misure pratiche che, senza coerenza al loro interno, misero un cerotto su ogni ferita " (40)

    Le politiche economiche di Hitler sarebbero andate bene negli Stati Uniti? Queste politiche sono probabilmente più realizzabili in paesi come la Svezia, la Danimarca, i Paesi Bassi, con una popolazione ben istruita, auto-disciplinata ed etnicamente e culturalmente coesa, con un carattere "comunitario” tradizionalmente forte e con una corrispondente fiducia di alto livello. Le politiche economiche di Hitler sono poco applicabili negli Stati Uniti e in altre società con una popolazione etnicamente e culturalmente diversa, con una tradizione del "lasciar fare” marcatamente individualistica e con un corrispondente spirito "comunitario” più debole. (41)

    Hitler stesso fece uno straordinario confronto fra i sistemi economici, sociali e politici degli Stati U niti, dell’Unione Sovietica e della Germania. Durante un discorso nel tardo 1941, disse (43): " Stiamo ora per conoscere due estremi socio-politici. Uno è quello degli stati Capitalisti, che usano menzogne, malafede e imbrogli per negare ai loro popoli i più vitali e basilari diritti e che sono preoccupati soltanto dei loro propri interessi finanziari, per i quali sono pronti a sacrificare milioni di persone. D’altro canto, abbiamo visto (in Unione Sovietica) l’estremo Comunista: uno stato che ha portato una indicibile miseria a milioni e milioni e che, seguendo la sua dottrina, sacrifica la felicità degli altri. Da questa consapevolezza, a mio avviso, per tutti noi c’è solo un dovere e cioè quello di batterci più che mai per il nostro ideale socialista e nazionale. In questo stato tedesco il principio prevalente non è, come nella Russia sovietica, il principio della così detta uguaglianza, ma piuttosto quello della giustizia ". David Lloyd George, che fu Primo Ministro britannico durante la Prima Guerra Mondiale, fece un largo viaggio in Germania nel tardo 1936. In un articolo pubblicato in seguito in un famoso giornale londinese, lo statista inglese raccontò ciò che aveva visto e vissuto (43):

    " Qualunque cosa si possa pensare di questi metodi ", scrisse Lloyd George, " e certamente non sono metodi di un paese con governo parlamentare, non c’è alcun dubbio che è stata raggiunta una meravigliosa trasformazione nello spirito della gente, nel loro atteggiamento reciproco e nel loro aspetto sociale ed economico. Egli (Hitler) affermò con ragione a Norimberga che in quattro anni il suo partito avrebbe creato una nuova Germania. Non è la Germania della prima decade dopo la guerra, a pezzi, depressa e prostrata con un senso di timore e di impotenza. Essa è ora piena di speranza e fiducia e con un rinnovato senso di determinazione a condurre la sua propria vita senza interferenze da qualsiasi influenza al di fuori delle proprie frontiere. Per la prima volta, dalla fine della guerra, c’è un generale senso di sicurezza. La gente è più allegra. C’è un maggior senso di felicità spirituale generale in tutta la nazione. E’ una Germania più felice. L’ho visto ovunque, e degli inglesi che ho incontrato durante il mio viaggio, e che conoscevano bene la Germania, erano colpiti dal cambiamento. Questo grande popolo ", avvertiva questo attempato statista, " lavorerà meglio, farà più sacrifici, e, se necessario, lotterà con grande determinazione perché Hitler chiede loro di farlo. Colore che non comprendono questo fattore centrale non possono giudicare le attuali possibilità della Germania moderna ".

    Sebbene i pregiudizi e l’ignoranza abbiano impedito una più ampia consapevolezza e comprensione delle politiche economiche di Hitler e il loro impatto, il suo successo nella politica economica è stato confermato da storici, inclusi studiosi che sono generalmente molto critici sul leader tedesco e sulle politiche del suo regime.

    John Lukacs, uno storico americano di origine ungherese, i cui libri sono stati oggetto di commenti e di apprezzamento, ha scritto: " I successi di Hitler, più interni che esterni, durante i sei anni di pace e di governo in Germania, furono straordinari. Portò prosperità e fiducia ai tedeschi, il tipo di prosperità che è il risultato della fiducia. Gli anni 30, dopo il 1933, furono anni solari per la maggior parte dei tedeschi, qualcosa che rimase nelle memorie di una intera loro generazione ". (44)

    Sebastian Haffner, un influente giornalista e storico tedesco e che fu anche un feroce critico del Terzo Reich e della sua ideologia, riconsiderò la vita e il lascito di Hitler in un libro molto discusso. Sebbene il suo ritratto del leader tedesco nel libro " Il Proposito di Hitler " sia aspro, l’autore scrive tuttavia: (45)

    " Fra questi successi positivi di Hitler, quello che supera tutti gli altri fu il suo miracolo economico. Mentre il resto del mondo era ancora in preda alla paralisi economica, Hitler fece della Germania un isola di prosperità. Nel giro di tre anni, continua Haffner, i bisogni urgenti e le sofferenze di massa furono trasformati in semplice ma comoda prosperità. Altrettanto importante: l’impotenza e la mancanza di speranza avevano dato spazio alla fiducia e alla sicurezza nelle proprie capacità. Persino più miracoloso fu il fatto che la transizione dalla depressione al boom economico fu raggiunta senza inflazione, con salari e prezzi completamente stabili. E’ difficile descrivere in modo adeguato la riconoscente sorpresa con la quale i tedeschi reagirono a questo miracolo, il quale, fece sì che moltissimi operai tedeschi social-democratici o comunisti passassero dalla parte di Hitler dopo il 1933. Questa riconoscente sorpresa dominò completamente l’umore delle masse tedesche nel periodo 1936-1938 ".

    Joachim Fest, un altro illustre giornalista e storico tedesco, riconsiderò la vita di Hitler in una esauriente e acclamata biografia. " Se Hitler fosse deceduto in un assassinio o in un incidente alla fine del 1938, pochi avrebbero esitato a descriverlo come uno dei più grandi statisti tedeschi, il compitore della storia della Germania ". (46) " Nessun osservatore obiettivo della situazione tedesca potrebbe negare i considerevoli successi di Hitler ", affermò lo storico americano John Toland. " Se Hitler fosse morto nel 1937, nel quarto anniversario della sua ascesa al potere, egli sarebbe indubbiamente diventato uno dei più grandi personaggi della storia tedesca. In tutta Europa aveva milioni di ammiratori ". (47)

    NOTE:

    1. J.K. Galbraith, Money (Boston: 1975), pag. 225-226

    2. J.K. Galbraith, The Age of Uncertainty (l’era dell’incertezza), (1977), pag. 214

    3. J.K. Galbraith nel The New York Times Book Review, 22 Aprile 1973. Citato in: J. Toland, Adolf Hitler (Doubleday & Co., 1976), pag. 403 (note).

    4. J.K. Galbraith, The Age of Uncertainty (l’era dell’incertezza), (1977), pag. 213-214

    5. Discorso radiofonico di Hitler, "Aufruf an das deutsche Volk” (appello al popolo Tedesco), 1° Febbraio 1933.

    6. John A. Garraty, "The New Deal, National Socialism and the Great Depression (il New Deal, Nazionalsocialismo e la Grande Depressione), The American Historical Review, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), pag. 909-910

    7. Gordon A. Craig, Germany 1866-1945 (New York: Oxford, 1978), pag. 620

    8. Richard Grunberger, The Twelve-Year Reich: A Social History of Nazi Germany, 1933-1945 (I dodici anni del Reich: storia sociale della Germania Nazista, 1933-1945), (New York: Holt, Rinehart e Winston, 1971), pag. 186, Pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna col titolo: A Social History of the Third Reich (storia sociale del Terzo Reich)

    9. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 187; David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (la rivoluzione sociale di Hitler) (Norton, 1980) (edizione economica), pag. 100

    10. David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton, 1980), pag. 101

    11. David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton, 1980) (edizione economica), pag. 100, 102, 104; Lo storico Gordon Craig scrive: " Oltre a questi innegabili successi (cioè una migliore qualità di vita), i lavoratori tedeschi ricevettero ulteriori ed importanti sussidi dallo stato. Il partito conduceva una campagna di enorme successo per migliorare le condizioni lavorative negli stabilimenti industriali con periodiche iniziative preposte non solo per controllare che le norme sanitarie e di sicurezza fossero rispettate, ma anche per incoraggiare l’alleviamento dalla monotonia del lavoro quotidiano tramite aspetti gradevoli come la musica, il piantare alberi e premi speciali per il raggiungimento di obiettivi ". G. Craig, Germany 1866-1945 (Oxford, 1978), pag. 621-622

    12. Intervista con Louis Lochner, corrispondente a Berlino dell’Associated Press. Citato in: Michael Burleigh, The Third Reich: A New History (il Terzo Reich: una nuova storia), (New York: 2000), pag. 247

    13. G. Craig, Germany 1866-1945 (Oxford, 1978), pag. 623; John A. Garraty, " The New Deal, National Socialism and the Great Depression ", The American Historical Review, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), pag. 917, 918

    14. J.A. Garraty, "The New Deal, National Socialism and the Great Depression”, The American Historical Review, Ottobre 1973, pag. 917, 918

    15. Joachim fest, Hitler (New York: 1974), pag. 434-435

    16. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (I dodici anni del Reich), (New York:1971 ), pag.203

    17. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 30, 208

    18. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 198, 235

    19. G. Frey (Hg.), Deutschland wie es wirklich war (la Germania com’era realmente) (Monaco: 1994), pag. 38, 44

    20. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 179

    21. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (la rivoluzione sociale di Hitler), (1980), pag. 118, 144

    22. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pag. 144, 145; Franz Neumann, Behemoth: The Structure and Practice of National Socialism 1933-1944 (il colosso: struttura e prassi del Nazionalsocialismo 1933-1944), (New York; Harper & Row, 1966 (edizione economica, pag. 319-326; R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 177

    23. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 177; D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton, 1980), pag. 125

    24. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pag. 148, 149

    25. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pag. 148, 149. (al confronto, osserva Schoenbaum, il tasso fiscal sul reddito per la fascia di reddito più alta nel 1966 nella Repubblica Federale Tedesca era circa del 44%)

    26. D. Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (1980), pag. 134

    27. G. Craig, germany 1866-1945 (Oxford, 1978), pag. 633

    28. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 26, 121; G. Frey (Hg.), Deutschland wie es wirklich war (la Germania com’era realmente), (Monaco, 1994), pag. 50-51

    29. Citato in: J. Toland, Adolf Hitler (Doubleday & Co., 1976). Pag. 405. Fonte citata: Cesare Santoro, Hitler Germany (Berlin: 1938)

    30. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 223

    31. Evan Burr Bukey, Hitler’s Austria (l’Austria di Hitler), (Chapel Hill: 2000), pag. 72, 73, 74, 75, 81, 82, 124. (Bukey è professore di storia all’Università dell’Arkansas)

    32. R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 29, 234-235

    33. John Lukacs, The Hitler of History (l’Hitler della Storia), (New York: Alfred A. Knopf, 1997), pag. 97-98

    34. G. Craig, Germany 1866-1945 (Oxford, 1978), pag. 629-630

    35. Discorso di Hitler al Parlamento del Reichstag del 30 Aprile 1937

    36. Discorso di Hitler al Parlamento del Reichstag del 28 Aprile 1939

    37. John A. garraty, "The New Deal, National Socialism and the Great Depression”, The American Historical Review, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), pag. 944. (Garraty insegnò storia all’Università dello Stato del Michigan e alla Columbia University ed è stato in carica in qualità di president della Società degli Storici Americani).

    38. John. A. Garraty, "The New Deal, National Socialism and the Great Depression”, The American Historical Review, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), pag. 917, incluso n. 23. Garraty scrisse: "di certo la piena occupazione non fu mai raggiunta in America fintanto che l’economia non diventò totalmente di Guerra. La disoccupazione americana non scese mai molto al di sotto degli otto milioni durante il New Deal. Nel 1939 circa 9,4 milioni erano senza lavoro e durante il censimento del 1940 (Marzo) la disoccupazione si assestava sui 7,8 milioni, quasi il 15% della forza lavoro "

    39. William E. Leuchtenburg, Franklin Roosevelt e il New Deal (New York: Harper & Row, 1963 (edizione economica), pag. 346-347

    40. Da: Das Reich, 26 Maggio 1940. Citato in John A. Garraty, "The New Deal, National Socialism and the Great Depression”, The American Historical Review, Ottobre 1973, pag. 934. Fonte citata: Hans-Juergen Schroeder, Deutschland und die Vereinigten Staaten (la Germania e gli Stati Uniti), (1970), pag. 118-119

    41. Durante una visita a Berlino negli anni 30, l’ex Presidente americano Herbert Hoover si incontrò con il Ministro delle Finanze di Hitler, Conte Lutz Schwerin von Krosigk, il quale spiegò a lungo le politiche economiche del suo governo. Nell’ammettere che queste misure erano di beneficio per la Germania, Hoover espresse l’opinione che non erano adatte per gli Stati Uniti. Salari e politiche di prezzo decisi dal governo, riteneva sarebbero stati contrari alla nozione americana della libertà personale. Vedi: Lutz Graf Schwerin von Krosigk, Es geschah in Deutschland (successe in Germania), (Tuebingen/Stuttgart:1952), pag. 167; L’influente economista britannico John Maynard Keynes scrisse nel 1936 che le sue politiche "Keynesiane”, che furono in un qualche modo adottate dal governo di Hitler, " possono essere molto meglio adattate nelle condizioni di uno stato totalitario " anziché in un paese dove "prevalgono le condizioni di libera competizione ed un ampio livello di "lasciar fare”. Citato in: James J. Martin, Revisionist Viewpoints (punti di vista revisionisti), (1977), pag. 187-205 (vedi anche: R. Skidelsky, John maynard Keynes: The Economist as Savior 1920-1937 (l’economista come Salvatore 1920-1937), (New York: 1994), pag. 581. La ricerca negli ultimi anni indica che la maggiore diversità etnica riduce i livelli di fiducia sociale e la fattibilità di politiche di benessere sociale. Vedi: Robert D. Putnam, "E Pluribus Unum: Diversity and Community in the Twenty-first Century (tra molti, uno: diversità e comunità nel 21° secolo), Scandinavian Political Studies (Studi Politici Scandinavi), Giugno 2007. Vedi anche: Frank Salter, Welfare, Ethnicity and Altruism (benessere, etnicità e altruismo), (Routledge, 2005)

    42. Discorso di Hitler a Berlino, 3 Ottobre 1941

    43. Daily Express (Londra), 17 Novembre (o Settembre?) 1936

    44. John Lukacs, The Hitler of History (New York: Alfred A. Knopf, 1997), pag. 95-96

    45. S. Haffner, The Meaning of Hitler (la prassi di Hitler), (New York: Macmillan, 1979), pag. 27-29. Pubblicato la prima volta nel 1978 con il titolo di: Anmerkungen zu Hitler (osservazioni a Hitler). Vedi anche: M. Weber, "Sebastian Haffner’s 1942 Call for Mass Murder” (la denuncia del 1942 di sterminio di massa di Sebastian Haffner), The Journal for Historical Review, autunno 1983 (Vol. 4, No. 3), pag. 380-382

    46. J. Fest, Hitler: a Biography (Hitler: una biografia) (Harcourt, 1974), pag. 9. Citato in: S. Haffner, The Meaning of Hitler (1979), pag. 40

    47. J. Toland, Adolf Hitler (Doubleday & Co., 1976), pag. 407,409

    Fonte: How Hitler Tackled Unemployment

    Novembre 2011

    Traduzione a cura di: Gian Franco SPOTTI

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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    La politica economica del Fascismo



    La prima fase del fascismo è caratterizzata da una politica economica di impronta liberista, gestita dal liberale De Stefani che procede alla rimozione dei vincoli alla libertà di impresa istituiti durante la Grande Guerra e a massicci interventi statali finalizzati ad incoraggiare gli investimenti privati, oltre che al salvataggio di banche e industrie (Banco di Roma, Ansaldo, ecc.). Ben presto, però, l’economia italiana si trova a dover fare i conti con l’indebolimento della bilancia commerciale e l’inflazione crescente. Nella seconda metà degli anni Venti, perciò, matura la svolta dalla politica liberista a quella dirigista, con lo Stato che oltre al ruolo di garante assume anche quello di protagonista e organizzatore del ciclo economico.

    Il primo atto del nuovo corso della politica economica fascista è "quota 90", la battaglia per riportare il cambio dalla cifra record di 145 lire per ogni sterlina a 90. Una scelta, questa, che se da un lato soddisfa le esigenze di prestigio politico del regime, dall’altro penalizza gli interessi economici del mondo industriale perché causa una forte deflazione e rende i prodotti italiani meno competitivi sui mercati internazionali.

    Quando le conseguenze della crisi del ’29 si fanno sentire anche in Italia, il fascismo reagisce accentuando il proprio carattere autoritario, mirando ad estendere il proprio controllo su ogni aspetto della vita economica, politica e sociale. Nel 1933 nasce l’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), mediante il quale lo Stato concentra nelle proprie mani il controllo azionario di un gran numero di banche e imprese. Il meccanismo delle partecipazioni statali, in pratica, consente allo Stato di intervenire direttamente nell’economia arrivando perfino ad orientare e dirigere lo sviluppo. Nel 1934 viene istituito il controllo statale sulle operazioni valutarie e il divieto di esportare valuta; nel 1935 viene imposto il controllo statale sulle importazioni.

    Con la guerra d’Etiopia del 1935-36, a causa della quale l’Italia subisce le sanzioni economiche da parte della Società delle nazioni, Mussolini lancia l’autarchia, cioè il raggiungimento della massima autonomia economica. Con la riforma del credito del 1936, che cancella il vecchio sistema della banca mista affidando agli istituti pubblici le funzioni di investimento industriale, lo Stato assume anche il compito di rastrellare capitali. Il potere di controllo e di programmazione statale a questo punto diventa enorme.

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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    La politica sociale del Fascismo, durante il corso del Ventennio, ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un importante argomento di dibattito: il gran numero di provvedimenti presi nei confronti del mondo del lavoro, in particolare, evidenzia la complessità di un'ideologia politica difficilmente catalogabile nei tradizionali schemi destra-sinistra.

    Antonio Martino

    La politica sociale del Fascismo, durante il corso del Ventennio, ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un importante argomento di dibattito: il gran numero di provvedimenti presi nei confronti del mondo del lavoro, in particolare, evidenzia la complessità di un’ideologia politica difficilmente catalogabile nei tradizionali schemi destra-sinistra. Fino alla Grande Guerra, lo Stato Italiano aveva applicato un comportamento tipicamente liberale nei confronti della dialettica lavoro-capitale: seguendo il celebre postulato del laissez-faire, poco o nulla era stato fatto in materia di diritti dei lavoratori. Allorché il Fascismo giunse al governo, nell’ottobre 1922, le istanze delle classi subalterne, iscritte in buon numero nel PNF, furono sfruttate per estendere il consenso personale di Mussolini: in un solo anno (1923), la legislazione sociale fascista recupera il tempo perduto dai regimi liberali, con appositi Regi Decreti:

    Tutela lavoro donne e fanciulli – (R.D. 653/1923); Maternità e infanzia – (R.D. 2277/1923); Assistenza ospedaliera per i poveri – (R.D. 2841/1923); Assicurazione contro la disoccupazione – (R.D. 3158/1923); Assicurazione invalidità e vecchiaia – (R.D. 3184/1923)

    Al contempo, nel campo della lotta di classe, nella dinamica del processo produttivo, il Fascismo aveva, fin dal 1921, adottato la teoria del Corporativismo, indicando in tal modo l’ipotetica terza via tra Capitalismo e Collettivismo marxista. Lo stesso Mussolini aveva espresso, a tal proposito, la propria idea di «Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime ma tutela di tutti gli interessi che armonizzano con quelli della produzione e della nazione». Era dunque necessario creare un documento programmatico che, elaborando la teoria corporativa, regolasse il mondo del lavoro nella nuova Italia fascista. L’onere dell’opera fu assunto dal Ministro delle Corporazioni Giuseppe Bottai, il più importante esponente della corrente sociale del Regime, che, traendo ispirazione dalla Carta del Carnaro dannunziana, redasse la Carta del Lavoro. Approvata, dopo numerose revisioni, il 21 aprile 1927, Natale di Roma, la Carta del Lavoro si compone di quattro parti e trenta articoli. L’articolo uno afferma che «La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli II. Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzativi ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato». Il lavoro è definito dovere sociale; viene introdotto il contratto collettivo di lavoro, quale «espressione concreta della solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione».

    Viene inoltre istituita la Magistratura del Lavoro (art. V e X), riconosciuto il ruolo delle Corporazioni quali organi di Stato (art.VI), regolato il ruolo dell’intervento statale nell’economia (art. IX). Dal XI al XXI articolo si affrontano le tutele dei lavoratori e le garanzie minime del Lavoro. Chiudono la Carta articoli sulla previdenza, assistenza, istruzione, sanità. La Carta fu utilizzata dal Regime per propagandare all’estero la riuscita creazione di una terza via economica, mentre il capitalismo evidenziava i primi sintomi della catastrofica crisi del 1929. Molti paesi, infatti, prenderanno la carta come modello, specie dopo il crollo di Wall Street e l’apparente agonia del modello capitalista. Il successo del sistema corporativo, di cui la Carta è un pilastro imprescindibile, fu certificato dal Congresso internazionale del lavoro di Ginevra del 1932, ove si affermò che «(Per l’Italia) non si può parlare di regressione nella politica sociale». Sul fronte interno, il documento di Bottai porterà dei concreti vantaggi materiali alle classi lavoratrici, specie sul fronte delle ferie e delle indennità in caso di infortuni o malattie. Alcuni esponenti dell’antifascismo, addirittura, rivedono le loro posizioni dopo il provvedimento del 21 aprile. Sono, però, dei successi minimi rispetto all’ardito progetto di totale trasformazione dell’economia in senso corporativo: Mussolini non può e non vuole assecondare Bottai, inimicandosi del tutto gli industriali e il grande capitale italiano. La vera attuazione del progetto corporativo e della politica sociale, quale era nella mente del duce, si avrà soltanto durante la Repubblica Sociale, quando verrà approvata la socializzazione delle fabbriche ed elaborata la funzione sociale della proprietà. Fuori tempo massimo, però.

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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Ferenc Szalasi, fondatore delle Croci Frecciate Ungheresi

    Ferenc Szálasi nacque il 6 gennaio 1897 a Kassa (oggi Kosice, in Slovacchia) da una famiglia in cui si intrecciavano radici ungheresi, slovacche, rutene, armene e tedesche. Dal padre, ufficiale dell’imperial-regio esercito, gli derivò la vocazione militare; dalla madre, cattolica di rito bizantino, ereditò il fervore religioso. Durante la Grande Guerra aveva combattuto tre anni al fronte come ufficiale e dopo la fine del conflitto era rimasto in servizio, perché intendeva intraprendere la carriera militare come suo padre e i suoi fratelli. Entrato all’accademia, aveva compiuto una serie di ricerche attinenti ai rapporti del mondo del lavoro con la difesa militare. Chiamato nel ‘25 a prestare servizio presso lo Stato Maggiore dell’esercito, cinque anni più tardi aveva effettuato un viaggio di studio in Francia. Nel ‘33 aveva pubblicato il suo primo libro, “A magyar állam felépítésének terve” (Il piano di edificazione dello Stato ungherese), dal quale emerge una decisa rottura con le posizioni conservatrici presenti nei movimenti fascisti e nazionalsocialisti. Erano quindi seguite altre pubblicazioni, una delle quali, “Le basi principali del disarmo”, era stata tradotta in Germania da una casa editrice specializzata in questioni militari.
    Vi sono alcuni episodi che possono servire a dare un’idea della mentalità e del carattere del giovane ufficiale. In occasione di un disordine scoppiato a Budapest a causa della miseria in cui versava la popolazione, Ferenc Szálasi, che era preposto al servizio di vigilanza, ricevette dal ministro degli Interni l’ordine di sparare sulla folla dei manifestanti. Egli però rifiutò di obbedire, dichiarando che quegli operai erano suoi fratelli.

    Nel corso di un viaggio attraverso l’Ungheria, che aveva intrapreso in qualità di membro dello Stato Maggiore, Szálasi visitò un villaggio minerario. Siccome i minatori gli spiegarono che il loro salario oscillava tra i 90 e i 120 pengo mensili, Szálasi chiese conferma di ciò all’ingegnere della miniera; quest’ultimo disse che era vero, aggiungendo che lui stesso non guadagnava più di 5.000 pengo al mese. Allora Szálasi gli domandò se non temeva che i minatori, un giorno o l’altro, anziché spaccare il carbone gli spaccassero la testa.
    Il primo ministro Gyula Gömbös, che «non apprezzava troppo i suoi colleghi militari che si abbandonavano a speculazioni intellettuali e progettavano grandi cambiamenti sociali e costituzionali» , relegò Szálasi in una guarnigione di periferia. Ma siccome tale provvedimento ottenne solo lo scopo di agevolare le riflessioni di Szálasi e la sua attività pubblicistica, Gömbös fece un nuovo tentativo: convocato il giovane ufficiale nel proprio gabinetto, gli disse che per l’Ungheria, uscita a pezzi dalla guerra, l’unica politica possibile consisteva nella tutela degli interessi dei magnati e della finanza e gli offrì, per le elezioni del ‘35, un seggio di deputato alla Camera. Szálasi non solo rifiutò sdegnato l’offerta, ma formulò il proposito di lottare fino alla distruzione del regime oligarchico.

    Congedatosi dall’esercito, nel marzo del ‘35 Szálasi fonda il Partito della Volontà Nazionale (Nemzet Akaratának Pártja), il cui programma nazionale e socialista si trova esposto nel libro “Cél és követelések” (Meta e rivendicazioni). Mentre i movimenti nazionalsocialisti, fascisti e nazionalisti trovano seguito soprattutto nel ceto contadino, Szálasi rivolge un’attenzione particolare alla classe operaia, tanto che riuscirà ad espugnare le tradizionali roccheforti del Partito Socialdemocratico. «Prendeva forma così un ‘fascismo di sinistra’ potente e originale (avente numerosi punti in comune con la Guardia di Ferro); ‘fascismo di sinistra’ la cui sola esistenza contraddice in maniera decisiva la maggior parte delle definizioni classiche (specialmente marxiste) del fenomeno fascista». In effetti, di fronte al fenomeno del «fascismo ungherese» la storiografia postbellica ha manifestato un significativo senso di disorientamento, tant’è vero che anche autori marxisti hanno dovuto riconoscere che «in Ungheria (…) il carattere e l’egemonia della reazione tradizionale hanno sempre dominato in tutta la struttura politica, escluso il periodo di Szálasi».
    Il partito fondato da Szálasi diventa dunque la principale forza politica d’opposizione: sono le Camicie Verdi a portare il popolo nelle piazze, a controllare i sindacati operai e ad organizzare gli scioperi. La sinistra perde ogni credibilità politica ed è praticamente abbandonata dalle masse operaie e contadine, che passano con le Camicie Verdi: se alle elezioni parziali del 1936 il Partito della Volontà Nazionale ottiene un migliaio di voti su 12.000, nel ‘37 i militanti del nuovo movimento arrivano a ventimila.

    Impressionato dal dinamismo di questa formazione politica, nell’aprile ‘37 il governo Darányi decreta lo scioglimento del Partito della Volontà Nazionale, mentre Szálasi viene condannato a tre mesi di reclusione per avere svolto propaganda antisemita. Qualche mese dopo, però, le Camicie Verdi danno vita al Partito Nazionale Socialista (Nemzeti Szocialista Párt), che in breve tempo giunge a contare centomila iscritti. Alla fine dell’anno, il nuovo partito lancia la campagna “Szálasi ‘38″: che il ‘38 debba vedere il capo nazionalsocialista al governo, appare abbastanza probabile, e non solo perché il suo più stretto collaboratore, Kálmán Hubay, ha battuto il candidato governativo in una elezione parziale, ma soprattutto per il vastissimo consenso di cui godono le Camicie Verdi in tutto il paese e presso tutte le categorie sociali.

    Il Reggente Horthy, allarmato sia dal successo nazionalsocialista sia dagli sviluppi della politica europea (in seguito all’Anschluss, l’Ungheria ha il Terzo Reich sul confine occidentale), ritiene che sia il momento di reagire. Licenzia Darányi e affida a Béla Imrédy (allora in fama di anglofilia) l’incarico di formare un governo, che abbia come compito prioritario la repressione del movimento nazionalsocialista. II nuovo primo ministro emette immediatamente un decreto, il n° 3.400, che vieta ai dipendenti statali l’iscrizione ai partiti politici; la norma intende colpire il Partito Nazionale Socialista, che ha moltissimi militanti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Poco dopo, la polizia segreta diffonde dei volantini che inneggiano a Szálasi e insultano Horthy (“Rebecca, fuori dal Castello!”); il capo nazionalsocialista è arrestato, processato e condannato a tre anni di carcere per aver diffuso «letteratura sovversiva». Seguono alcune dimostrazioni di protesta, alle quali il governo risponde mettendo al bando il Partito Nazionale Socialista. Kálmán Hubay lo ricostituisce sotto il nome di Partito Ungarista (Hungarista Párt); il nuovo primo ministro, il conte Teleki, scioglie anche questo, ma Hubay fa nascere il Partito della Croce Frecciata (Nyilas Keresztes Párt). Tra provvedimenti repressivi di vario genere (censure, sequestri, confische, perquisizioni, arresti) si arriva al maggio 1939. Alle elezioni per il rinnovo del Parlamento, il partito croce-frecciato sfonda a destra e a sinistra , diventando il secondo partito del paese: su due milioni di voti ne ottiene 750.000, anche se dei 259 seggi gliene vengono attribuiti solo 31. Il numero degli iscritti al partito raddoppia e tocca le duecentomila unità, nonostante le intimidazioni governative e i massicci arresti di militanti.

    «Il gruppo dei deputati crocefrecciati -scrive Mariano Ambri- rappresentò la prima vera opposizione nell’Ungheria di Horthy; una opposizione molto agguerrita che non perdeva alcuna occasione di criticare non solo le singole misure del governo, ma lo stesso regime ‘conservatore ed antipopolare’ in nome di ciò che era stato battezzato ‘ungaro-socialismo’». In realtà, il termine esatto è «ungarismo» ed è stato coniato da Ottokár Prohászka, il battagliero «vescovo dei poveri» che Szálasi ha sempre considerato come un suo precursore. Contro le posizioni materialiste ispirate alla difesa di interessi di classe, l’ungarismo propugna un socialismo di tipo comunitario nutrito di valori spirituali. Lo Stato ungarista preconizzato da Szálasi dovrà poggiare su tre pilastri: il contadinato, il ceto operaio, l’intellettualità ; l’esercito avrà il compito di edificare la Grande Patria e difenderla contro i pericoli esterni ed interni. L’economia verrà programmata dal Consiglio Generale delle Corporazioni, la produzione agricola verrà affidata a contadini riuniti in cooperative, la banca sarà nazionalizzata. Alle concezioni scioviniste del nazionalismo ungherese «classico», l’ungarismo contrappone un «co-nazionalismo» di tipo imperiale, cioè l’idea sovranazionale di una Grande Patria in cui possano convivere tutte le «stirpi sorelle» dell’area danubiano-carpatica. Nel ‘40, dopo che un arbitrato italo-tedesco avrà tolto alla Romania metà della Transilvania per assegnarla all’Ungheria, Szálasi si recherà tra i suoi sostenitori a Cluj (Kolozsvár), ma ne fermerà gli applausi chiedendo un minuto di raccoglimento in memoria di Corneliu Codreanu, «con il quale, se fosse stato ancora in vita, avrebbe trovato forse altre basi per risolvere il problema».

    Tuttavia, durante il periodo della carcerazione di Szálasi, nel partito crocefrecciato si verificano contrasti tra la «destra» e la «sinistra». Tra le manifestazioni che hanno luogo in favore della sua scarcerazione, riveste un particolare interesse politico quella dell’agosto del ‘39, che reclama l’abrogazione della legge applicata contro Szálasi e altri oppositori, nazionalsocialisti e comunisti; nel corso di tale manifestazione, accanto ai ritratti di Szálasi compaiono quelli di Hitler e di Stalin, perché con la firma del Patto di non aggressione russo-tedesco si profila un «fronte comune di Stati proletari contro le plutocrazie».

    «Al fine di controbilanciare l’influenza dei sinistri» , Hubay manovra per fondere il Partito della Croce Frecciata con altri partiti dell’estrema destra. Nell’operazione s’inserisce l’ex-primo ministro Imrédy, il quale, venutosi a trovare isolato nel partito governativo in seguito al rafforzamento di Teleki, ha fondato con altri ventisei deputati il Partito del Rinnovamento Ungherese (Magyar Megújulás Pártja), che si dichiara fascista e filo-tedesco. Hubay e Imrédy intendono dunque dar vita a una vasta coalizione governativa attestata su posizioni di estrema destra. Intanto gli elementi più radicali progettano un’azione rivoluzionaria. Scrive il Reggente nelle sue “Memorie” che i loro obiettivi erano di «liberare con la forza il Capo del partito, Ferenc Szálasi, il quale era, in quel tempo, ancora in carcere, assassinare il Ministro dell’Interno Keresztes-Fischer e costringere me ad affidare a Szálasi il potere dello Stato». Il piano però viene scoperto e sedici dei ventitre imputati sono condannati, per alto tradimento, all’ergastolo e a pene detentive.

    Nel settembre del 1940, quando viene scarcerato, Szálasi si oppone decisamente al disegno di Hubay di realizzare ulteriori aggregazioni a destra e ribadisce l’orientamento nazionale e socialista dell’ungarismo indicendo, per il mese successivo, uno sciopero di quarantamila minatori: «la più potente azione proletaria ungherese, dalle origini della classe operaia in quel paese». Il Reggente propone a Teleki di scatenare una repressione su vasta scala contro le Croci Frecciate e di rimettere in carcere Szálasi; ma il primo ministro preferisce ricorrere a una soluzione giuridica ed elabora un progetto di riforma dello Stato che, «per mezzo di complicate astuzie, elimina i liberali, i socialdemocratici e le Croci Frecciate». Più che non dai disegni di Teleki, il declino delle fortune crocefrecciate è determinato dalle misure anti-ebraiche del governo e dall’adesione della Ungheria al Patto Tripartito: «molti appartenenti alle classi medie avevano già abbandonato il partito ritenendo che esso si fosse spinto troppo oltre nelle sue rivendicazioni sociali e che la politica estera ed antisemita del governo fosse abbastanza soddisfacente». Quanto al Reich, esso è preoccupato soprattutto della stabilità politica nel Südostraum, sicché riduce sensibilmente il suo appoggio all’opposizione nazionalsocialista ungherese e rafforza in tal modo il regime hortysta.

    Il Reggente ed il suo entourage però, manovrano fin dall’inizio per preparare il tradimento. Già alla fine del ‘40 essi pensano di mandare in Occidente un loro uomo, che fondi un Comitato Ungherese all’estero e predisponga il terreno per il trasferimento di Horthy a Londra e la formazione di un governo in esilio, Per quanto riguarda le attività belliche, l’Ungheria intensifica il proprio disimpegno, «ritirando le sue truppe dal fronte russo, non abbattendo gli aerei nemici che sorvolavano il suo territorio, dando addirittura asilo a prigionieri inglesi ed americani fuggiti dai campi di concentramento tedeschi». Alla metà del marzo ‘44 le truppe tedesche assumono il controllo del paese danubiano e Horthy deve nominare primo ministro l’ambasciatore ungherese a Berlino, Döme Sztójay, il quale riprende la partecipazione alle operazioni militari. Il 24 agosto, approfittando della capitolazione romena e contando sulla passività tedesca, il Reggente destituisce Sztójay e lo rimpiazza con un militare di sua fiducia; poi, il 15 ottobre, legge il suo proclama di resa. Stavolta però i tedeschi reagiscono, entrando nel Castello di Buda e deportando il Reggente in Germania.

    È l’ora delle Croci Frecciate. Le Camicie Verdi insorgono, occupano i centri nevralgici del paese e in un proclama radiofonico dichiarano che «l’Ungheria continua la lotta al fianco dei fratelli d’arme tedeschi». Il capo crocefecciato forma un governo di coalizione che comprende civili e militari, nazional- socialisti, fascisti e anche un comunista di tendenze nazional-bolsceviche, Ferenc Kassai-Schallmayer.

    Il movimento crocefrecciato «si gonfiò di un’ultima grande ondata di popolarità, questa volta quasi esclusivamente tra le classi popolari, e tra gli operai di Budapest in particolare»; era diffusa la convinzione che «finalmente la rivoluzione sociale che, per venticinque anni, era stata bloccata dalle forze conservatrici fosse ormai a portata di mano». È in questa ondata di entusiasmo che s’inquadra l’irruzione popolare nel quartiere ebraico e il tentativo di espellerne definitivamente gli abitanti, tentativo che incontra l’opposizione della Guida della Nazione. «Un aspetto tragicomico della faccenda -scrive lo storico ebreo Nagy-Talavera- fu che gli ebrei, allorché appresero che per ordine di Szálasi essi potevano tornare alle loro case, applaudirono gridando ‘viva Szálasi!’». Come lo stesso Nagy-Talavera è costretto ad ammettere, Szálasi «non intendeva sterminio» quando parlava di soluzione del problema ebraico. «Nel piano d’azione da lui elaborato nel settembre ‘44, -scrive uno storico inglese- egli stabilì che gli ebrei dovevano essere impiegati nei lavori pubblici all’interno della Ungheria fino al termine della guerra, e che poi sarebbero dovuti emigrare dal paese». Ma neanche i Tedeschi dovevano nutrire una seria intenzione di sterminare gli ebrei d’Ungheria, se è vero, come riconosce ancora Nagy-Talavera, che essi avviavano verso le fabbriche «solo gli ebrei in grado di lavorare, e non i vecchi, i malati e i bambini».

    Il 3 novembre, mentre il nuovo governo riceve la fiducia del Parlamento e Ferenc Szálasi, divenuto Guida della Nazione (Nemzetvezetö), presta giuramento davanti alla Corona di Santo Stefano, le truppe sovietico-romene arrivano alla periferia di Budapest. Ungheresi e Tedeschi cominciano una resistenza accanita, veramente eroica, che durerà più di tre mesi. «Per le forze dell’Asse, -è stato
    detto giustamente- la difesa ad oltranza di Budapest rappresentò quel che l’insurrezione di Varsavia era stata per la Resistenza antifascista: il momento più magico e più alto della volontà di lotta e dello spirito di sacrificio di una Nazione in armi, un’epopea di lotta popolare animata da un coraggio fanatico e disperato». Kitartás! (Perseveranza!) non fu per le Croci Frecciate una parola d’ordine puramente formale.

    l 4 dicembre ha luogo un colloquio tra Szálasi e Hitler nel corso del quale il Führer assicura che i profughi ungheresi troveranno asilo nel territorio del Reich. In ogni caso, l’incontro dimostra ancora una volta che «Szálasi non fu in alcun modo un fantoccio dei tedeschi». Sei giorni dopo, i ministri del governo magiaro lasciano Budapest e si trasferiscono a Szonbathely e a Sopron, vicino alla frontiera del Reich. A Sopron si tengono anche le sedute del Parlamento, che nei primi giorni di dicembre discute il Piano di Ricostruzione Nazionale: l’Ungheria sarebbe diventata, a partire dal 1 marzo 1945, uno Stato Ungarista Corporativo.

    Intanto gli eventi continuano a precipitare. Il 18 gennaio, le truppe russe e romene entrano a Pest, mentre i difensori della capitale fanno saltare i ponti sul Danubio e si ritirano a Buda. Il 13 febbraio ‘45 le truppe sovietiche hanno il controllo di Budapest; ma anche dopo la caduta della capitale, anche dopo la totale occupazione del paese, gli Ungheresi continuano a combattere. Il governo ungherese si stabilisce a Vienna, mentre gli ultimi reparti aerei, i resti della Honvéd, delle divisioni ungariste e Waffen SS proseguono le operazioni militari e le milizie crocefrecciate compiono atti di guerriglia sul territorio occupato. Il 4 aprile, comunque, l’Ungheria è totalmente occupata.

    Alla fine dell’aprile ‘45, una settimana prima di cadere in mano agli Occidentali, il Nemzetvezetö celebra le proprie nozze con Gizella Lutz nella cittadina austriaca di Mattsee. Si erano fidanzati nel ‘27, ma non si erano mai sposati: «I miei figli -diceva Szálasi- sarebbero i figli o di un eroe o di un condannato a morte».

    Il 5 maggio Szálasi è arrestato dagli americani, che lo portano ad Augsburg. Di lì, il 18 settembre viene trasferito in un campo di concentramento a sud di Salisburgo, il Marcus Camp. Il 3 ottobre viene imbarcato su un Douglas dell’esercito Statunitense insieme con una decina di uomini politici ungheresi: Béla Imrédy, László Bárdossy, Lajos Reményi-Schneller, Vilmos Hellenbronth, Erno Gömbös, Andor Jaross, Jenö Szöllösi, László Endre, Antal Kunder, Ferenc Kassai-Schallmayer.

    Il generale William S. Key, membro statunitense della Commissione Alleata di Controllo, rilasciò la seguente dichiarazione: «Oggi abbiamo consegnato l’ex-presidente del consiglio ungherese Ferenc Szálasi e dieci suoi camerati al governo ungherese, affinché vengano sottoposti a processo come criminali di guerra. Altri 456 criminali di guerra ungheresi, la cui estradizione è stata richiesta dal governo ungherese, saranno consegnati quando le possibilità di trasportarli lo consentiranno». Il «governo ungherese» era quello provvisorio presieduto dal generale fellone Béla Miklós; nel mese successivo, il 15 novembre ‘45, si formerà il primo governo di coalizione dei partiti democratici, presieduto dal pastore riformato Zoltán Tildy (Partito dei Piccoli Proprietari).

    Quei primi undici «criminali di guerra» furono portati al n. 60 della via Andrássy, nello stesso edificio che precedentemente era stato la Casa della Fedeltà, sede centrale del Partito Crocefrecciato. Nel sotterraneo vennero ricavate delle celle, dove i prigionieri furono rinchiusi sotto stretta vigilanza.

    La farsa processuale contro Ferenc Szálasi e un primo gruppo di imputati (Gábor Vajna, Jeno Szöllösi, Sándor Csia, Jozsef Gera, Gábor Kemény, Karoly Beregfy) cominciò il 5 febbraio ‘46. La «corte», presieduta dal dr. Peter Jankó (ebreo), era composta dai rappresentanti dei partiti collaborazionisti. La funzione di «pubblico ministero» era svolta dal dr. László Frank (ebreo). Szálasi sarà impiccato il 12 marzo nel cortile del carcere di via Markó. Lo precederanno sul patibolo, quello stesso giorno, Gera, Beregfy e Vajna. Il 19 marzo toccherà a Kemeny, Csia e Szöllösi.

    Così un giornalista ebreo, inviato speciale di un giornale francese, descrisse la morte del Nemzetvezetö: «Ecco Ferenc Szálasi, il Capo delle Croci Frecciate. Mentre io tremo in tutto il corpo, Szálasi non dà un segno di paura né di nervosismo. Ci separano circa un paio di metri, sicché posso osservare la sua fisionomia. Nessun tremito, nessuna contrazione. Vorrei conoscere i pensieri di quest’uomo a pochi secondi dall’esecuzione. Ho incrociato il suo sguardo per un breve istante, il suo ultimo sguardo. Penso e sento che non pensa niente e non sente niente. È di granito! Uomo diventato granito. E resta di granito mentre passa davanti ai cadaveri dei suoi ministri. Avanza con passo sicuro e regolare verso la morte. Ha un unico gesto: si protende verso la croce che un giovane prete gli pone. Muore senza che un solo muscolo trasalga, senza che nei suoi occhi si veda la paura, senza che lo sguardo gli tremi. La camicia verde, simbolo del Movimento Ungarista, gli viene lacerata dal boia sul petto, dove una medaglia si muoveva ancora pochi istanti prima. Sono le 15, 30 …»

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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Oggi quale politica economica sarebbe attuabile?

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