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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    DECRETO LEGGE SULLA SOCIALIZZAZIONE

    SOCIALIZZAZIONE NELLA RSI (R.S.I.)

  2. #12
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    SOCIALIZZAZIONE NELLA RSI

    Durante la Repubblica Sociale, Mussolini pensò di coronare il progetto – tenuto a bagno maria durante il Regime – di rivoluzionare il tessuto sociale ed economico italiano attraverso la cogestione delle aziende. Nella RSI la socializzazione avanzò però a fatica, osteggiata da ambienti dello stesso Fascismo, dagli industriali, dai tedeschi, dagli antifascisti. Tuttavia alcuni passi vennero fatti creando precedenti clamorosi – confinati nell’oblio nel dopoguerra – di collaborazione tra fascisti, comunisti e socialisti. Esperienze che le stesse sinistre – ufficialmente ostili alla socializzazione – cercarono di riproporre nel dopoguerra. Ma il vento era ormai cambiato per sempre.

    l caos assoluto in cui l’8 settembre 1943 si ritrovò l’Italia costituì l’evento fondamentale di un processo storico che vide sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato con la Nazione, determinando non solo la successiva divisione del Paese in due parti, ma anche l’esplosione della guerra civile. Il tragico momento costituì tuttavia per il Fascismo l’occasione per rilanciare con maggior forza, nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, il progetto di rappresentare una «terza via» tra capitalismo e comunismo: un ritorno alle origini rivoluzionarie. Nel mondo del lavoro la parola d’ordine fu «socializzazione». Il termine, emerso già nei primi mesi della RSI e nel programma del Partito fascista repubblicano che nel novembre del 1943 aveva tenuto a Verona il suo primo, e ultimo, congresso, fu in modo ufficiale adottato, anche su sollecitazione di Nicola Bombacci, il 13 gennaio 1944, quando il Consiglio dei ministri di Salò approvò una «Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell’economia italiana».

    La repubblica del Duce prevedeva la partecipazione integrale del popolo in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e il suo contributo «alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione con il suo lavoro, con la sua attività politica e sociale». Secondo il 12° punto del «Manifesto di Verona» in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai avrebbero dovuto cooperare – attraverso una conoscenza diretta della gestione – alla fissazione dei salari, nonché «all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forme di cooperativa parasindacale».

    Era riconosciuta non solo l’importanza del capitale «produttivo», che investiva moneta per creare l’impresa, ma anche quella di chi con il braccio e con la mente forniva elementi altrettanto fondamentali per l’attività economica e sociale. In sintesi: né dominio della moneta, né espropri statali, bensì armonizzazione degli elementi in un rapporto di condivisione delle responsabilità, e degli utili, affinché nessuno si sentisse tanto superiore da ritenersi depositario del destino dell’impresa e, di conseguenza, della Nazione. Dopo aver dichiarato che la RSI assumeva la gestione diretta di aziende che controllavano i settori essenziali per l’indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materia prima o di energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica nazionale, la sopra citata «Premessa» affermava senza possibilità di equivoco che la gestione dell’azienda era socializzata. Tutti i lavoratori avrebbero preso parte all’amministrazione delle imprese a capitale pubblico tramite consigli di gestione, eletti da loro stessi e avrebbero deliberato sia sulle questioni riguardanti la produzione nel quadro del «piano unitario nazionale» sia sulla stessa «congrua» ripartizione degli utili. Per quanto riguardava le aziende a capitale privato, gli organi di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei lavoratori in un numero almeno pari a quello dei rappresentanti eletti dall’assemblea degli azionisti.

    socializzazione2Il 12 febbraio 1944 fu emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese (pubblicato in seguito, il 30 giugno, sulla «Gazzetta Ufficiale») che limitava le aziende private da socializzare a quelle con almeno un milione di capitale o almeno cento operai. In merito agli utili da ripartire, dopo le assegnazioni di legge alla riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali, era approvata una remunerazione del capitale conferito all’impresa in una misura non superiore a un massimo fissato ogni anno per i singoli settori produttivi dal Comitato dei ministri per la tutela del risparmio e l’esercizio del credito. Gli utili, detratte queste assegnazioni, sarebbero stati ripartiti fra i lavoratori in rapporto all’entità delle remunerazioni percepite durante l’anno: questo compenso non doveva comunque superare il 30 per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell’esercizio. Con il decreto suddetto era disposto inoltre il primato in materia del ministro dell’Economia corporativa – il cui titolare, Angelo Tarchi, era espressione della componente tecnocratica e mediatrice nei confronti degli ambienti industriali, e quindi oppositore di coloro che auspicavano sia l’immediata instaurazione dello «Stato del lavoro» sia il pieno superamento del sistema corporativo – tanto nell’immediato, con la supervisione dei nuovi statuti delle diverse categorie di imprese, quanto, in prospettiva, mediante la facoltà di procedere allo scioglimento dei consigli di gestione, di sostituire i vertici aziendali, di controllare la fase di passaggio dalla gestione privatistica a quella socializzata, e di commissariare le aziende di cui lo Stato ritenesse opportuno assumere la proprietà.

    Con il decreto del 12 febbraio 1944, la Repubblica Sociale Italiana si proponeva di «stare con il popolo», superando quell’«andare verso il popolo» che era stato tipico del Regime. Se alla socializzazione guardarono con simpatia alcuni ambienti sindacalisti, sospetti e timori circa i suoi esiti e la sua rapida applicazione furono, più o meno tacitamente espressi, dagli ambienti conservatori. Ciò spiega il ritardo con cui il decreto fu pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale», in contemporanea con il decreto che ne fissava al 30 giugno l’entrata in vigore. Un terzo decreto, datato 30 agosto 1944, dettò norme per una sua più sollecita attuazione. Malgrado il 10 luglio e il 13 settembre fosse stata disposta la socializzazione delle aziende dell’IRI e del settore dei giornali e dell’editoria, i primi effettivi cambiamenti si ebbero solo alla fine del 1944. Una settimana dopo l’ultimo bagno di folla ricevuto dal Duce a Milano e il discorso al Lirico, fu pubblicato il 22 dicembre il decreto con le norme attuative e integrative della socializzazione. Il documento, accogliendo le ragioni dei sindacalisti, attribuiva maggiori poteri al sindacato, cui spettava il compito di soprintendere alle elezioni interne alle aziende; ai consigli di gestione, che potevano nominare il capo dell’impresa, convocare riunioni del consiglio e presiederle in mancanza del capo dell’impresa; ai rappresentanti dei lavoratori nell’assemblea, non licenziabili né trasferibili in dipendenza dell’attività svolta nell’esercizio della loro carica. Il 19 gennaio 1945 fu istituito il ministero del Lavoro, retto da Giuseppe Spinelli, che prevedeva una Direzione generale per la socializzazione e assorbiva i poteri del ministero dell’Economia corporativa. Soppresso quest’ultimo, Tarchi passò a reggere il nuovo ministero della Produzione industriale. La «Gazzetta Ufficiale» del 26 gennaio 1945 pubblicò il decreto sull’ordinamento della Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti, creata il 20 dicembre 1943. Questa doveva riunire le precedenti confederazioni per superare lo «sbloccamento» del 1928, mentre a fine dicembre del 1944 si era disposta la liquidazione delle confederazioni padronali.

    Dall’inizio dell’ultimo anno di guerra presso il ministero del Lavoro si assistette a una frenetica attività socializzatrice. Le aziende socializzate sarebbero state 76, con 129 mila dipendenti e 4.119 milioni di lire di capitale. Ancora oggi poco si conosce in merito all’effettiva applicazione dei provvedimenti. Ciononostante è possibile affermare, perlomeno nel caso della FIAT e della maggioranza delle imprese socializzate, che la fine del Fascismo giunse prima che le misure disposte per decreto dalle autorità repubblicane avessero un concreto impatto sulle realtà aziendali sul piano della predisposizione di statuti e decreti relativi alle singole imprese. Il progetto di socializzazione della RSI naufragò per vari motivi, oltre che per il momento tardivo della sua messa in atto: determinanti furono le divergenze interne allo Stato fascista repubblicano riguardo a misure che rimasero inerti per molti mesi, in una situazione definita «rivoluzionaria», ma tale più sul piano delle parole che su quello dei fatti. Decisive furono sia l’ostilità dei tedeschi, preoccupati per le possibili conseguenze nel campo della produzione bellica, e desiderosi di appropriarsi di macchine e materiali dell’industria italiana, sia la contrarietà degli esponenti di quest’ultima, i quali boicottarono, anche grazie ai legami con la grande industria germanica, i provvedimenti che pure fecero finta di approvare, cercando di rinviarli quanto più possibile. Se molti operai disertarono le elezioni delle Commissioni interne, è anche vero che a esse guardarono con interesse e per vari motivi certi ambienti della sinistra antifascista. Alcuni esponenti di quest’ultima in esilio all’estero erano rientrati in Italia, convinti che, liberato dai vincoli reazionari imposti dal regime, il Fascismo potesse realizzare finalmente le sue pagine di politica sociale più avanzata. Era il momento della «politica dei ponti» che vedeva alcuni antifascisti guardare con interesse alla repubblica del Duce; potremmo, fra i tanti, citare a proposito i fratelli Bergamo, rientrati dalla Francia in nome dei vecchi ideali sociali, repubblicani e antiborghesi. Alcuni rivoluzionari di sinistra ritennero che la politica delle «mine sociali» potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo Fascismo.

    A Terni nell’ultimo periodo della RSI, si assistette all’elezione delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL. Nella città umbra il Fascismo volle giocare la carta delle commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni (con il quale il 2 ottobre 1925 il Regime aveva avocato a sé la rappresentanza sindacale con il consenso di Confindustria, che da quel momento avrebbe avuto come referenti sindacali le Corporazioni fasciste e non più i liberi sindacati) e in questo capitolo della storia del sindacalismo entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra. In principio la loro posizione ufficiale fu di «combattere in tutte le forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni anche facendo dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero ancora tali funzioni». Tuttavia questo non fu possibile per la mancanza in Umbria di un’organizzazione sistematica dell’antifascismo, come attesta la documentazione conservata nell’archivio del PCI. Il fronte antifascista in questa regione, debole anche per le diffidenze esistenti al suo interno, accettò quindi che, accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità repubblichine, fossero eletti suoi elementi, comunisti, socialisti e anarchici. Questa scelta finora occultata, perché imbarazzante, può essere spiegata con la disorganizzazione dei comunisti, con lo scarso numero dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, con la diffidenza esistente tra le forze di sinistra, con la volontà – comune anche ai fascisti – di opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ci furono, soprattutto tra i comunisti, iniziali opposizioni e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi, però, ai «compagni» occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le commissioni elette, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con gli organi direttivi degli stabilimenti «su un terreno antitedesco», e collegarle al «comitato di partito dell’officina». Pertanto, quando il 1° marzo 1944, alla «Terni» si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della categoria operai, sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l’assenso dei sindacati fascisti, elementi comunisti, socialisti e anarchici. Loro obiettivi erano opporsi all’asportazione dei macchinari industriali da parte dei nazisti e inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per anni erano stati esclusi.

    Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro Togliatti, in vista dell’imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione, essi ne avrebbero rivendicato il diritto: «Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie…». Un implicito riconoscimento del fatto che anche l’odiata dittatura aveva compiuto qualcosa di buono per i lavoratori. Negli stabilimenti siderurgici della «Terni», accanto ai sindacalisti Maceo Carloni e Faliero Rocchiccioli, firmatari nel 1940 del contratto dei metalmeccanici e ad altri fascisti come l’operaio Bruno Marini e l’impiegato Alvaro Garzuglia, furono eletti il socialista Giuseppe Scalzone per la categoria impiegati; per la categoria operai: Ettore Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista; l’ex confinato socialista Umberto Bisci; l’anarchico Gioacchino Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato sovversivo. L’esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni impartite, qualche giorno dopo, il 7 marzo, dal commissario nazionale del lavoro, per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non iscritti. Il decreto proibiva a chiunque di «assumere per qualsiasi motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma delle vigenti leggi, di esclusiva competenza delle organizzazioni sindacali legalmente riconosciute». Ma nelle settimane precedenti la liberazione di Terni, preoccupati dalla tutela del lavoratore e dalla volontà di salvaguardare l’esistenza delle acciaierie, nelle commissioni di fabbrica lavorarono a stretto contatto fascisti e antifascisti. Cosa indusse molti di questi ultimi ad accettare tale politica di collaborazione? Opportunismi a parte, forse il timore che i tedeschi riuscissero a rovesciare le sorti del conflitto in corso, sicuramente la debolezza di cui soffriva il fronte antifascista, escluso per 20 anni dal sindacato, nel quale aspirava a tornare con un ruolo di rilievo, la volontà di opporsi all’asportazione dei macchinari messa in atto dai tedeschi. Ci fu forse anche chi si illuse che la socializzazione potesse segnare una svolta nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori d’opera, permettendo una maggiore giustizia sociale.

    Terni_-_le_Acciaierie_1912Al di là di ciò che poterono fare, anche per ragioni di tempo, gli eletti nelle commissioni di fabbrica a Terni, va sottolineato come quanto qui avvenuto sia significativo e non a caso abbia costituito un capitolo imbarazzante per una certa storiografia che ha preferito sorvolare in merito.Tornando, più in generale, al progetto sulla socializzazione elaborato durante la RSI, va detto che esso non sarebbe andato del tutto perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti. Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia, fin dal 17 aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini. Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di socializzazione delle imprese, dichiarò decaduti gli organi da questa creati, sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende attraverso «nuovi e democratici» consigli di gestione; condannò gli «obiettivi antinazionali» della socializzazione con cui il Fascismo aveva tentato di «aggiogare le masse lavoratrici dell’Italia occupata al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco»; riconobbe «l’alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell’Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa “socializzazione” fascista».

    Intenzione del CLNAI era «assicurare, all’atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il potenziamento dell’attività produttiva, nello spirito di un’effettiva solidarietà nazionale». Il decreto abrogò la socializzazione affidando a nuovi consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la materia. Il decreto del CLNAI, accettato a malincuore dagli operai, non ricevette tuttavia l’approvazione degli angloamericani. Se il più importante sindacato, la comunista CGIL, il 23 settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di «diretta partecipazione delle maestranze alla gestione dell’azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione», l’atteggiamento ostile degli imprenditori non permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione vera e propria era esclusa. Nel novembre del 1947 fu decisa l’istituzione di una commissione speciale con il compito di elaborare la «Carta» dei consigli di gestione, ma non fu nemmeno eletta. Laddove istituiti, i consigli sopravvissero fino all’inizio degli anni Cinquanta, solo come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati. Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla fine del 1944 era stato stipulato un patto per la partecipazione diretta di operai, tecnici e impiegati alla gestione dell’impresa. Il 29 gennaio 1945, il leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, parlando di questo patto al congresso della CGIL, affermò che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti, dal momento che affermava «il principio che il progresso produttivo non si svolge come qualcosa di estraneo ai lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende». Il patto di Terni diventò, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e da applicare alle altre imprese italiane. Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo dopoguerra.

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    Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, deputato socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua città, proponendo un emendamento al 43° articolo della Costituzione e chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende, «per mezzo dei propri rappresentanti in un comitato paritetico con i rappresentanti dell’impresa». Poi però lo ritirò dichiarando di votare il testo della Commissione per non causare divisioni. Con la vittoria alleata e l’ingresso dell’Italia nell’area sotto l’egemonia statunitense era ormai prevalsa una linea politica neoliberista con cui si tornò alla situazione che il ventennio non era riuscito a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica. Il sindacato fu ricondotto nell’ambito dell’associazionismo «libero e volontario», con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia della classe imprenditoriale sia dello Stato. Il sogno di una confederazione unitaria del sindacalismo italiano era destinato a non realizzarsi mai più.

  3. #13
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Corporativismo Rumeno



    Nel suo discorso del 10 novembre 1934-XIII all’assemblea delle Corporazioni il Duce affermava tra l’altro : << Quali sono gli scopi delle Corporazioni ? All'interno un'organizzazione che raccorci notevolmente le distanze tra le possibilità massime e quelle minime o nulle della vita .È ciò che io chiamo una più alta <>… Di fronte all’esterno , la Corporazione ha lo scopo di aumentare senza sosta la potenza globale della Nazione per i fini della sua espansione nel mondo. È bene affermare il valore internazionale della nostra organizzazione che si misureranno le razze e le Nazioni d’Europa , fra qualche tempo , malgrado il nostro fermo e sincerissimo desiderio di collaborazione e di pace ,sarà nuovamente arrivata a un bivio del suo destino >> .La profetica precisazione era una conseguenza logica del processo evolutivo dell’idea corporativa ,essenzialmente italiana e fascista , ma ciò non pertanto destinata inesorabilmente a travalicare i confini geografici della nazione . Perché – e non appaia superfluo qui ricordarlo- il corporativismo , creatura viva ed espressione morale e politica del sindacalismo fascista , non è soltanto un sistema economico -come ancor oggi forse molti erroneamente credono – ma un’idea universale , un sistema di vita , un modo di pensare e di agire , un modo di concepire i rapporti tra gli uomini , le classi ,la Nazione e lo stato che , pur distinguendosi e differenziandosi , si riconoscono tuttavia solidali nel gran moto inteso a raggiungere la vetta più alta della giustizia sociale , della civiltà morale , della potenza politica.
    In altri termini il corporativismo fascista è una visione integrale , unitaria , della vita e dell’uomo che , informando di se ogni attività individuale e sociale , informa necessariamente anche l’economia.
    Ne deriva che risulta assurdo tentare di realizzare un’economia corporativa,cioè fascista , se prima non si realizza una società , una vita corporativa , ed è utopistico compiere una simile rivoluzione economica senza compiere quella spirituale dell’individuo e della società .
    Per questa errata impostazione del problema i movimenti riformistici e associazionistici effettuati in alcuni Paesi , e chiamati corporativi , col corporativismo fascista hanno in comune soltanto il nome , e non l’essenza e non il fine . Ma in altri di converso , il contenuto spirituale e materiale delle riforme stesse rispondono effettivamente allo scopo. Fra questi ultimi va annoverata la Romania , la quale è certamente uno dei paesi che da più tempo seguono con interesse lo sviluppo italiano , sulla cui base essa ha saputo rinnovare di recente la sua politica sociale. È infatti su questo concetto basilare che si è determinato il rinnovamento del Paese , attuando una rivoluzione nazionale di vasta portata , ispirata al movimento fascista, e che ha avuto come risultato il disciplinamento del disordine che la mentalità liberistica ,speculatrice e affaristica , aveva lasciato nella Nazione. Così se da un lato un nuovo sistema nella produzione e nei consumi ha acconsentito di affrontare il problema del rafforzamento e della riorganizzazione della futura economia del Paese in tutti settori – realizzando così un’unità di indirizzo economico nazionale – dall’altro , nel campo sociale , una serie di leggi sono intervenute efficacemente a tutela del lavoro e di tutte le categorie di popolo.
    Per approfondire maggiormente la conoscenza della dottrina corporativa fascista, insigni studiosi romeni, da oltre un decennio , hanno fatto sorgere e fiorire quasi una propria scuola corporativa, da cui hanno preso vita numerose opere e pubblicazioni .
    Tanto fattivo interessamento trovava subito i favori e gli incoraggiamenti delle autorità italiane , i quali si concretavano alla fine con una bella iniziativa che ha fatto e che fa veramente onore all’Italia : la creazione presso l’Istituto di cultura italiana a Bucarest e sotto gli auspici dell’associazione per l’amicizia italo – romena . di un Centro di studi corporativi , con a capo il Presidente del Consiglio dei Ministri , maresciallo Antonescu, e al quale davano immediatamente la loro assidua e fattiva adesione i più eminenti cultori del corporativismo .È in questo Centro che sono stati e vengono analizzati i più diversi aspetti della dottrina corporativa fascista nei suoi continui sviluppi , e si studiano i possibili e necessari adattamenti di essi al sistema economico e sociale romeno .
    I frutti di questa collaborazione e di questo continuo studio sono già stati notevoli e quanto mai positivi. Così nell’ottobre del 1941 il Vicepresidente del Consiglio , prof Michele Antonescu fedele interprete degli ideali del <> , poteva annunciare prossima la costituzione delle organizzazioni professionali , tenuto conto delle varie categorie professionali e del loro apporto di lavoro allo scopo di far effettivamente partecipare la Nazione all’azione del Governo. E due mesi più tardi egli indicava le basi strutturali e funzionali delle stesse organizzazioni. In sintesi , il prof Antonescu precisava che , per passare alla realizzazione delle riforme professionali ,era necessario anzitutto prendere un diretto contatto con le forze professionali organizzate già esistenti , al fine di stabilire una reale collaborazione sistematica. <>. Finora lo Stato ha trascurato troppo i veri interessi nazionali non concedendo crediti alla grande massa dei lavoratori della terra, lasciando in linea nazionale il commercio e le finanze . Ma un intervento diretto dello Stato in tutti questi problemi potrebbe danneggiare la vita economica del Paese. Perciò si rende necessaria la creazione di nuovi organismi interni, che sono le professioni e le corporazioni , organismi cui bisogna però prima infondere lo spirito che ne lieviti la vita. Le attuali associazioni professionali sono in molti casi una semplice illusione sociale . Questo stato di cose deve cambiare . Nelle Associazioni deve dominare l’idea di autocontrollo e di autoselezione , ed ad esse lo stato darà i necessari privilegi e poteri normativi . In definitiva l’organizzazione professionale deve essere il basilare fondamento dello Stato romeno , che ha bisogno di forze organizzate e ben educate. Il primo compito di esse sarà infatti quello educativo , talché le nuove generazioni dovranno essere permeate di un vero spirito realistico della coscienza professionale.
    E su queste basi la Romania ha iniziato la pratica e totalitaria applicazione dei principi sindacali e corporativi.

    ARTURO MAFFEI
    Tratto da GERARCHIA RASSEGNA MENSILE DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA
    Anno XXII – N.5 Maggio 1943 -XXI

  4. #14
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Il Socialismo Nazionale a confronto con il Nazional Socialismo

    del Dr Adel Bashara

    Al centro del Nazionalsocialismo vi era il Nazionalismo sostenuto dallo storico Heinrich von Treitschke.Uno dei temi fondamentali era il Darwinismo Socialendividui e nazioni sono soggetti alla continua lotta per la sopravvivenza. In questa lotta la razza è al centro della vita e tutti gli altri elementi sono correlati ad essa .Il Nazionalsocialismo afferma che mantenere il sangue e la razza puri sono tra i compiti più elevati della nazione. Esso proclamava la razza Germanica come nuovo “Icorpus mysticum” dal quale dipendeva la salvezza della razza Ariana e di conseguenza il resto del mondo. Di conseguenza le politiche naziste rappresentavano di conseguenza solamente un modo per migliorare geneticamente la razza Germanica e di proteggerla dall’imbastardimento razziale ,processo di preservazione che secondo i Nazisti è parte fondamentale della dottrina della razza superiore. Al contrario Sadeeh escludeva la razza come criterio di nazionalità. In una delle sue dichiarazioni più vigorose contro il nazionalsocialismo della N.S.D.A.P egli dichiarava : la presunta purezza del sangue o della razza delle nazioni è un mito infondato. Essa si può riscontrare soltanto nelle popolazioni isolate e perfino tra costoro è assai rara. Per la stessa ragione Sadeeh rimproverò sia il Conte Gobineau che Chamberlain ,ai padri fondatori del nazismo e Pascal Mancini che cadde erroneamente nell’uso della parola razza per definire il concetto di nazione.

    Nel Nazionalsocialismo .l’idea nazionale perse ogni pretesa di oggettività scientifica. La ragione è perché non c’è correlazione tra razza e frontiere nazionali. In maniera più importante se visto da una prospettiva sociale la nazione non è una singola razza in senso scientifico ma una società multirazziale fusa insieme in moltitudini. Questo processo di fusione è un processo nel quale due o più razze si combinano per generare un nuovo insieme che è significantemente differente dalle razze genitrici però includono elementi propri di tutte le razze prodotti attraverso gli stimoli del contatto e del conseguenze sviluppo interno.

    Un’altra differenza tra il Nazional Socialismo e il Socialismo Nazionale è correlato al concetto della storia nazionale.

    Nel Nazionalsocialismo la purezza del sangue è più forte della ragione ed è al centro di tutta la storia umana. Ernest Kriek un filosofo nazionalsocialista dell’Università di Heidelberg ha affermato il contrasto nel seguente modo: è sorto il sangue contro la ragione formale,la razza contro la razionalità intenzionale,l’onore contro il profitto .l’unità contro l’individualismo,disintegrazione,la virtù marziale contro la sicurezza borghese,il folk contro l’individuo e la massa.

    Nel Mein Kampf Hitler affermò i principi basilari della teoria della razza come segue;Primo la lotta per la sopravvivenza del più forte imposta il ritmo del progresso sociale. Questa lotta avviene in seno alla razza ,così avviene la formazione di un elite biologica;si verifica anche tra le razze e le culture che esprimono le nature intrinseche di razze diverse. Secondo l’ibridazione dalla mescolanza di due razze provoca la degenerazione di quella superiore. Terzo ,che tutte le più importanti civiltà di tutte le culture sono la creazione di una sola razza o al massimo di un paio.

    Una razza in particolare si individua nella cultura Ariana la quale secondo Hitler ha raggiunto qualità morali superiori attraverso la doverosità e l’idealismo(l’onore) piuttosto che con l’intelligenza.

    In questa concezione organica della vita tutta la storia va riscritta e reinterpretata in termini di lotta di sopravvivenza tra le razze e le loro caratteristiche ideali o più specificatamente come una lotta per la sopravvivenza della cultura-razza Ariana contro le razze inferiori dell’umanità.

    Al contrario Sadeeh considerò la fusione tra razze come spinta motrice dell’umanità. Sebbene egli facesse una distinzione tra razze superiori e inferiori non perse mai di vista senso di un approccio comune alla questione delle relazioni razziali. Questa stessa distinzione è stata mantenuta sul terreno dell’ibridazione razziale. La civiltà superiore non è così il risultato della purezza razziale,così come avrebbero voluto i nazionalsocialisti ma del processo di mescolanza razziale del gruppo e viceversa in relazione alle civiltà inferiori. Inoltre mentre nel nazionalsocialismo la nazione nella sua essenza e nella sua storia è vista da un punto di vista esclusivamente razziale mentre nel socialismo il concetto di nazione è influenzato da fattori umani e geografici.

    Saadeh diceva che non ci può essere popolo dove non c’è terra ,nessuna società dove non c’è ambiente fisico e che non ci può essere storia dove non c’è società.
    In breve il nazionalsocialismo e il Socialismo Nazionale operano intellettualmente su due pianeti distinti;il primo collega razza e nazione il secondo le rifiuta del tutto. Per quanto per certi limitati aspetti possano risultare simili bisogna riconoscere che sia da una prospettiva teorica che da una prospettiva pratica tutte le ideologie possono sembrare simili non importa quanto differenti in realtà esse possano essere.

    Più ovvia in ogni caso è la differenza intrinseca degli elementi di un’idea e la sua parte estrinseca che può diventare grande nemica di quella intrinseca. Si tratta in questo contesto che dovrebbe avvenire l’analisi comparativa ,non solo tra nazionalsocialismo e Socialismo Nazionale ma tra ciascuna coppia d’idee.

    traduzione di Franz Camillo Bertagnolli Ravazzi

  5. #15
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Altre politiche economiche poste in atto da movimenti fascisti in Europa?

  6. #16
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"


  7. #17
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Citazione Originariamente Scritto da Vero Socialismo Visualizza Messaggio
    Grazie.

  8. #18
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Citazione Originariamente Scritto da IlWehrwolf Visualizza Messaggio
    Grazie.
    Uno dei pochi autentici movimenti NazionalSocialisti in Europa.

  9. #19
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Non c'era anche CEDADE in Spagna?

  10. #20
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    Predefinito Re: Politiche economiche "fasciste"

    Hitler's Social Revolution
    By: Gen. Leon Degrelle

    In this excerpt from his memoirs General Leon Degrelle, former leader of the Belgian contingent of the Waffen-SS, describes how Adolf Hitler gained the enthusiastic support of the working people of Germany.

    One of the first labor reforms to benefit the German workers was the establishment of annual paid vacation. The Socialist French Popular Front, in 1936, would make a show of having invented the concept of paid vacation, and stingily at that, only one week per year. But Adolf Hitler originated the idea, and two or three times as generously, from the first month of his coming to power in 1933.

    Every factory employee from then on would have the legal right to a paid vacation. Until then, in Germany paid holidays where they applied at all did not exceed four or five days, and nearly half the younger workers had no leave entitlement at all. Hitler, on the other hand, favored the younger workers. Vacations were not handed out blindly, and the youngest workers were granted time off more generously. It was a humane action; a young person has more need of rest and fresh air for the development of his strength and vigor just coming into maturity. Basic vacation time was twelve days, and then from age 25 on it went up to 18 days. After ten years with the company, workers got 21 days, three times what the French socialists would grant the workers of their country in 1936.

    These figures may have been surpassed in the more than half a century since then, but in 1933 they far exceeded European norms. As for overtime hours, they no longer were paid, as they were everywhere else in Europe at that time, at just the regular hourly rate. The work day itself had been reduced to a tolerable norm of eight hours, since the forty-hour week as well, in Europe, was first initiated by Hitler. And beyond that legal limit, each additional hour had to be paid at a considerably increased rate. As another innovation, work breaks were made longer; two hours every day in order to let the worker relax and to make use of the playing fields that the large industries were required to provide.

    Dismissal of an employee was no longer left as before the sole discretion of the employer. In that era, workers' rights to job security were non-existent. Hitler saw to it that those rights were strictly spelled out. The employer had to announce any dismissal four weeks in advance. The employee then had a period of up to two months in which to lodge a protest. The dismissal could also be annulled by the Honor of Work Tribunal. What was the Honor of Work Tribunal? Also called the Tribunal of Social Honor, it was the third of the three great elements or layers of protection and defense that were to the benefit of every German worker. The first was the Council of Trust. The second was the Labor Commission.

    The Council of Trust was charged with attending to the establishment and the development of a real community spirit between management and labor. "In any business enterprise", the Reich law stated, "the employer and head of the enterprise, the employees and workers, personnel of the enterprise, shall work jointly towards the goal of the enterprise and the common good of the nation."

    Neither would any longer be the victim of the other-not the worker facing the arbitrariness of the employer nor the employer facing the blackmail of strikes for political purposes. Article 35 of the Reich labor law stated that: "Every member of an Aryan enterprise community shall assume the responsibilities required by his position in the said common enterprise." In other words, at the head of the company or the enterprise would be a living, breathing executive in charge, not a moneybags with unconditional power. "The interest of the community may require that an incapable or unworthy employer be relieved of his duties"

    The employer would no longer be inaccessible and all-powerful, authoritatively determining the conditions of hiring and firing his staff. He, too, would be subject to the workshop regulations, which he would have to respect, exactly as the least of his employees. The law conferred honor and responsibility on the employer only insofar as he merited it.

    Every business enterprise of 20 or more persons was to have its "Council of Trust". The two to ten members of this council would be chosen from among the staff by the head of the enterprise. The ordinance of application of 10 March 1934 of the above law further stated: "The staff shall be called upon to decide for or against the established list in a secret vote, and all salaried employees, including apprentices of 21 years of age or older, will take part in the vote. Voting shall be done by putting a number before the names of the candidates in order of preference, or by striking out certain names."

    In contrast to the business councils of the preceding régime, the Council of Trust was no longer an instrument of class, but one of teamwork of the classes, composed of delegates of the staff as well as the head of the enterprise. The one could no longer act without the other. Compelled to coordinate their interests, though formerly rivals, they would now cooperate to establish by mutual consent the regulations which were to determine working conditions.

    Belgian author Marcel Laloire, who observed conditions in the Reich first hand, wrote "The Council has the duty to develop mutual trust within the enterprise. It will advise on all measures serving to improve the carrying out of the work of the enterprise and on standards relating to general work conditions, in particular those which concern measures tending to reinforce feelings of solidarity between the members themselves and between the members and the enterprise, or tending to improve the personal situation of the members of the enterprise community. The Council also has the obligation to intervene to settle disputes. It must be heard before the imposition of fines based on workshop regulations."

    Before assuming their duties, members of the Work Council had to take an oath before all their co-workers to "carry out their duties only for the good of the enterprise and of all citizens, setting aside any personal interest, and in their behavior and manner of living to serve as model representatives of the enterprise." [Article 10, paragraph 1 of the law.] Every 30th of April, on the eve of the great national labor holiday, council duties ceased and the councils were renewed, pruning out conservatism or petrifaction and cutting short the arrogance of dignitaries who might have thought themselves beyond criticism.

    It was up to the enterprise itself to pay a salary to members of the Council of Trust, just as if they were employed in the work area, and "to assume all costs resulting from the regular fulfillment of the duties of the Council".

    The second agency that would ensure the orderly development of the new German social system was the institution of the "Workers' Commissioners". They would essentially be conciliators and arbitrators. When gears were grinding, they were the ones who would have to apply the grease. They would see to it that the Councils of trust were functioning harmoniously to ensure that regulations of a given business enterprise were being carried out to the letter.

    They were divided among 13 large districts covering the territory of the Reich. As arbitrators they were not dependent upon either owners or workers. They had total independence in the field. They were appointed by the state, which represented both the interests of everyone in the enterprise and the interests of society at large.

    In order that their decisions should never be unfounded or arbitrary, they had to rely on the advice of a "Consulting Council of Experts" which consisted of 18 members selected from various sections of the economy in a representation of sorts of the interests of each territorial district.

    To ensure still further the objectivity of their arbitration decisions, a third agency was superimposed on the Councils of Trust and the 13 Commissioners, the Tribunal of Social Honor.

    Thus from 1933 on, the German worker had a system of justice at his disposal that was created especially for him and would adjudicate all grave infractions of the social duties based on the idea of the Aryan enterprise community. Examples of these violations of social honor are cases where the employer, abusing his power, displayed ill will towards his staff or impugned the honor of his subordinates, cases where staff members threatened work harmony by spiteful agitation; the publication by members of the Council of confidential information regarding the enterprise which they became cognizant of in the course of discharging their duties. Thirteen "Tribunes of Social Honor" were established, corresponding with the thirteen commissions.

    The presiding judge was not a fanatic; he was a career judge who rose above disputes. Meanwhile the enterprise involved was not left out of the proceedings; the judge was seconded by two assistant judges, one representing the management, another a member of the Council of Trust.

    This tribunal, the same as any other court of law, had the means of enforcing its decisions. But there were nuances. Decisions could be limited in mild cases to a remonstrance. They could also hit the guilty party with fines of up to 10,000 marks. Other very special sanctions were provided for that were precisely adapted to the social circumstances; change of employment, dismissal of the head of the enterprise or his agent who had failed in his duty. In case of a contested decision, the legal dispute could always be taken up to a Supreme Court seated in Berlin-a fourth level of protection.

    From then on the worker knew that exploitation of his physical strength in bad faith or offending his honor would no longer be allowed. He had to fulfill certain obligations to the community, but they were obligations that applied to all members of the enterprise, from the chief executive down to the messenger boy. Germany's workers at last had clearly established social rights that were arbitrated by a Labor Commission and enforced by a Tribunal of Honor. Although effected in an atmosphere of justice and moderation, it was a revolution.

    This was only the end of 1933, and already the first effects could be felt. The factories and shops large and small were reformed or transformed in conformity with the strictest standards of cleanliness and hygiene; the interior areas, so often dilapidated, opened to light; playing fields constructed; rest areas made available where one could converse at one's ease and relax during rest periods; employee cafeterias; proper dressing rooms.

    With time, that is to say in three years, those achievements would take on dimensions never before imagined; more than 2,000 factories refitted and beautified; 23,000 work premises modernized; 800 buildings designed exclusively for meetings; 1,200 playing fields; 13,000 sanitary facilities with running water; 17,000 cafeterias. Eight hundred departmental inspectors and 17,300 local inspectors would foster and closely and continuously supervise these renovations and installations.

    The large industrial establishments moreover had been given the obligation of preparing areas not only suitable for sports activities of all minds, but provided with swimming pools as well. Germany had come a long way from the sinks for washing one's face and the dead tired workers, grown old before their time, crammed into squalid courtyards during work breaks.

    In order to ensure the natural development of the working class, physical education courses were instituted for the younger workers; 8,000 such were organized. Technical training would be equally emphasized, with the creation of hundreds of work schools, technical courses and examinations of professional competence, and competitive examinations for the best workers for which large prizes were awarded.

    To rejuvenate young and old alike, Hitler ordered that a gigantic vacation organization for workers be set up. Hundreds of thousands of workers would be able every summer to relax on and at the sea. Magnificent cruise ships would be built. Special trains would carry vacationers to the mountains and to the seashore. The locomotives that hauled the innumerable worker-tourists in just a few years of travel in Germany would log a distance equivalent to fifty-four times around the world!

    The cost of these popular excursions was nearly insignificant, thanks to greatly reduced rates authorized by the Reichsbank.

    Didn't these reforms lack something? Were some of them flawed by errors and blunders? It is possible. But what did a blunder amount to alongside the immense gains?

    That this transformation of the working class smacked of authoritarianism? That's exactly right. But the German people were sick and tired of socialism and anarchy. To feel commanded didn't bother them a bit. In fact, people have always liked having a strong man guide them. One thing for certain is that the turn of mind of the working class, which was still almost two-thirds non-National Socialist in 1933, had completely changed.

    The Belgian author Marcel Laloire would note: "When you make your way through the cities of Germany and go into the working-class districts, go through the factories, the construction yards, you are astonished to find so many workers on the job sporting the Hitler insignia, to see so many flags with the Swastika, black on a bright red background, in the most populous districts." The "Labor Front" that Hitler imposed on all of the workers and employers of the Reich was for the most part received with favor.

    And already the steel spades of the sturdy young lads of the National Labor Service could be seen gleaming along the highways. The National Labor Service had been created by Hitler out of thin air to bring together for a few months in absolute equality, and in the same uniform, both the sons of millionaires and the sons of the poorest families. All had to perform the same work and were subject to the same discipline, even the same pleasures and the same physical and moral development. On the same construction sites and in the same living quarters, they had become conscious of their commonality, had come to understand one another, and had swept away their old prejudices of class and caste. After this hitch in the National Labor Service they all began to live as comrades, the workers knowing that the rich man's son was not a monster, and the young lad from the wealthy family knowing that the worker's son had honor just like any other young fellow who had been more generously favored by birth. Social hatred was disappearing, and a socially united people was being born.

    Hitler could already go into factories-something no man of the so-called Right before him would have risked doing-and hold forth to the mob of workers, tens of thousands of them at a time, as in the Siemens works. "In contrast to the von Papens and other country gentlemen," he might tell them, "In my youth I was a worker like you. And in my heart of hearts, I have remained what I was then." In the course of his twelve years in power, no incident ever occurred at any factory Adolf Hitler ever visited. When Hitler was among the people, he was at home, and he was received like the member of the family who had been most successful.

 

 
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