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  1. #11
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    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    Venere e Adone


    Le leggende relative a Venere e ai suoi molteplici amanti furono temi molto apprezzati dai pittori di ogni epoca. In particolare, il mito di Venere e Adone, il bellissimo giovane di cui la dea si innamorò e che fu ucciso durante una battuta di caccia fece da stimolo alla fantasia di molti pittori del Cinquecento, come testimoniano - fra le tantissime dedicate al tema - le tre opere qui sotto, tutte custodite al Museo del Prado di Madrid.



    Tiziano, Venere e Adone, 1554
    Madrid, Museo del Prado






    Paolo Veronese, Venere e Adone, 1580
    Madrid, Prado






    Annibale Carracci, Venere, Adone e Cupido, 1588
    Madrid, Prado


    Il mito di Adone è originario della Mesopotamia e della Siria, da cui passò in Egitto, a Cipro e infine giunse in Grecia intorno al VII secolo a.C.
    Adone era un bellissimo giovane, talmente bello che due dee (Afrodite e Persefone) arrivarono a contendersi il suo amore, con esiti per lui tragici. Anche la nascita di Adone fu tutt’altro che serena, dato che era il frutto di un amore incestuoso.

    Si racconta che Cinira, re Cinira di Cipro si vantò che sua figlia Smirna fosse più bella di Afrodite. La dea, offesa per avere una rivale, decise di vendicarsi facendo in modo che Smirna si innamorasse perdutamente di suo padre. Vittima dell’incantesimo di Afrodite, Smirna attendeva tutte le sere che Cinira si ubriacasse, per infilarsi al buio nel letto del padre e accoppiarsi con lui senza essere riconosciuta. Dopo nove notti d’amore, Cinira si incuriosì e decise di vedere chi fosse la ragazza che tutte le notti gli si dava con passione: avvicinò un lume al volto dell’amata e la luce illuminò il viso di sua figlia Smirna. Cinira, inorridito da quell’atto incestuoso, afferrò una spada e iniziò ad inseguire Smirna, senza sapere che la giovane portava già in grembo il frutto di quell’amore. Smirna, in preda alla disperazione e alla vergogna, pregò gli dei affinché intervenissero in suo aiuto: Afrodite si impietosì e, prima che Smirna venisse raggiunta dal padre furibondo, la trasformò in un albero di mirra, che produceva una spezia utilizzata dai Greci per le sue qualità afrodisiache. Cinira, in un impeto di rabbia, colpì l’albero con un poderoso colpo di spada e, nove mesi dopo, dalla spaccatura nella corteccia nacque un bel bambino che venne chiamato Adone.

    Adone era così bello che Afrodite lo volle per sé e lo nascose in una cesta che consegnò a Persefone, regina del regno dei morti, affinché la custodisse e allevasse il bambino. Quando però Persefone sollevò il bambino dalla cesta, fu rapita dalla bellezza di Adone e non volle più restituirlo ad Afrodite. Le due dee si rivolsero allora a Zeus, che incaricò la musa Calliope di dirimere la questione. Calliope divise l’anno in tre parti uguali e decise che Adone avrebbe potuto passare la prima parte dell’anno per conto suo, la seconda con Persefone nell’oltretomba e la terza con Afrodite. Adone, crescendo, diventava sempre più bello e ben presto sia Persefone che Afroditelo vollero come amante.

    Ma Afrodite non voleva condividere Adone con nessuna: usando le sue arti amorose e una cintura magica, indusse Adone a passare sempre più tempo con lei a discapito di Persefone, che decise allora di vendicarsi. Andò da Ares e gli disse che Afrodite gli preferiva ormai Adone, un semplice mortale. Allora Ares, in preda alla gelosia, si trasformò in cinghiale e attaccò Adone, impegnato in una battuta di caccia sul monte Libano. Il bellissimo giovane venne azzannato dal cinghiale sotto gli occhi di Afrodite e morì dissanguato tra le sue braccia; dal suo sangue sbocciarono anemoni rossi, mentre la sua anima precipitava nell’Oltretomba dove Persefone la attendeva.

    Afrodite, in preda alla disperazione, si rivolse a Zeus che, impietosito dal dolore della dea, concesse nuovamente che Adone, ogni anno, trascorresse quattro mesi con Persefone nel regno dei morti, quattro con Afrodite e i restanti quattro con chi desiderasse. In onore di Adone, si celebravano le feste Adonie, che duravano due giorni: nel primo giorno si piangeva la sua morte con lamenti e riti funebri; nel secondo si celebrava la sua resurrezione.




    Pieter Paul Rubens, Morte di Adone, c. 1614
    Gerusalemme, Israel Museum

  2. #12
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    Ospite

    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    Venere e Marte


    L'aedo iniziò sulla cetra a cantare con arte
    gli amori di Ares e di Afrodite dal bel diadema,
    come in segreto si unirono nelle case di Efesto
    la prima volta.

    (Odissea, Libro VIII, vv. 266-269)





    Paolo Veronese, Venere e Marte legati da Amore, c. 1578
    New York, Metropolitan Museum of Art



    Ares per i romani, Marte per i greci, nato dall'unione di Zeus-Giove e Era-Giunone, è una delle dodici divinità che abitano l'Olimpo. Inizialmente identificato come dio della primavera, viene in seguito connotato come dio della guerra a causa della sua indole aggressiva, che rende difficili i rapporti con le altre divinità. La raffigurazione iconografica di Marte è solitamente quella di un dio guerriero, con elmo e scudo come attributi. Più che presso i greci, Marte è molto popolare presso i romani: venerato in Campidoglio, il mese di marzo è così chiamato in suo onore, come pure il terreno dedicato alle esercitazioni militari a Roma, il Campo di Marte.

    Nell'Olimpo greco, l'unica dea in armonia con il focoso guerriero è Afrodite-Venere, il cui amore per lui è narrato nell'Odissea e nelle Metamorfosi di Ovidio. La storia è nota: c'è un marito zoppo e beffato (Efesto-Vulcano), una moglie seducente (Afrodite-Venere), un amante prestante (Ares-Marte) e, naturalmente, il pettegolo di turno: nientemeno che il Sole. Costui sorprende i due amanti durante uno dei loro incontri e corre a comunicarlo al marito di Afrodite, che nella sua fucina costruisce una sottile rete dorata per intrappolare i due amanti durante un amplesso, così da poterli esibire alla vista degli dei... i quali, naturalmente, accorrono per gustarsi la scena. Ma le dee no, ci fa sapere Omero, poiché si trattengono per pudore.





    Tiziano, Marte, Venere e Amore, c. 1530
    Vienna, Kunsthistorisches Museum



    Di solito, nei quadri del Cinquecento il tradimento di Venere e Marte viene punito orgogliosamente da Vulcano nel modo illustrato sopra. Ma Tintoretto, in uno dei suoi capolavori, racconta una storia un po' diversa...





    Jacopo Tintoretto, Venere e Marte sorpresi da Vulcano, c. 1551
    Monaco di Baviera, Alte Pinakothek



    Nel quadro di Tintoretto vediamo Vulcano entrare nella camera da letto dei due amanti, dove trova la consorte nuda, distesa sul letto... e Marte? Aguzzando la vista, si vede il prestante dio della guerra che, molto poco dignitosamente, è accuccciato sotto un mobile per nascondersi, mentre osserva un cagnolino che che gli abbaia contro:



    L'abbaiare del cagnolino dev'essere abbastanza rumoroso, ma Vulcano sembra non sentirlo perché, ammaliato dalla nudità di Venere, rimane come incantato ad osservarle il pube. Alcuni critici, tuttavia, sostengono che vuole solo coprire il corpo nudo della consorte.



    Venere, intanto, ha un braccio alzato a reggere il lenzuolo nel quale è avvolta; lo sguardo imbambolato sembra non esprimere vergogna né preoccupazione...



    E Cupido? Disteso su una panca, il dio dell'amore dorme beato (o finge?), ignaro di tutto. In sostanza, è assente. Forse, Tintoretto vuole dirci che, in un caso di adulterio, l'amore non esiste?



    Inoltre, a confondere maggiormente la scena, c'è - alle spalle di Vulcano - uno specchio che riflette il marito tradito, ma in una posizione diversa da quella che si vede in primo piano: Vulcano non ha soltanto il ginocchio destro appoggiato sul letto, ma entrambi. Perché?




    Nel disegno preparatorio esposto al Museo di Berlino la storia raccontata da Tintoretto confonde ancora di più, perché è completamente diversa: Marte, Cupido e il cagnolino non ci sono. Vulcano non è più un compassionevole marito tradito, ma quasi un violentatore, troppo attratto dalla sua consorte nuda per coprirla con cura. E Venere, non più imbambolata e passiva, cerca di dimenarsi per sfuggire alle avances di Vulcano...




    Jacopo Tintoretto, Studio per Venere e Marte sorpresi da Vulcano, 1551
    Berlino, Staatliche Museen

  3. #13
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    Ospite

    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    Venere e Efesto (Vulcano)




    Giovan Battista Tiepolo, Venere e Vulcano, 1765
    Philadelphia Museum of Art



    Considerato il fabbro degli dei, Efesto (Vulcano per i Romani) era il dio del fuoco, degli artigiani e dei metalli. Leggenda vuole che Hera (Giunone) concepì sia lui che Ares (Marte) senza la partecipazione di suo marito Zeus (Giove) per punirlo dei numerosi tradimenti con altre dee e con donne mortali. Ma, quando lo partorì, Hera si accorse che il bambino era scuro di pelle e brutto assai; quindi, in un impeto di rabbia, lo scagliò giù dall'Olimpo. Il povero Efesto sopravvisse alla caduta perché finì in mare, dove fu raccolto da due ninfe, Eurimone e Teti, che lo accolsero nella loro grotta sottomarina e lo allevarono per nove anni come un figlio. Il bambino crebbe scontroso e sviluppò un carattere tutt’altro che facile, ma scoprì ben presto di possedere una particolare abilità nel forgiare i metalli. Quindi, attrezzò nella grotta una piccola officina, dove imparò il mestiere di fabbro e iniziò a fabbricare gioielli di grande bellezza, che regalava soprattutto alle due ninfe che l’avevano amato e accudito.




    Luca Giordano, La fucina di Vulcano, 1660
    San Pietroburgo, Hermitage



    Col passare degli anni, Efesto riuscì faticosamente a ricucire il rapporto con la madre e un giorno venne da lei invitato ad uno dei tanti banchetti che si tenevano sul Monte Olimpo. Qui però litigò con Zeus, che lo scagliò di nuovo giù dall'Olimpo. A seguito di questa seconda caduta, Efesto si fratturò entrambe le gambe e da quel momento rimase zoppo. In seguito a queste brutte esperienze, decise quindi di vendicarsi di Hera. Le costruì un bellissimo trono d'oro, dove – appena lei si sedette – rimase imprigionata da fibbie invisibili e non riuscì più a rialzarsi. Iniziò così ad urlare talmente forte che gli dei, infastiditi, pregarono Efesto di liberarla. Il dio fabbro acconsentì, a condizione che gli venisse concessa una dea in sposa. Tra tutte, Zeus scelse proprio Afrodite, la più bella dell’Olimpo, niente affatto contenta di sposare un uomo così brutto e di pessimo carattere; ma, non potendo rifiutarsi, fu costretta ad accettarlo come marito. Secondo la leggenda, il matrimonio non fu mai consumato; in compenso, Afrodite ebbe numerosi amanti: non solo Adone e Marte, ma anche Anchise (il padre di Enea), Dioniso e molti altri.




    Tintoretto, Venere e Vulcano vezzeggiano Cupido, c. 1550
    Firenze, Palazzo Pitti

  4. #14
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    Ospite

    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    Venere e Anchise





    Annibale Carracci, Venere e Anchise, 1597-1602
    Affresco - Roma, Galleria Farnese, Palazzo Farnese



    Anchise, personaggio della mitologia greca e romana, era noto per l'eccezionale bellezza. Possedeva, inoltre, saggezza ed eloquenza, per le quali era celebrato anche fra gli dei dell'Olimpo. Un giorno venne notato da Venere mentre pascolava le sue mandrie presso il monte Ida e la dea si invaghì di lui. Una notte, mentre lui dormiva nella sua capanna, Afrodite assunse l'aspetto di una comune mortale e andò da lui indossando un peplo seducente, che la fece apparire irresistibile agli occhi di Anchise. Dopo una notte di passione la dea rimase incinta e quando, il mattino seguente, lei gli rivelò la sua vera natura, Anchise, temendo di essere punito per aver amato una dea, la pregò di risparmiargli la vita. Lei lo rassicurò, dicendogli che dalla loro unione sarebbe nato bambino valoroso e bello, il quale avrebbe regnato sui Troiani e acquistato una fama strordinaria. Ma, allo stesso tempo, Afrodite mise in guardia il suo amante esortandolo a non rivelare a nessuno la verità sulla loro unione; infatti, se Zeus ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe senz'altro punito Anchise.





    William Blake Richmond, Venere e Anchise, 1889-90
    Liverpool, Walker Art Gallery



    Il pastore promise, ma alcuni giorni dopo, mentre si trovava presso una locanda in compagnia di alcuni amici, uno di loro chiese ad Anchise se avesse preferito passare una notte con la figlia di Priamo o con Afrodite. Il giovane troiano, stordito dal vino e dimenticandosi della promessa, si vantò affermando di essere andato a letto con entrambe. Zeus, che udì le parole di Anchise, si affrettò a punirlo scagliando contro di lui una saetta. Ma Afrodite corse in difesa del suo amato e lo protesse con la sua cintura magica. Il fulmine raggiunse comunque Anchise, ma - invece di incenerirlo - scoppiò sotto i suoi piedi, provocando comunque qualche danno: da quel momento, il pastore non riuscì più a raddrizzare la schiena e rimase zoppo (l'episodio è riportato da Omero nell'Iliade e da Esiodo nella Teogonia). Dal canto suo, Afrodite si disinteressò completamente a lui dopo aver dato alla luce il figlio Enea sul Monte Ida, con l'aiuto delle ninfe che si presero cura del bambino nei primi anni di vita. In seguito, Anchise, non potendo prendersi cura di lui, lo affidò alle cure di Chirone, col quale Enea rimase fino all'età adulta.

    Enea non fu l'unico figlio di Anchise, dato che - ptima della nascita di Enea, il pastore si era già sposato con Eriopide (che morì prima dello scoppio della guerra di Troia) e da lei ebbe numerose figlie. Non disdegnò nemmeno la compagnia di alcune schiave, dalle quali ebbe altri figli. Nella drammatica notte della caduta di Troia, Enea caricò Anchise sulle spalle, fuggendo dalla città in fiamme. Secondo la leggenda, infatti, Anchise in età senile era diventato cieco e paralitico. Morì a Drepano (l'odierna Trapani) e il figlio gli diede onorata sepoltura sul monte Eryx (dove ora sorge Erice) in cui c'era un tempio consacrato ad Afrodite. Oggi sulla spiaggia dove Anchise morì c'è una stele che ricorda l'evento. La stele, detta appunto stele di Anchise, si trova presso la contrada Pizzolungo, che fa parte del Comune di Erice.





    Girolamo Genga, Fuga di Enea da Troia col padre Anchise sulle spalle, c. 1510
    Affresco staccato - Siena, Pinacoteca Nazionale

  5. #15
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    Ospite

    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    Venere e Cupido




    Palma il Vecchio, Venere e Cupido, c. 1524
    Cambridge, UK, The Fitzwilliam Museum



    Finora abbiamo parlato dei numerosi amanti di Venere... ma i figli? Eccolo: Eros o Cupido, dio dell'Amore.
    La poesia antica e moderna, oltre alle arti figurative, lo hanno rappresentato come un grazioso fanciullo alato dal volto di cherubino, munito di arco e frecce da scagliare indifferentemente contro uomini e dei, facendoli innamorare.

    Omero non lo nomina mai nell'Iliade e nell'Odissea. Virgilio, invece, nell'Eneide celebra in varie occasioni la potenza di Eros. L’episodio più celebre è quello relativo alla storia di Didone, regina di Cartagine, la quale, colpita dalle sue frecce, si innamora perdutamente di Enea.
    Quanto alle origini di Eros, Esiodo, nella Teogonia, ricorda che Eros ebbe origine subito dopo il Caos, con Gea e Tartaro: quindi, rappresenta la forza primordiale che pervade tutti gli esseri creati e ispira il loro bisogno di perpetuare la vita. Ma non è questa l'unica teoria sulle sue origini. Secondo altre fonti, Eros nacque da Zefiro e da Iride; mentre altre ancora affermano che era figlio di Venere e Vulcano, oppure di Venere e Marte. Ed è quest'ultima l'ipotesi quella seguita dalla tradizione poetica in generale.





    Diego Velázquez, Venere allo specchio (Venere Rokeby), c. 1648
    Londra, National Gallery



    Eros è stato descritto come un dio dispettoso e indisciplinato. A questo proposito c’è la storia che racconta come fece innamorare sua madre Afrodite di Adone, giovane di rara bellezza, suscitando la gelosia di Marte, che si scagliò contro il giovane sotto forma di cinghiale e lo uccise (il mito di Venere e Adone è raccontato qui).




    Paolo Veronese, Venere disarma Cupido, 1550-55
    Worcester Art Museum



    Platone parla di Eros come di un'esigenza dell'anima e lo unisce al concetto di bellezza e al bisogno di conoscenza che è insito nell'anima. Il legame tra Amore, Bellezza, Anima, che unisce il mito antico e il pensiero filosofico, si trasfigura nella bellissima favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nell'Asino d'oro...



    François Gérard, Cupido e Psiche, c. 1798
    Parigi, Louvre



    La favola di Amore e Psiche si estende per ben 63 capitoli ne L’asino d'oro di Apuleio e costituisce un racconto completo e autonomo, che va dal capitolo 28 del IV libro al capitolo 24 del VI libro. L'incipit del racconto è quello tipico delle fiabe popolari...
    Un re e una regina avevano tre figlie, delle quali l'ultima, Psiche, era la più bella. L'ammirazione generale verso questa fanciulla suscitò la gelosia di Venere, la quale, per punirla, chiese al figlio Cupido di farla innamorare di un uomo bruttissimo. Cupido, invece, quando vide Psiche rimase talmente colpito dalla sua avvenenza che la freccia, preparata per la fanciulla, gli cadde su un piede e lo fece innamorare perdutamente di Psiche. Senza mai apparire di fronte a lei, la condusse in un palazzo incantato dove la sposò, facendole giurare che non avrebbe mai tentato di scoprire chi era l'uomo che ogni notte le dormiva accanto. Ed aggiunse che, nel caso lei lo avesse visto, lui sarebbe scomparso all'istante e lei non lo avrebbe rivisto mai più.

    Le due sorelle maggiori di Psiche, gelose della fortuna alla fanciulla, andarono a trovarla e la convinsero che, se lo sposo non voleva farsi vedere, doveva essere davvero un mostro orribile. La povera Psiche rimase impressionata dalle parole delle sorelle e questo tarlo cominciò ad ossessionarla... al punto che una notte, mentre Cupido dormiva, si avvicinò al suo letto con una lampada. Ma, con sua grande meraviglia, anziché il mostro che si era aspettata di trovare, vide che il suo sposo aveva un viso bellissimo, una testa bionda incorniciata dai capelli ricci e una bocca di corallo, dalla quale proveniva un delizioso profumo di ambrosia. Psiche, allora, si rese conto che il suo sposo doveva essere il più giovane e il più bello degli dei. Estasiata da quella visione, Psiche non si accorse che la lampada che reggeva in mano si era inclinata e una goccia dell'olio caldo che conteneva era caduta sulla spalla di Cupido, svegliandolo.





    Giuseppe Maria Crespi, Amore e Psiche, 1707
    Firenze, Uffizi



    Lui vide la fanciulla con la lampada in mano al suo capezzale e si rese subito conto che Psiche, per diffidenza, aveva mancato al giuramento. Si alzò dal letto e senza dire una parola si alzò in volo, scomparendo. Psiche, disperata, tentò di togliersi la vita gettandosi nel fiume. Ma, seduto in riva al fiume c'era il dio Pan, che la dissuase dal suicidarsi e la convinse a fare di tutto affinché Eros si riavvicinasse a lei.

    Psiche, presa dai suoi pensieri, cominciò a camminare e giunse nella città dove regnava il marito di una delle due sorelle, alla quale raccontò che ogni notte aveva giaciuto non con un mostro, ma con il bellissimo figlio di Venere. Ma, avendo rotto il giuramento, Eros l'aveva scacciata dicendo che ora voleva sua sorella in sposa. Zefiro l'avrebbe condotta da lui. La sorella, presa da frenesia e da invidia, mentì al marito dicendogli che le erano morti i genitori e si imbarcò su una nave. Si diresse alla rupe dalla quale, come le aveva detto Psiche, si doveva gettare, per poi essere presa in volo da Zefiro e portata da Eros. Invece, si sfracellò sulle rocce e i suoi resti divennero cibo per gli uccelli e le bestie feroci. La stessa vendetta toccò alla seconda sorella di Psiche.

    Intanto, Venere, informata di ciò che era accaduto al figlio, giurò vendetta. Psiche chiese allora aiuto a Cerere (Demetra per i Greci); ma questa, temendo le ire di Venere, rifiutò di aiutarla. Psiche si rivolse allora a Giunone (Hera per i Greci), la quale fece altrettanto per non inimicarsi Venere. Allora Psiche, stanca di fuggire e abbandonata da tutti, decise di presentarsi umilmente a Venere e di supplicarne il perdono. Ma la dea, anziché perdonarla, la consegnò alle due ancelle Angoscia e Tristezza, affinché la torturassero. Poi, le impose di superare una serie di prove; l'ultima di queste consisteva nello scendere nell'Ade e farsi consegnare da Persefone un vasetto nel quale richiudere una parte della bellezza della dea degli inferi.

    Psiche, stanca e avvilita, si recò su una torre altissima con l’intenzione di buttarsi giù e farla finita. La torre, però, cominciò a parlarle e le suggerì la strada da percorrere per arrivare nel regno dei morti senza per questo suicidarsi e condannarsi così a restare per sempre negli Inferi. Le raccomandò inoltre di non aprire il vasetto. Psiche seguì alla lettera i consigli ricevuti. Ritornò dal regno dei morti con un vasetto contenente la divina bellezza, ma la curiosità la vinse di nuovo e aprì il vasetto. Purtroppo, il vasetto conteneva il sonno mortale che avvolse Psiche, la quale cadde a terra, a terra esanime. Ma a questo punto intervenne Amore che la svegliò, pungendola con la punta di una delle sue frecce. Subito dopo, volò da Giove e chiese la sua intercessione, affinché sua madre Venere lasciasse libera Psiche e acconsentisse alle nozze. Così fu, ma prima Giove rese immortale Psiche, innalzandola al rango degli altri dei. Seguì un sontuoso banchetto alla presenza di tutte le divinità dell'Olimpo. Qualche tempo dopo, Psiche partorì una figlia, alla quale fu dato il nome di Voluttà.




    Adolphe-William Bouguereau, Amore e Psiche, 1899
    Ubicazione sconosciuta



    La favola di Apuleio ha un significato allegorico: rappresenta, infatti, il destino dell'anima ("psiche" in greco vuol dire "anima"), la quale, per aver commesso un peccato di superbia (nel voler svelare un mistero che non avrebbe dovuto conoscere), deve scontare la sua colpa con umiliazioni e affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi a dio... e, dall'unione tra anima e amore, raggiungere finalmente il piacere.

  6. #16
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    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    Medioevo: Venere e Tannhäuser





    John Collier, Tannhäuser nel Venusberg, 1901
    Southport, Atkinson Art Gallery



    Il mito di Venere attraversò i secoli bui del Medioevo senza lasciare molte tracce, dato che la dea incarnava il piacere sessuale e la passione, ovvero gli aspetti considerati meno nobili dell'amore. L'aura di negatività che circondava la dea, secondo i codici comportamentali dominanti in epoca medioevale, si spinse fino alla distruzione di antiche statue pagane raffiguranti la "Venere Dimonia", una divinità ridotta al rango di volgare adescatrice, corruttrice di uomini, demone perverso e lussurioso. Questa demonizzazione del mito di Venere fu parzialmente mitigato nei cicli romanzeschi e nei poemi cavallereschi tardo-medioevali, dove la dea assunse connotazioni gradualmente meno negative, nei quali la dea rappresentava l'eterna dicotomia tra amore spirituale e amore sensuale, eros e thanatos, purezza e carnalità.

    Secondo le tradizioni nordiche di origine germanica le caverne sotterranee del Venusberg (in tedesco "monte di Venere") ospitavano la dea insieme alla sua corte di ancelle, satiri, baccanti. L'accesso alla montagna era nascosto agli occhi dei comuni mortali, ma non a quelli del cavaliere - poeta e trovatore realmente esistito, la cui figura è stata ampiamente mitizzata - che riuscì a trovare l'entrata e, una volta al cospetto di Venere, ne fu talmente ammaliato da decidere di rimanere con lei. Dopo un anno, tuttavia, Tannhäuser cominciò a desiderare di tornare alla sua vita precedente per chiedere perdono e vivere cristianamente; così, prese a supplicare la dea di lasciarlo andare. Lei cercò dapprima di persuaderlo e di ammaliarlo con le sue grazie, ma alla fine lo accontentò maledicendolo. Il cavaliere cadde addormentato e, al risveglio, il monte di Venere era scomparso e lui si ritrovò in una valle che conosceva.

    Una volta libero, Tannhäuser decise di compiere un pellegrinaggio espiatorio a Roma per chiedere perdono al papa Urbano IV, il quale, secondo la leggenda, disse che il perdono era molto difficile e solo un miracolo avrebbe potuto salvare la sua anima... come quello che il suo bastone pastorale, ricavato da un ramo secco, potesse fiorire. Il cavaliere, quindi, risalì la penisola, valicò le Alpi, attraversò la Svizzera, giunse infine in Germania e qui finalmente poté rifocillarsi senza più remore presso l'amata Venere. Nel frattempo, però, il miracolo era avvenuto: il bastone del papa era fiorito. Così, il pontefice spedì i suoi messaggeri a cercare Tannhäuser per terre mari e monti, per comunicargli che la sua anima era salva; ma il cavaliere viveva ormai felicemente segregato nel Monte di Venere e non ebbe mai notizia del prodigio.

    Il mito di Tannhäuser fu ripreso da Wagner nell'omonima opera, raccontato però in chiave cristiana, dato che l'opera si conclude con la redenzione del cavaliere, anziché con la sua perdizione. Il mito fu inoltre ripreso da Aubrey Beardsley, che fece del trovatore un dandy, insistendo particolarmente sulla raffinatezza del suo abbigliamento e sulle sue avventure erotiche.





    Aubrey Beardsley, Il ritorno di Tannhäuser nel Venusberg, 1895

  7. #17
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    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    La rinascita di Venere





    Lorenzo di Credi, Venere, 1493-94
    Firenze, Uffizi



    Dopo il lungo oblio del Medioevo, il mito di Venere viene celebrato nel Rinascimento come una vera e propria rinascita, soprattutto a Firenze. La dea dell'amore, della bellezza, del piacere e della fecondità è la protagonista di uno dei più celebrati e mitizzati dipinti rinascimentali, la Nascita di Venere di Botticelli, cui è correlata idealmente l'altra Venere degli Uffizi, oggi finita nell'oblio: quella di Lorenzo di Credi, presente fin dall'origine nelle collezioni dei Medici. Le due Veneri non potrebbero essere più diverse: tanto slanciata ed eterea quella di Botticelli, quanto massiccia e quasi mascolina e dai bicipiti pronunciati quella di Lorenzo di Credi; eterea e in equilibrio instabile su una conchiglia la Venere botticelliana (quasi a voler sfidare le leggi della fisica), salda e con i piedi ben piantati per terra quella di di Credi; al centro di un soave paesaggio marino la prima dea, stagliata contro uno sfondo scuro la seconda.
    Ma non è tutto qui. Il gusto raffinato della corte medicea si manifesta nel Cinquecento nella Venere dello Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio, opera dello scultore Vincenzo Danti, una dea elegante e sinuosa che esce dal mare e si strizza i capelli bagnati. Lo stesso gesto è ripetuto dalla Venere del Giambologna nota come Fiorenza, destinata alla fontana della villa medicea di Castello nei pressi di Firenze e così chiamata per essere assimilata all'allegoria di Firenze.





    Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538
    Firenze, Uffizi






    Giorgione, Venere dormiente, 1510
    Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister



    Con un accento più naturalistico viene interpretato il mito di Venere nella pittura veneziana del Cinquecento: nascono così la Venere di Tiziano, oggi agli Uffizi, memore della più celebre Venere dormiente di Giorgione, che di Tiziano fu maestro. E ancora, Venere e Mercurio che mostrano a Giove il figlio Anteros, di Veronese.

    Il mito di Venere viene reinterpretato nel Rinascimento in chiave visiva e sensibile, dove la componente estetica è di vitale importanza nel tentativo di far rivivere, attraverso l'immagine, un mondo antico ormai perduto e danneggiato dai secoli bui del Medioevo. Ecco, allora, l'attenzione quasi maniacale per le pettinature, gli abiti, i gioielli, gli accessori, i dettagli fisici. Il Rinascimento e l'Umanesimo inseguono la "ricerca di un tempo perduto", la cui nostalgia è talmente forte che, per far rivivere quel mondo lontano, si ricorre a tutto ciò che sollecita l'immaginazione a livello psicologico e sensoriale. Per questa ragione, le Veneri rinascimentali non assomigliano affatto alla Venere di Omero e degli antichi, altrimenti non sarebbero altro che un simulacro privo di vita, un'imitazione passiva. Quella del Rinascimento, invece, è una nuova iconografia di Venere, una ri-nascita alla quale dare una nuova interpretazione. Come nella Primavera di Botticelli, dove le tre Ore vestite di bianco in un'unica figura dalla veste fiorita e variopinta, che ricalca la moda rinascimentale dei suoi contemporanei e non quella dell'antichità.





    Sandro Botticelli, Primavera, 1480
    Firenze, Uffizi

  8. #18
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    Ospite

    Predefinito Re: Il mito di Venere nella storia dell'arte

    Le Veneri distese del Rinascimento





    Jacopo Palma il Vecchio Venere distesa (Ninfa in un paesaggio), 1518-20
    Dresda, Gemäldegalerie



    La Venere di Giorgione e, più tardi, quella di Tiziano segnarono, in qualche modo, l'iconografia di Venere non solo nella pittura del Rinascimento, ma anche in quella dei secoli successivi, come vedremo. Il quadro di Palma il Vecchio riprodotto sopra, per esempio, è di poco posteriore alla Venere dormiente di Giorgione e di quel quadro riprende la postura languida della dea nuda e l'ambientazione, con un paesaggio idillico sullo sfondo. Ma gli esempi abbondano lungo tutto il Rinascimento, con poche varianti. Abbiamo così La Nuda di Bernardino Licinio, dipinta nel 1510, ora agli Uffizi; la Venere dormiente di Girolamo da Treviso, del 1520; la Venere dormiente con Cupido, di Paris Bordone (1538) e la bella Venere di Bronzino riprodotta qui sotto, tanto per citarne alcuni.





    Agnolo Bronzino, Venere con Cupido e satiro, 1553-55
    Roma, Galleria Colonna



    Il tema di Venere nuda e distesa rappresenta un'evidente allegoria dell'amore sensuale; infatti, molti di questi quadri furono realizzati su commissione per celebrare le nozze di qualche coppia altolocata ed essere collocate nella camera nuziale degli sposi. Va detto che il nudo nel Rinascimento non aveva connotazioni volgari o negative, ma celebrava caratteristiche positive: la verità, la bellezza, l'intelligenza, la purezza. La glorificazione della nudità vista in questa luce positiva, - come la bellezza e l'amore - compare anche in numerose opere filosofiche e poetiche di quel periodo. I concetti del mondo che queste opere rappresentavano erano ben noti agli artisti del tempo, che spesso conoscevano e stringevano rapporti di amicizia con gli umanisti e si ispiravano ai loro testi.





    Tiziano Vecellio, Venere Pardo, 1515
    Parigi, Louvre

 

 
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