di Renzo De Felice - «Il Giornale», 3 giugno 1980.
È convinzione non solo diffusa, ma rispondente alla realtà che il 10 giugno del 1940 Mussolini scese in guerra contro gli anglo-francesi perché – convinto che i tedeschi avessero praticamente vinto – voleva essere anche lui partecipe dei frutti della loro vittoria. Considerare con ciò risolto il problema dell’intervento italiano nella seconda guerra mondiale è però troppo semplicistico. Come sempre, la realtà è anche in questo caso più complessa di come sembra, e va scrutata più a fondo di quanto a prima vista sembri necessario. Questo, almeno, se la si vuole veramente capire e non fermarsi alla sua superficie, a ciò che in essa “conta”, ma, al tempo stesso, la appiattisce e la semplifica, facendone qualche cosa che, alla fin fine, non soddisfa chi non si accontenta di sapere ciò che è stato, ma vorrebbe conoscere anche i perché e i come di essa, le eventuali alternative, il comportamento, i pensieri, gli stati d’animo degli uomini che l’hanno determinata.
Rispondere esaurientemente a tutti gli interrogativi non è facile, specie in un breve articolo giornalistico, e in qualche caso non è ancora possibile. Molto, quasi tutto si sa: qualche passaggio non è ancora del tutto chiaro; qualche interrogativo ancora resta in piedi, anche se va detto che si tratta di interrogativi che, quasi certamente, andranno sciolti in negativo, constatando cioè l’infondatezza della ipotesi dalla quale muovono. Non potendo per ovvi motivi prendere il discorso troppo alla lontana, non discuteremo problemi come quello della “inevitabilità” dell’intervento fascista a fianco della Germania nazista che per molti costituisce, in definitiva, la spiegazione “a monte” dell’intervento italiano. Più semplicemente, prenderemo le mosse dalla decisione mussoliniana del settembre 1939 di proclamare, nonostante il Patto d’acciaio, la non belligeranza dell’Italia.
La spiegazione corrente è che questa decisione fu la conseguenza della consapevolezza di Mussolini (e delle pressioni degli ambienti militari e di una parte di quelli politici) della impreparazione militare italiana. Cose vere, al solito, ma, ancora una volta, da non privilegiare aprioristicamente e da non vedere avulse dal contesto in cui si inserivano.
Se si apre il diario di Dino Grandi relativo ai giorni della crisi dell’agosto-settembre 1939, fra le tante annotazioni del più vivo interesse due colpiscono più delle altre. La prima, sotto la data del 21 agosto, suona così: Mussolini «sta combattendo la più grande battaglia interiore della sua vita». E la seconda, del 27 agosto: «Così, d’un tratto, siamo di nuovo alla collaborazione italo-britannica. Abbiamo di colpo ricostituito la verticale Roma-Londra». Due annotazioni di natura molto diversa, ma che inducono a meditare, a chiedersi cosa in realtà avvenisse in quei giorni a Roma, con quale spirito e prospettive fu decisa la non belligeranza.
Sei anni fa, sul «Journal of contemporary history», H. Cliadakis ha sostenuto che l’obiettivo di Mussolini nei mesi della non belligeranza fu sostanzialmente quello di giungere ad una pace negoziata che assicurasse l’equilibrio delle forze tra i due campi opposti. In questa tesi vi è molto di vero. Basti pensare che, ancora nel pieno della grande offensiva tedesca del ’40 contro la Francia, Mussolini era convinto che i francesi avrebbero realizzato la “nuova Marna” e l’attendeva fiducioso per potere poi avviare le trattative per la “nuova Monaco” che avrebbe fatto di lui l’arbitro e il pacificatore dell’Europa. E questo senza dire dello “strano” comportamento che l’Italia tenne per mesi (sostanzialmente sino a quando non mutò atteggiamento nella questione dei rifornimenti di carbone all’Italia) verso l’ “alleato” tedesco: in novembre Mosca fu informata che i tedeschi rifornivano la Finlandia e la stampa francese e americana delle atrocità tedesche in Polonia; in dicembre l’ambasciatore a Tokyo fu incaricato di incoraggiare le correnti giapponesi ostili alla Germania, e i belgi e gli olandesi furono informati che l’invasione dei loro Paesi rientrava nei piani della Wermacht; in gennaio Mussolini comunicò al Consiglio dei ministri di aver dato disposizioni di “sbarrare la frontiera Nord” ecc.
La lettera del 5 gennaio
È un comportamento che corrisponde bene alla sostanza della lettera che il “duce” scrisse ad Hitler il 5 gennaio 1940 e che induce a mettere in primo piano sempre più soprattutto i passi più cauti e critici, e in primo luogo quello centrale: «Sono profondamente convinto che la Gran Bretagna e la Francia non riusciranno mai a far capitolare la vostra Germania aiutata dall’Italia, ma non è sicuro che si riuscirà a mettere in ginocchio i franco-inglesi e nemmeno dividerli. Crederlo, significa illudersi. Gli Stati Uniti non permetterebbero una tale disfatta delle democrazie. Gli imperi crollano per difetto di statica interna mentre gli urti dall’estero possono consolidarli è prevedibile un epilogo della guerra che come noi avete detto, non vedrà che due o più vinti. Vale la pena – ora che avete realizzato la sicurezza dei vostri confini orientali e creato il grande Reich di 90 milioni di abitanti – di rischiare tutto – compreso il regime – e di sacrificare il fiore delle generazioni tedesche per anticipare la caduta di un frutto che dovrà fatalmente cadere e dovrà essere raccolto da noi che rappresentiamo le forze nuove d’Europa? Le grandi democrazie portano in se stesse le ragioni della loro decadenza». Ed è un comportamento che induce far considerare di mera «opportunità quelli in cui veniva ribadita la fedeltà italiana all’alleanza.
Per assurdo che possa oggi sembrare, la conseguenza più importante che la crisi della seconda metà d’agosto aveva avuto a Roma era stata proprio questa: mettere in crisi l’idea che l’Italia dovesse rimanere fedele al Patto d’acciaio.
I gradi di maturazione di questa crisi erano stati ovviamente diversi e così pure le varie prospettive che da essi ne discendevano. Fatta eccezione per un piccolo gruppo di filonazisti ad oltranza tutto il vertice fascista che contava, spingendo la questione di Danzica sino alla guerra i tedeschi erano venuti meno agli accordi con l’Italia, l’avevano tradita». Di questa opinione, il 2 settembre, si disse anche Mussolini. In base a questa convinzione fu decisa la non belligeranza. Con gioia, con sollievo, con facilità da parte di alcuni. Grandi avrebbe voluto che il Gran consiglio denunciasse il Patto d’acciaio. Ciano per il momento era formalmente più cauto, ma il suo sguardo non era di certo rivolto a Berlino: anche lui pensava ad uno sganciamento: bisognava attendere e “profittare” del momento buono: il patto russo-tedesco «poteva essere suscettibile di una serie di riserve, anche risolutive»; «entreremo in guerra quando ci parrà e vedremo con chi».
Il meno sicuro, il più intimamente travagliato era Mussolini. Come Grandi ha annotato nel suo diario le giornate che portarono allo scoppio della guerra e alla dichiarazione italiana di non belligeranza furono per lui drammatiche. Per lui non si trattava solo di una decisione “politica” e “tecnica” (connessa cioè alle possibilità materiali dell’Italia di affrontare un conflitto che lui per primo riteneva sarebbe stato assai lungo oltre che incerto). Per lui si trattava di molto di più. Si trattava di tirare un rigo sui piani politici e sulla strategia che aveva elaborato negli anni precedenti (e che escludevano almeno per alcuni anni ancora un conflitto) e, quel che più contava, di prendere una decisione. Una decisione che, in un caso come nell’altro, non avrebbe corrisposto né alla concezione che egli si era venuto facendo dopo la guerra d’Africa della “nuova civiltà” e del “nuovo ordine” che, secondo lui, stavano per determinarsi in Europa e nel mondo; né avrebbe corrisposto alla “missione” che, secondo sempre la sua concezione, avrebbe dovuto assolvere l’Italia fascista.
“Fedeltà all’alleanza”
E ciò senza dire di un altro problema che in quelle giornate così come nei mesi successivi della non belligeranza assillò sempre profondamente Mussolini: quello dell’onore, suo e dell’Italia, della “parola data” della “fedeltà all’alleanza”. Che spiega a sua volta perché Grandi, Ciano e altri tanto insistettero in quei giorni a denunziargli il “tradimento” tedesco, sia per quel che riguardava uno dei pilastri ideologici dell’alleanza (il patto con l’Urss) sia per qual che riguardava la “mancanza di parola” di Hitler nello scatenare la guerra prima del 1943, della detta “sottintesa” o addirittura “concordata” come termine post quem.
Alla fine, lo abbiamo detto, anche Mussolini si era però convinto del “tradimento” tedesco e, fallito un tentativo in extremis di mediazione, aveva deciso la non belligeranza e stabilito, come disse a Guarneri, che la posizione dell’Italia doveva riassumersi nel principio «dobbiamo essere tanto forti da non poter essere costretti da nessuno ad entrare in guerra».
Molto si potrebbe dire su come questo principio fu tradotto (o, meglio, non tradotto) in pratica. E ancora di più sulle prospettive in base alle quali fu gestita la non belligeranza. Per alcuni quella di giungere ad un negoziato, alla mediazione per una pace di compromesso, avente come premessa politica la costituzione di un “blocco di neutri” (gli Stati danubiano-balcanici e possibilmente la Spagna e il Giappone) attorno all’Italia. Per altri quella di un intervento “determinante” e, dunque, risolutivo dell’Italia allorché fosse stato chiaro che tra le due parti in lotta si era determinata una situazione di stallo. Una prospettiva, questa, che per alcuni sarebbe dovuta essere solo a senso unico (a favore della Germania cioè), mentre per altri non avrebbe escluso la possibilità di un vero e proprio cambiamento di fronte (e qui il discorso si fa molto complesso dato che esso investe una questione assai poco chiara: cosa Mussolini sapeva dei programmi anglo-francesi di intervento militare contro l’Urss a sostegno della Finlandia), giustificato agli occhi del mondo da un qualche avvenimento particolare.
Nella impossibilità di entrare qui in tutte queste questioni, ci limiteremo a dire che, a nostro avviso, parlare di una precisa prospettiva è impossibile: tutte convissero, almeno per un certo tempo, o si succedettero tra di loro sotto l’incalzare degli avvenimenti senza mai prendere veramente corpo. E, quel che più conta, senza che Mussolini prendesse mai una decisione vera. Anche quando, col marzo ’40, riprese a parlare più spesso di intervento a fianco della Germania (ma parlandone sempre sui tempi lunghi, dopo l’agosto ’40, dopo la primavera ’41, ecc., o, addirittura, come con Franco, scrivendo «è mio intendimento di ritardare sino al possibile l’evento di cui vi parlo, ma non so se potrò riuscirvi…») e a manifestare la sua irritazione contro l’Inghilterra e il suo blocco marittimo.
Tanto è vero che, pur avendo il 31 marzo inviato al re, a Ciano e ai capi militari un promemoria segretissimo con cui sembrava aver concluso che l’intervento in guerra a fianco della Germania era inevitabile, si guardò bene di fissare una data precisa per esso e continuò a parlare di date lontane (l’accenno alla primavera del ’41 è del 22 aprile) e quando, il 21 aprile, Grandi gli scrisse per metterlo in guardia dal prendere decisioni affrettate ed irrimediabili non reagì (contrariamente alle sue abitudini) in alcun modo alla sua “inframettenza”, mostrando così indirettamente di condividerne la sostanza.
A fargli abbandonare l’idea di poter assumere il ruolo di deu ex machina di una “nuova Monaco” e a fargli decidere l’intervento ci volle il crollo della Francia. Un crollo tanto clamoroso quanto inatteso da lui come da tutti, che lo convinse che la Germania aveva ormai vinto la guerra e che l’Inghilterra avrebbe ormai accettato di trattare un componimento del conflitto. Fu a questo punto che (pur essendo ben consapevole che l’intervento italiano in quel momento era un atto maramaldesco) scattò in lui la volontà di partecipare alla vittoria e di raccoglierne i frutti, e di cercare così di evitare che l’Italia si presentasse all’appuntamento della “nuova Europa” come una potenza irrimediabilmente di seconda categoria. Ma scattò anche la paura della vendetta tedesca. Due sentimenti assai diversi, ma che, se si vuol veramente capire il 10 giugno, non vanno disgiunti. Se, come Mussolini credeva, la Germania aveva vinto, era possibile pensare che, se l’Italia non si fosse schierata con essa, Hitler le avrebbe perdonato il “tradimento” dell’anno prima (e quello del 1914…)?
Opportunismo, desiderio di mascherare il fallimento della sua politica e paura furono una cosa sola nello spingere Mussolini in guerra. E non solo Mussolini. Più si studia l’intervento italiano nella seconda guerra mondiale, più ci si deve convincere che tanto l’errore di valutazione della situazione determinata dal crollo della Francia, quanto il doppio meccanismo opportunismo-paura che tradusse questo errore di valutazione nella decisione di scendere in guerra non furono solo di Mussolini, ma di tutto il gruppo dirigente italiano, politici, militari e sovrano. Tutti, anche coloro che più nei mesi precedenti si erano battuti per la non belligeranza. A fronte di questo doppio meccanismo neppure le concessioni che i francesi sarebbero stati disposti a fare per scongiurare l’intervento italiano potevano trovare a Roma ovviamente alcuna udienza.
Renzo De Felice