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    Cinico disincantato
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    Predefinito Storicizzare il Concilio Vaticano II

    Segnalo agli amici del forum questo ottimo articolo pubblicato sul blog di Sandro Magister.

    Che finalmente si possa esprimere un parere libero e cirostanziato su questo Concilio Ecumenico, evidenziandone quindi le luci (poche) e le ombre (molte), senza passare per ''scismatici'' o ''tradizionalisti'' ?

    Seguiranno aggiornamenti, intanto chi vuole può dire la sua.

    Storicizzare il Concilio Vaticano II. Ecco come il mondo di quegli anni influì sulla Chiesa

    Non deve essere solo teologica la disputa che sta infiammando la Chiesa, su come giudicare il Vaticano II. Perché anzitutto va analizzato il contesto storico di quell’evento, tanto più per un Concilio che programmaticamente dichiarò di volersi “aprire al mondo”.

    È ciò che prova a fare, in questo saggio pubblicato per la prima volta su Settimo Cielo, Roberto Pertici, docente di storia contemporanea all’università di Bergamo e specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa, firma di prestigio de “L’Osservatore Romano” negli anni della direzione di Giovanni Maria Vian.

    Pertici delinea i caratteri fondamentali dell’epoca del Vaticano II, indetto il 25 gennaio 1959, aperto l’11 ottobre 1962 e conclusosi l’ 8 dicembre 1965. Analizza la percezione che di quei caratteri ebbero i protagonisti della vicenda conciliare e le risposte che ne scaturirono.

    Della lotta triangolare che si era combattuta durante la seconda guerra mondiale, la vittoria alleata contro il nazismo aveva eliminato un fronte, ma il problema di fondo restava aperto: quale tipo di organizzazione sociale e quale forma di Stato la moderna società avrebbe dovuto darsi, in Europa e altrove?

    Sconfitto lo Stato nazionale fascista, i protagonisti e antagonisti rimanevano la democrazia liberale anglo-americana e il comunismo sovietico.

    E sono appunto queste tre le questioni che Pertici analizza l’una dopo l’altra:

    - la sconfitta del nazismo e del fascismo e l’eclissi del “paradigma conservatore”;
    - l’affermazione della democrazia nell’Europa occidentale e la diffusione di un nuovo ethos democratico;
    - il comunismo sovietico e la tentazione della “coesistenza pacifica” con esso.

    Tutte e tre le questioni incisero notevolmente sullo svolgimento del Concilio e in generale sulla Chiesa. E quindi anche la disputa teologica sulla sua interpretazione, se vorrà essere feconda, non potrà non tenerne conto.

    Naturalmente con l’avvertenza che gli sviluppi successivi della storia avrebbero contraddetto fortemente le aspettative del Vaticano II. Proprio dagli anni del Concilio, infatti, iniziò un processo di scristianizzazione delle società occidentali che le sta trasformando in società post-cristiane.

    Sono gli sviluppi che il professor Pertici promette di analizzare in un successivo suo saggio.

    Ma intanto ecco questa prima affascinante puntata. Buona lettura!

    STORICIZZARE IL VATICANO II

    di Roberto Pertici

    1. Una controversia teologica

    Le controversie che periodicamente si riaprono sui media variamente “cattolici” intorno al significato del Vaticano II e sul nesso che esisterebbe fra quel Concilio e l’attuale situazione della Chiesa creano un certo disagio nello studioso di storia. Egli le avverte infatti non come una discussione storica, ma come una “disputatio” di carattere prevalentemente teologico:. Come spesso accade in tali controversie, l’indagine storica finisce per svolgere una funzione “ancillare” e per essere utilizzata prevalentemente come pezza d’appoggio a sostegno delle tesi in conflitto.

    Questo sfondo teologico e puramente intra-ecclesiale è confermato dal poco o punto riferimento che si fa ai processi più ampi che si svolsero nell’età del Vaticano II, essendo l’attenzione prevalentemente concentrata sul successo di questa o quella teologia o di questa e quella cordata ecclesiastica. E ciò appare ancor più paradossale in quanto quel Concilio – programmaticamente – cercò di “aprirsi al mondo”, proprio a “quel” mondo del primo ventennio dopo il secondo conflitto mondiale. A modo suo cercò di offrirne una lettura, d’individuarne i processi e pronosticarne gli esiti.

    So bene che la Chiesa – come Paolo VI ribadiva in “Ecclesiam suam” – è nel mondo, ma non è del mondo: ha valori, comportamenti, procedure che le sono specifici e che non possono essere giudicati e inquadrati con criteri totalmente storico-politici, mondani. D’altra parte, – si deve però aggiungere – non è neanche un corpo separato. Negli anni Sessanta – e i documenti conciliari sono pieni di richiami in tal senso – il mondo si avviava verso quella che oggi chiamiamo “globalizzazione”, era già fortemente condizionato dai nuovi mezzi di informazione di massa, vi si diffondevano rapidissimamente idee e atteggiamenti inediti, emergevano forme di mimetismo generazionale. È impensabile che una vicenda dell’ampiezza e della rilevanza del Concilio si svolgesse nel chiuso della basilica di San Pietro senza confrontarsi con quanto stava succedendo.

    Delle tante periodizzazioni possibili, conviene restringersi alla più immediata e inserire il Vaticano II nel contesto del secondo dopoguerra e delle “trente glorieuses”, secondo la ormai proverbiale definizione di Jean Fourastié. Della lotta triangolare che si era svolta durante il conflitto, la vittoria alleata contro il nazismo aveva chiuso un fronte, ma il problema di fondo restava aperto: quale tipo di organizzazione sociale e quale forma di Stato la moderna società avrebbe dovuto darsi, in Europa e altrove? Sconfitto lo Stato nazionale fascista, i protagonisti e antagonisti rimanevano la democrazia liberale anglo-americana e il comunismo sovietico.

    Dobbiamo perciò affrontare in modo distinto e rapido questi tre problemi:

    - la sconfitta del nazismo e del fascismo e le sue conseguenze politico-culturali;
    - l’affermazione della democrazia nell’Europa occidentale;
    - il comunismo sovietico e la sua espansione.

    Ovviamente avendo sempre come punto di riferimento i loro contraccolpi nella Chiesa e nel mondo cattolico.

    2. La sconfitta del nazismo e del fascismo e le sue conseguenze politico-culturali

    Il 1945 ha segnato per decenni l’eclissi del “paradigma conservatore”, eclissi che emerge pienamente soprattutto dopo il 1960. È potuto sembrare a lungo un tramonto definitivo, anche se oggi sappiamo che non è propriamente così. Si può parlare anche di “cultura conservatrice”, ma in senso ampio: insieme di valori, presupposti taciti dell’agire politico ma anche della condotta quotidiana.

    Dopo il 1945, il paradigma “conservatore” sembra travolto dalla fine violenta dei regimi di destra radicale (fascismo, nazionalsocialismo). Il rapporto fra il conservatorismo e codesti regimi è storicamente controverso. Non sono pochi gli studiosi (fra i quali il sottoscritto) che ne sottolineano, accanto alle innegabili compromissioni, anche le forse maggiori distanze e conflitti (basti ricordare l’opposizione tedesca a Hitler che organizzò l’attentato del 20 luglio 1944, le figure di Thomas Mann e di Benedetto Croce, l’azione politica di Churchill, di De Gaulle, del governo polacco di Londra). Ma nel dopoguerra viene prevalendo la tesi che i totalitarismi di destra fossero stati sostanzialmente lo sviluppo e il pieno svolgimento della cultura conservatrice e che quindi questa meritasse di scomparire con quelli.

    Ma cosa intendo qui per “paradigma conservatore”? Riprendo per praticità la definizione proposta da uno studioso dei nostri giorni, Carlo Galli. Per lui la cultura conservatrice, la cultura di destra, si distingue da quella progressista, perché sostiene il primato dei doveri piuttosto che dei diritti (privilegiati invece dalla sinistra dei nostri giorni). Meglio ancora: sostiene il prevalere di logiche sovra-individuali (la Tradizione, lo Stato, la Nazione, la Famiglia, l’Ordine, ma anche la Chiesa) a cui l’individuo debba adeguarsi, talora, se necessario, sacrificando se stesso: in tale sacrificio consisterebbe la sua “moralità”. Per questa cultura, l’uomo è un essere sociale, inserito in una comunità che gli dà uno “status” e quasi un’identità: ecco perché la sua è una visione sostanzialmente “organicistica” della società e dei gruppi sociali.

    Ne volete un esempio, proprio all’alba del periodo che stiamo considerando? Basta leggere questo passaggio dell’enciclica di Pio XII “Mystici corporis” del 29 giugno 1943: “Inoltre, come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse. Né altrimenti l’Apostolo descrive la Chiesa, quando dice: ‘Come in un sol corpo abbiamo molte membra, e non tutte le membra hanno la stessa azione, così siamo molti un sol corpo in Cristo, e membra gli uni degli altri’ (Rom 12, 4)”. Dunque la Chiesa vi era presentata come un corpo composto “organicamente” e “gerarchicamente”.

    Nel “paradigma conservatore” era insita una visione drammatica dell’esistenza, perché scopo della vita non è la felicità. Essa è prova e combattimento, come già si legge nel libro di Giobbe (“militia est vita hominis super terram”) e in essa sono necessarie le virtù del combattente: la capacità di sacrificio, l’onore, il coraggio, l’obbedienza, la fedeltà. Da qui l’insofferenza, il disprezzo per una visione quietistica o materialistica dell’esistenza, per il grigiore borghese. Don Giuseppe De Luca, in un memorabile scritto del febbraio 1939, aveva parlato del “cristiano, come un antiborghese”.

    Una parte di questa cultura avvertiva l’esistenza di una “questione ebraica” nel mondo contemporaneo, di fronte alla quale assumeva una gamma di atteggiamenti non riducibili – come troppo spesso si dice oggi – all’ antisemitismo: ma era già significativo che avvertisse l’ebraismo, appunto, come “questione”. L’ebreo poteva essere l’emblema del “borghese”, del capitalista, dello spirito intellettualistico, del cosmopolita, del rivoluzionario senza Dio, ma anche, in qualche modo, il fratello maggiore, di cui attendere la conversione finale, in un atteggiamento di rispetto e fiducia.

    Non è un caso che – per dare un’idea di quella che ho chiamato la “cultura conservatrice” – abbia fatto ricorso a esempi tratti dalla cultura religiosa. Perché è indubbio che la Chiesa aveva avuto con quella cultura una relazione molto stretta. Essa – lo abbiamo visto – si presentava come un’istituzione gerarchica, dotata di sacralità e universalità. Sottolineava il suo carattere “militante” contro gli errori del secolo e i loro portatori. Incarnava il principio di autorità. “Il potere politico del cattolicesimo – scriveva Carl Schmitt nel 1923 – non si fonda né sui mezzi di potenza economica né su mezzi militari. Indipendentemente da questi, la Chiesa possiede quel ‘pathos’ dell’autorità nella sua piena purezza”.

    Ora tutto questo mondo concettuale, tutto questo groviglio di idee, sentimenti, antagonismi ideali, viene travolto dalla fine dei fascismi. Nell’Europa dopo il 1945 (e quasi fino ad oggi) questo sfondo culturale non è più proponibile nel mondo delle idee e della cultura e nei media che lo diffondono. La Chiesa aveva avvertito per tempo il carattere problematico di questo suo rapporto: basti pensare alla condanna della ”Action Française” da parte di Pio XI nel 1926 e alle sue conseguenze (la nascita del progressismo cattolico francese in cui emerge la figura di Jacques Maritain, ex-seguace di Charles Maurras); e ai due radiomessaggi natalizi di Pio XII del 1942 e del 1944, il primo dedicato all’”ordine interno delle nazioni”, il secondo al “problema della democrazia”. Con essi finisce ogni agnosticismo istituzionale, si constata che i totalitarismi sono interlocutori non affidabili, si indica ormai nella democrazia il regime del futuro, si insiste sulla dignità della persona umana come stella polare della visione politica cattolica.

    Per riassumere: nel nuovo contesto successivo al 1945, il lessico e l’universo concettuale a cui il mondo cattolico e il magistero erano ricorsi fino a pochi anni prima erano ormai scarsamente utilizzabili. Nel mondo del dopoguerra, nessuno era più sicuro del primato delle istanze sovraindividuali rispetto all’individuo e della logica gerarchica che tale primato comportava. Pochi erano propensi a credere che l’obbedienza, il sacrificio, l’abnegazione fossero ancora delle virtù. Questo mutamento – lo ripeto – non fu immediato: perché pienamente maturi bisogna attendere i primi anni Sessanta, con la fine della guerra fredda e il tramonto della generazione prebellica, cioè appunto gli anni del Concilio. Il mutamento del linguaggio che alcuni (come il gesuita John O’Malley) hanno individuato come una delle principali novità del Vaticano II scaturisce quindi non solo da esigenze “ab intra”, ma anche da queste profonde trasformazioni che stavano avvenendo in quel mondo a cui il Concilio voleva rivolgersi.

    3. L’affermazione della democrazia nell’Europa occidentale e la diffusione di un nuovo ethos democratico

    A tutti è nota l’importanza dell’affermazione della democrazia dopo la seconda guerra mondiale in alcuni paesi decisivi dell’Europa occidentale: in paesi che avevano una tradizione culturale e politica che le era sempre stata avversa (Germania) o nei quali esisteva una divisione storica radicale sui suoi valori (Francia).

    Significativamente i due episcopati più attivi nell’azione di rinnovamento del Vaticano II sono stati proprio quello tedesco e quello francese. Ma il discorso riguarda anche l’Italia: si pensi alla celebre disputa dell’estate 1945 fra Benedetto Croce e Ferruccio Parri. Poteva l’Italia prefascista essere considerata una democrazia? O quella democrazia che vi stava nascendo era un’assoluta novità?

    L’incontro fra la Chiesa cattolica e la democrazia fu propiziato anche dal sorgere o dal risorgere di partiti democratici cristiani nei più importanti paesi dell’Europa occidentale e dal loro divenire presto forze di maggioranza e di governo: la CDU-CSU in Germania Occidentale, il MRP in Francia, la DC in Italia; il Parti Social-Chrétien in Belgio. Sembrava la rinascita dell’Europa carolingia, a cui guardavano con grande speranza Pio XII (più freddo sull’atlantismo, dopo un primo momento di favore) e con crescente distacco la Gran Bretagna: troppi cattolici al potere! – pensavano i leader dei partiti inglesi.

    Il nuovo approccio della Chiesa fu propiziato anche da un altro elemento. Nell’ambito delle nuove democrazie, l’economia che cominciava a prosperare era prevalentemente “mista”, puntava alla costruzione di un “welfare state”, si basava sulla concertazione fra governi e forze sindacali. Era insomma il frutto del matrimonio fra liberalismo economico e democrazia sociale. E proprio questo è il modello che emerge dalla costituzione conciliare “Gaudium et spes” (65b): “Lo sviluppo economico non può essere abbandonato né al solo gioco quasi meccanico della attività economica dei singoli, né alla sola decisione della pubblica autorità. Per questo, bisogna denunciare gli errori tanto delle dottrine che, in nome di un falso concetto di libertà, si oppongono alle riforme necessarie, quanto delle dottrine che sacrificano i diritti fondamentali delle singole persone e dei gruppi all'organizzazione collettiva della produzione”.

    Ma la democrazia che stava nascendo in Europa occidentale non era soltanto un regime politico. Essa rifletteva un’inedita situazione sociale: l’avvento definitivo di una società di massa, tendenzialmente egualitaria nei costumi e nei gusti diffusi, in cui non esistevano più argini a una crescente americanizzazione dei costumi. Inevitabile la domanda: questo nuovo ethos democratico, questa incombente società di massa, quali sfide poneva alla Chiesa? a una Chiesa che si percepiva ancora essenzialmente come un’istituzione gerarchica, analoga a uno Stato monarchico assoluto, in cui i fedeli sono “sudditi”. E questo in un mondo in cui Stati di questo tipo non esistevano più o, se esistevano, venivano avvertiti come relitti del passato. Come si può pensare che questa democratizzazione della società, dei consumi e dei costumi non avesse alcun effetto sui comportamenti del popolo cattolico?

    Che le religioni sarebbero state trasformate dall’avvento della democrazia (in senso politico e sociale) era stato già previsto da alcuni geniali osservatori del XIX secolo. Alexis de Tocqueville nel 1840 (“La democrazia in America”, II, 1, cap. V e VI) aveva scorto inarrestabile, nelle società democratiche, sia la tendenza all’ecumenismo: “Mi sembra evidente che più le barriere, che separano le nazioni in seno all'umanità e i cittadini all'interno di ogni popolo, tendono a scomparire, più lo spirito umano si indirizza, come spontaneamente, verso l'idea di un essere unico e onnipotente, dispensatore imparziale delle stesse leggi a tutti gli uomini”; sia la semplificazione liturgica e la fine progressiva delle devozioni: “Un'altra verità mi sembra chiarissima, che cioè le religioni debbono essere meno sovraccariche di pratiche esteriori nei periodi democratici che non in tutti gli altri. Proprio nei secoli di democrazia è, dunque, particolarmente importante non lasciare confondere l'ossequio reso agli agenti secondari con il culto che è dovuto solo al Creatore”; sia l’antiformalismo: “Gli uomini che vivono in simili tempi [democratici] fanno fatica a sopportare le forme; i simboli appaiono loro come artifici puerili, di cui ci si serve per velare o addobbare ai loro occhi certe verità che sarebbe più naturale mostrare spoglie e in piena luce; restano freddi alla vista di cerimonie e sono inclini per natura a non attribuire che un'importanza secondaria ai particolari del culto. […] Una religione che diventasse più minuziosa, più inflessibile e più oberata di piccoli obblighi di osservanza, nel momento in cui gli uomini diventano uguali, si troverebbe presto ridotta a una schiera di ferventi zelatori in mezzo ad una moltitudine di increduli”.

    È autoevidente che la nuova sensibilità democratica ponesse qualche problema anche all’uso generalizzato della lingua latina nella liturgia cattolica. Essa – lo si ripeté molte volte in Concilio – era un elemento “occidentale” in una Chiesa che non voleva più presentarsi come legata intrinsecamente all’Occidente (specie nei paesi ex-coloniali); e inoltre era una lingua che escludeva gran parte dei fedeli dalla partecipazione all’azione liturgica e dalla sua piena comprensione. So bene che l’adozione delle lingue nazionali scaturiva da un movimento di lunga data come quello liturgico, che tanta attenzione aveva suscitato nel mondo cattolico e trovato udienza anche nella gerarchia. Ma essa rispose anche allo “Zeitgeist” del secondo Novecento. Un grande pedagogista italiano, già nel 1885, aveva posto il problema nei suoi termini essenziali: parlo di Aristide Gabelli, studioso democratico e laicissimo. Dopo aver constatato che “soffiava in tutti i paesi colti, con maggiore o minor violenza, un vento contrario all’istruzione classica” e che tale vento spirava da circa cento anni, dai tempi della rivoluzione francese, egli cercava di rinvenire “la ragione ultima del malessere e dell’inquietudine” e la rinveniva proprio in questo: “L’indole dell’istruzione classica non si accorda con quella del tempo. L’istruzione classica è di sua natura aristocratica, e il tempo è democratico. Può non piacere udirlo, perché alla democrazia non garba molto essere chiamata col suo nome, ma è questa la verità. L’istruzione classica è per la sostanza, per la forma, per l’intento, in contraddizione con le inclinazioni della democrazia”.

    Ma il nuovo ethos democratico, che stava penetrando nel mondo cattolico e in cospicui settori della gerarchia, oltre che verso un rinnovamento della liturgia, rendeva sensibili a una serie di esigenze che trovarono ampia voce nel Vaticano II.

    Il tema della collegialità (si veda la “Lumen gentium”) aveva certo una lunga storia, ma si pensi alla nuova esigenza di garantismo all’interno dell’istituzione ecclesiastica e alle forti critiche alle procedure del Sant’Uffizio (erano ancora vivi i ricordi delle persecuzioni contro i modernisti e la storiografia li stava rinfrescando). Memorabile in merito fu lo scontro dell’8 novembre 1963 fra il cardinale di Colonia Josef Frings e il cardinale di curia Alfredo Ottaviani, in cui Frings affermò significativamente che la procedura del Sant’Uffizio “non si addice più alla nostra epoca, nuoce alla Chiesa ed è oggetto di scandalo per molti. […] Nessuno dovrebbe essere giudicato e condannato senza essere ascoltato e senza avere avuto la possibilità di correggere la sua opera e la sua azione”. E tutti sanno che il 6 dicembre 1965 fu decisa l’abolizione dell’Indice dei libri proibiti e la trasformazione del Sant’Uffizio in Congregazione per la dottrina della fede.

    Ma anche il “pluralismo” in qualche modo si imponeva: all’interno degli Stati, ma sotto certe forme anche nella Chiesa. Da qui il grande tema della libertà religiosa, sul quale fu massiccio l’impegno dell’episcopato americano, che avrebbe voluto l’affermazione del binomio: libertà religiosa e separatismo. Mi sembra di capire che il tema della libertà religiosa sia ancor oggi un “punctum dolens” per i critici radicali del Vaticano II. Mi sforzo di comprendere la loro difficoltà di fronte alla rottura con la dottrina precedente e con la prassi politica che essa implicava (appoggio dello Stato, prassi concordataria), così come il loro timore che la libertà religiosa significhi in qualche modo un indifferentismo di fondo. Ma non capisco che tipo di Stato essi hanno in mente: quello confessionale? Come si fa a negare all’uomo contemporaneo la libertà religiosa? O a essere tiepidi su tale problema, mentre essa viene conculcata in tante parti del mondo?

    Paolo VI lo capiva benissimo ed è noto il suo impegno in merito. Quel papa avvertiva il tema della libertà religiosa come fondamentale proprio per mantenere un ponte con la contemporaneità: il suo principale consigliere teologico, il vescovo Carlo Colombo, intervenendo in aula nell’ottobre 1964, affermò che la dichiarazione sulla libertà religiosa era “della più alta importanza”, soprattutto perché gli uomini di cultura avrebbero visto in essa una chiave del dialogo tra la dottrina cattolica e la mentalità moderna: “Per noi, in Italia – disse Colombo –, è il punto saliente di un possibile dialogo o di un insanabile dissidio tra la dottrina cattolica e il modo di sentire dell’uomo contemporaneo”. E l’anno successivo, mentre si apprestava a partire per New York, Paolo VI mostrò al vescovo belga De Smedt (uno dei padri della “Dignitatis humanae”) tutta la sua soddisfazione sul testo, aggiungendo: “Questo documento è capitale. Fissa l’atteggiamento della Chiesa per parecchi secoli. Il mondo l’attende”.

    “Il mondo l’attende”: anche qui emergeva il bisogno di un atteggiamento dialogico con l’uomo contemporaneo. Era il 1960, quindi ancor prima del Vaticano II, quando il teologo gesuita americano Gustave Weigel osservò che la parola “dialogo” appariva talmente spesso su giornali e riviste che cominciava a sembrare uno “slogan e un luogo comune”. Il principio dialogico rispondeva all’ethos democratico che stava pervadendo la società occidentale: su di esso si era esercitata la stessa riflessione filosofica dei decenni precedenti, dall’ebreo Martin Buber negli anni Venti al cattolico Hans Urs von Balthasar, ma bisogna ricordare anche l’italiano e ultralaico Guido Calogero. Il principio del dialogo, del “colloquium”, è al centro – com’è noto – della prima enciclica di Paolo VI, pubblicata il 6 agosto 1964, “Ecclesiam suam”, in cui la parola dialogo compare ben 57 volte: “Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli”.

    Forse però la dichiarazione più attesa dal mondo di quei primi anni Sessanta fu quella sul rapporto fra la Chiesa e il mondo ebraico, la “Nostra aetate”. La dichiarazione sugli ebrei divenne il centro dell’attenzione dei giornali e dell’opinione pubblica come nessun altro documento del Concilio. Sappiamo quasi tutto della sua genesi (il rapporto di Roncalli con gli ebrei, il suo incontro del 1960 con Jules Isaac, etc.), ma anche in questa vicenda è doveroso rinviare al contesto.

    Intorno al 1960 la memoria della Shoah, che a lungo non era stata approfondita, acquista una crescente centralità nell’opinione pubblica: fu determinante in tal senso la vicenda di Adolf Eichmann, rapito nel 1960, processato nel 1961, impiccato pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962. Sembra una riflessione sul suo caso l’affermazione della “Gaudium et spes” (79b): “Le azioni pertanto che deliberatamente si oppongono a quei principi e gli ordini che comandano tali azioni sono crimini, né l'ubbidienza cieca può scusare coloro che li eseguono. Tra queste azioni vanno innanzi tutto annoverati i metodi sistematici di sterminio di un intero popolo, di una nazione o di una minoranza etnica; orrendo delitto che va condannato con estremo rigore. Deve invece essere sostenuto il coraggio di coloro che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali misfatti”. Il Concilio si era aperto da qualche mese, quando fu messo in scena a Berlino, il 20 febbraio 1963, “Der Stellvertetrer” di Rolf Hochhuth, che, popolarizzando la “leggenda nera” di Pio XII, contribuì a mutare radicalmente l’opinione prevalente sul ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel Novecento.

    4. Il problema del comunismo

    Com’è noto, il Vaticano II non rinnovò la condanna del comunismo, che datava almeno dalla “Divini Redemptoris” del 1937. Nella “Gaudium et spes”, che trattava dei rapporti fra la Chiesa e il mondo, il Concilio sostanzialmente ne tacque: sia come regime politico (in anni in cui su una popolazione mondiale di tre miliardi di persone oltre la metà gravitava nel blocco dei Paesi comunisti, dove vivevano oltre cento milioni di cattolici, quasi un sesto dei 570 milioni sparsi nel globo), sia come ideologia, in quegli anni estremamente pervasiva nella politica e nella cultura di ogni parte del mondo. Nei “vota” dei vescovi nella fase preparatoria del Concilio, una tale condanna era stata ripetutamente richiesta: anzi alcuni la consideravano lo scopo fondamentale dell’imminente assemblea. Nell’ultima sessione 454 padri presentarono un emendamento in tal senso alla “Gaudium et spes” che non venne preso in considerazione, forse attraverso un’irregolarità regolamentare. Il silenzio fu di tale rilievo – scrive Andrea Riccardi – “da accreditare la voce di un esplicito accordo tra il Patriarcato di Mosca e la Santa Sede”.

    Si è discusso a lungo e ancora si discuterà se un tale accordo ci sia stato, ma non è qui il caso di riaprire la questione, come di esaminare i modi in cui il discorso sul comunismo si snodò in quegli anni nei documenti pontifici: dalla “Pacem in terris” di Giovanni XXIII dell’11 aprile 1963 (distinzione fra errore ed errante; distinzione fra ideologia e movimenti storici; possibilità di un avvicinamento pratico) alla “Ecclesiam suam” di Paolo VI del 6 agosto 1964, in cui, dopo aver ribadito la condanna, ma con un’argomentazione indiretta (“Si potrebbe dire che non tanto da parte nostra viene la loro condanna, quanto da parte dei sistemi stessi e dei regimi che li personificano viene a noi radicale opposizione di idee e oppressione di fatti. La nostra deplorazione è, in realtà, lamento di vittime ancor più che sentenza di giudici”), si esprimeva la speranza in un futuro dialogo: “Noi non disperiamo che essi possano aprire un giorno con la Chiesa altro positivo colloquio, che non quello presente della nostra deplorazione e del nostro obbligato lamento”.

    Sappiamo ormai molto di come si sviluppò la politica di Giovanni XXIII verso l’URSS e il mondo comunista e del ruolo che vi svolsero gli interlocutori italiani: l’ambiente che ruotava intorno al democristiano Amintore Fanfani e al suo neo-atlantismo e i referenti cattolici vicino al Partito comunista italiano e al suo leader Palmiro Togliatti (da don Giuseppe De Luca a Franco Rodano). Da questo punto di vista è di grande rilievo la conferenza che Togliatti tenne il 20 marzo 1963 al Teatro Duse di Bergamo, su “Il destino dell’uomo”.

    Il segretario comunista entrò esplicitamente nel dibattito conciliare. Innanzitutto prospettò in modo nuovo il rapporto fra cattolici e comunisti: “Noi non accettiamo più – disse – la concezione, ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali [della coscienza religiosa]. Questa concezione, derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’ottocento, non ha retto alla prova della storia. Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà e più complessa”.

    Poi riprese alcuni temi che erano cari al mondo cattolico e alla diplomazia pontificia: la necessità della pace e la critica all’equilibrio del terrore. Sono interessanti le conseguenze politiche che Togliatti ne faceva scaturire: “il rifiuto di partecipazione del nostro paese a qualsiasi sorta di armamento atomico, la esplicita condanna della politica fondata sul famigerato equilibrio del terrore, e così via…”.

    Infine sottolineò con compiacimento il fallimento dell’anticomunismo:. L’impegno anticomunista della Chiesa di Pio XII – disse – era stata l’ultima manifestazione della cosiddetta “età di Costantino”, cioè dell’alleanza tra il potere spirituale e quello temporale. Qui Togliatti faceva un riferimento esplicito al celebre articolo del teologo domenicano Marie-Dominique Chenu apparso nel 1961: uno dei testi base per comprendere le motivazioni della maggioranza conciliare. E polemizzava duramente col capo della minoranza, il cardinale Ottaviani, che perseverava nel suo anticomunismo: “Il suo – dichiarò il leader comunista – è il discorso di uno sconfitto. Non è infatti vero che il cardinale Ottaviani è colui che, avendo elaborato i documenti preparatori del recente Concilio ecumenico secondo un certo indirizzo, venne battuto dal Concilio stesso, perché le sue impostazioni di politica ecclesiastica furono clamorosamente respinte dalla maggioranza dei padri conciliari? Ed egli si è battuto, se non andiamo errati, proprio perché sembra esservi stata, nella maggioranza, una sollecitudine alla ricerca di posizioni che si adeguino alle nuove realtà del mondo di oggi”. Il fondamentale problema del Concilio era a suo giudizio quello di superare “l’identificazione tra mondo occidentale e mondo cattolico”, che “fa perdere alla stessa Chiesa il suo carattere universale, ecumenico”.

    Per Togliatti questo superamento significava soprattutto la presa d’atto che esisteva nel mondo una “nuova molteplice articolazione dei sistemi sociali e del sistema degli Stati”, in pratica un vasto campo di paesi socialisti con cui la Chiesa doveva fare i conti. Non c’era da temere: “Oggi nell’Unione Sovietica non si parla più di dittatura, ma di Stato di tutto il popolo” e la stessa esperienza dei comunisti italiani mostrava che era possibile coniugare democrazia e socialismo: “Le campagne menzognere si sfaldano, cadono a pezzi. Chi viaggia nei paesi della famosa ‘Chiesa del silenzio’ trova che le chiese vi sono, talora più affollate che da noi”. Togliatti percepiva che il Concilio stava segnando la fine dell’anticomunismo cattolico e individuava alcuni temi che potevano formare il quadro per un dialogo fra comunisti e cattolici: la fine dell’occidentalismo, il problema della pace, l’opposizione ai blocchi, la critica della deterrenza nucleare.

    Questo era il comunismo con cui i vertici vaticani avevano una contiguità ambientale: oggi gli storici sanno che, per ironia della sorte la persecuzione delle Chiese e delle comunità cristiane in URSS si accrebbe nei primi anni Sessanta, proprio quando si stava avviando il nuovo corso vaticano rispetto al comunismo. Secondo la testimonianza di suo genero Alexei Adjubei, il leader sovietico Nikita Kruscev non aveva una sensibilità particolare per le questioni religiose, anzi si può dire consentisse intimamente con l'atteggiamento antireligioso del partito: la distensione con il Vaticano non rappresentava che un tassello di una questione ben più ampia di relazioni internazionali.

    Credo si possa dire che il problema del comunismo è quello su cui le scelte del Vaticano II siano state più condizionate dalle contingenze storiche e la dinamica storica successiva abbia corrisposto di meno alle sue aspettative. Nei primi anni Sessanta, il socialismo reale in Europa era già in fase di declino: la maggior parte degli storici giudica il 1956, l’anno del XX congresso e dell’invasione dell’Ungheria, come il giro di boa, l’inizio della parabola discendente che nel giro di un trentennio avrebbe portato alla caduta del muro di Berlino e alla fine dell’URSS. Ma allora pochi percepivano questa situazione. Ciò che colpiva era invece l’aspetto dinamico del riformismo krusceviano: il carattere meno oppressivo della censura, le caute riforme economiche, i successi nel campo della missilistica e delle prime esplorazioni spaziali. Soprattutto Kruscev abbandonò la vecchia tesi di Stalin sull’inevitabilità della guerra fra capitalismo e comunismo e lanciò l’idea della “coesistenza” e della “competizione” pacifica. E anche lui si diceva contrario (perché intuiva che l’URSS non avrebbe potuto competere alla lunga con una politica di riarmo americana) a quello che Togliatti chiamava il “famigerato equilibrio del terrore” e nel maggio del 1958, con un’abile mossa propagandistica, aveva annunciato addirittura una moratoria unilaterale dei test nucleari nell’atmosfera. Mentre l’equilibrio del terrore era invece il fulcro della politica americana: solo guerra nucleare, quindi nessuna guerra.

    Su quest’ultima strategia decisa era la condanna della “Gaudium et spes” (81): “Poiché infatti si ritiene che la solidità della difesa di ciascuna parte dipenda dalla possibilità fulminea di rappresaglie, questo ammassamento di armi, che va aumentando di anno in anno, serve, in maniera certo paradossale, a dissuadere eventuali avversari dal compiere atti di guerra. E questo è ritenuto da molti il mezzo più efficace per assicurare oggi una certa pace tra le nazioni. Qualunque cosa si debba pensare di questo metodo dissuasivo, si convincano gli uomini che la corsa agli armamenti, alla quale si rivolgono molte nazioni, non è una via sicura per conservare saldamente la pace, né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile”. Si trattava, quindi, di una posizione oggettivamente anti-americana.

    Nelle posizioni del Vaticano II sul comunismo emerge un elemento di Realpolitik, che continuerà anche dopo la caduta di Kruscev nel clima soffocante dell’era Breznev. una Realpolitik analoga a quella di Henry Kissinger dei primi anni Settanta. La diplomazia non deve immaginare un mondo diverso, ma fare i conti col mondo com’è (o come le sembra che sia): la sua vocazione è trattare sempre e comunque e arrivare a un qualche accordo. Nei vertici vaticani, ma direi nella maggioranza del mondo cattolico conciliare e post-conciliare, era diffusa la certezza che il comunismo in Europa avrebbe sfidato il secolo. Anzi, v’era forse qualcosa di più: la convinzione che il mondo andasse verso quella direzione e che bisognasse quindi inserirsi in quel trend per “cristianizzarlo”. Ci voleva un papa polacco perché nel giro di pochi anni la situazione mutasse radicalmente.

    5. Una prima conclusione

    Si è detto e ripetuto che, col Vaticano II, la Chiesa cattolica abbia cercato un incontro, un dialogo con la modernità. È da notare – sia detto per inciso – come la parola “modernità” non esista nei documenti conciliari. Essi utilizzano cinque volte l’aggettivo “moderno” (tre volte nella “Gaudium et spes” e due volte nel decreto “Ad gentes”): ma usiamo per una volta questo vocabolo oggi di gran moda.

    Possiamo allora dire che quella fin qui descritta, sia pure in modo molto sommario, era la modernità con cui la Chiesa cercò di fare i conti nel Concilio. Li faceva con quelle che qualche anno dopo si sarebbero chiamate le “grandi narrazioni ideologiche ottocentesche”: quella liberaldemocratica e quella marxista. Giovanni XXIII e la maggioranza conciliare avevano sperato che l’atteggiamento dialogico, la ricerca dell’incontro col mondo in tutte le sue articolazioni avrebbe riaperto un’interlocuzione che era venuta a mancare. A una Chiesa che si mostrava più “mater” che “magistra”, che esortava senza condannare, che non escludeva nessuno, il mondo contemporaneo sarebbe tornato a rivolgersi fiducioso e benevolo.

    Ma le cose sono andate diversamente:. Proprio dagli anni del Concilio è iniziato un processo di scristianizzazione delle società occidentali, specie europee, che le sta trasformando in società post-cristiane. In una prossima occasione cercherò di individuarne sommariamente le ragioni

    Storicizzare il Concilio Vaticano II. Ecco come il mondo di quegli anni influì sulla Chiesa - Settimo Cielo - Blog - L?Espresso
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    Predefinito Re: Storicizzare il Concilio Vaticano II

    Pubblicata anche la seconda parte:

    Le attese del Concilio contraddette dalla storia. I perché dell’eclissi della fede cristiana

    (s.m.) Perché le aspettative di un grande Concilio come il Vaticano II, che programmaticamente voleva “aprire al mondo”, sono state così spietatamente contraddette da ciò che poi è accaduto, con l’ondata di scristianizzazione che ha invaso le società occidentali?

    È questo l’interrogativo al quale prova a rispondere il professor Roberto Pertici, in questa seconda affascinante puntata della sua analisi del Concilio e del post-concilio, nel contesto della storia del mondo di questi ultimi decenni.

    Pertici è docente di storia contemporanea all’università di Bergamo e specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa.

    IL POST-CONCILIO E I “GRANDI BALZI IN AVANTI” DELLA MODERNITÀ

    di Roberto Pertici

    1. Una rivoluzione non prevista

    In un recente intervento su Settimo Cielo, ho cercato di indicare, sia pure in modo molto sommario, la modernità con cui la Chiesa cercò di fare i conti nel Concilio Vaticano II. Li faceva – scrivevo – con le “grandi narrazioni ideologiche ottocentesche” uscite vittoriose dalla seconda guerra mondiale: quella liberaldemocratica e quella marxista.

    Ho sottolineato il grande ottimismo che aveva circondato i lavori conciliari e la loro conclusione. Giovanni XXIII e Paolo VI, con la maggioranza dei vescovi, speravano che l’atteggiamento dialogico, la ricerca dell’incontro col mondo in tutte le sue articolazioni avrebbe riaperto un’interlocuzione che era venuta a mancare. A una Chiesa che si mostrava più “mater” che “magistra”, che esortava senza condannare, che non escludeva nessuno, il mondo contemporaneo sarebbe tornato a rivolgersi fiducioso e benevolo.

    Non sono passati ancora sessant’anni e non è difficile constatare che le cose sono andate diversamente. Proprio dagli anni del Concilio è iniziato un processo di scristianizzazione delle società occidentali, specie europee, che le sta trasformando in società post-cristiane. Perché? Il problema è ovviamente enorme: cercherò di affrontarlo in modo estremamente schematico, tanto per far emergere alcune riflessioni.

    Ho scritto consapevolmente “dagli anni del Concilio” e non “a causa del Concilio”, perché anche in questo problema bisogna evitare il sofisma del “post hoc, ergo propter hoc”. Non che il Concilio – come cercherò di mostrare – non abbia inciso, ma quel processo si sarebbe svolto ugualmente, sia pure con forme e ritmi diversi che non è facile ipotizzare, anche se il Concilio non ci fosse stato o avesse preso un andamento diverso. Perché – questo è il problema veramente decisivo – proprio negli anni in cui il Concilio si stava svolgendo, la modernità faceva un grande balzo in avanti, che creava una situazione per molti aspetti completamente nuova rispetto a quella che l’assemblea dei vescovi aveva esaminata e rispetto alla quale stava prendendo posizione.

    Nella seconda metà degli anni Sessanta cominciavano a emergere i grandi mutamenti culturali indotti dal travolgente sviluppo economico-sociale in atto dal 1950 e che sarebbe durato fino al 1973 con l’inizio della crisi petrolifera. Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm chiama questo venticinquennio “the golden Age”, l’economista francese Jean Fourastié – l’ho già ricordato – “les trente glorieuses” (per lui l’inizio era il 1945). Per l’80 per cento dell’umanità – afferma Hobsbawm – il Medio Evo finì di colpo negli anni Cinquanta, o meglio se ne avvertì la fine nel decennio successivo. Si trattò di un fenomeno mondiale: si ebbe una fase di crescita anche nel blocco sovietico e in quello che allora si chiamava il “terzo mondo”, con un aumento spettacolare della popolazione e delle aspettative di vita.

    La costituzione conciliare “Gaudium et spes” avverte che qualcosa di gigantesco sta accadendo. La parte introduttiva, sotto il titolo “La condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo”, lo scrive a chiare lettere: “L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa”.

    Sono da rileggere in questa prospettiva i paragrafi: “Profonde mutazioni”; “Mutamenti sociali”; “Mutamenti psicologici, morali e religiosi”; “Squilibri nel mondo contemporaneo”. Ma quel documento non può rendersi conto fino in fondo – né lo storico può esigerlo – di quanto stava accadendo. Accenniamo solo ad alcuni processi:

    1) la fine del mondo rurale, l’estinzione della classe contadina in Occidente e il suo declino anche nei paesi arretrati;

    2) le grandi migrazioni interne e internazionali;

    3) l’estesa urbanizzazione e la nascita delle megalopoli;

    4) lo sviluppo dell’istruzione media e superiore e l’esplosione degli iscritti all’università;

    5) il nuovo protagonismo delle donne, derivante dal forte aumento della componente femminile nella popolazione universitaria e dall’ingresso delle donne sposate nel mercato del lavoro: negli Stati Uniti erano il 14 per cento nel 1940, nel 1980 il 50 per cento.

    Insomma: erano in via di dissoluzione tutta una serie di situazioni in cui la presenza cattolica era tradizionalmente egemonica, anche se era già stata scossa dalla precedente industrializzazione e dai suoi effetti socio-culturali.

    Sono le donne e i giovani i veri protagonisti di questa rivoluzione culturale. I “baby-boomers”, nel nuovo benessere che vivono le loro famiglie, invadono i licei e le università fino ad allora popolate dai rampolli delle élite e ne sconvolgono le strutture. L’istruzione di massa crea un gap culturale fra genitori e figli: in poco tempo si forma un’enorme distanza storica che separa le generazioni nate prima del 1925 da quelle nate dopo il 1950. In un mondo che ormai si è messo alle spalle il “paradigma conservatore”, la loro politicizzazione non può avvenire che a sinistra, perché non dispongono di un altro vocabolario e di un’altra forma di antagonismo, anche se il loro è un marxismo spurio rispetto a quello della vulgata comunista.

    Negli stessi anni esplode un nuovo femminismo, assai più radicale di quello tipico della tradizione socialista, che era basato tradizionalmente sulla rivendicazione di diritti sociali e politici.

    Quello femminile e quello giovanile sono due universi a cui la “Gaudium et spes” dedica solo cenni molto generici e scontati, eppure sono proprio loro i vettori della trasformazione. Emergono vasti movimenti di massa, il cui elemento unificante e caratterizzante è il prepotente riemergere della “cultura della rivoluzione” o della “passione rivoluzionaria” (uso un’espressione di François Furet): dell’idea, cioè, che l’unico modo veramente decisivo e risolutivo di mutamento politico-sociale sia quello che rompe radicalmente col passato. Ma molti storici oggi propendono a credere che l’effetto più duraturo di quei movimenti sia un altro: una “rivoluzione individualistica”, che proclama la superiorità assoluta del soggetto rispetto a ogni vincolo sociale di qualsiasi natura: familiare, nazionale, di classe.

    Hobsbawm osserva che il significato più rilevante di questi mutamenti fu che, implicitamente o esplicitamente, essi rifiutavano l’ordine delle relazioni umane stabilito da una lunga tradizione storica e sanzionato dalle convenzioni e dalle proibizioni sociali. Per cui la rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta può essere intesa come il trionfo dell’individuo sulla società o piuttosto come la rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto sociale. “Il vecchio vocabolario morale dei diritti e dei doveri, – scrive Hobsbawm – delle obbligazioni reciproche, del peccato e della virtù, del sacrificio, della coscienza, dei premi e delle pene, non poteva più essere tradotto nel nuovo linguaggio della gratificazione immediata dei desideri”. E aggiunge: “Le istituzioni più duramente colpite dal nuovo individualismo morale furono in Occidente la famiglia tradizionale e le Chiese tradizionali, le quali conobbero un tracollo vistoso nell’ultimo terzo di secolo. Il cemento che aveva tenuto compatte le comunità dei cattolici romani si sbriciolò con velocità stupefacente”. E ora cominciamo a capire perché.

    2. La società radicale

    Le statistiche che già allora furono raccolte e studiate forniscono dati impressionanti. Limitiamoci all’Italia: se nel 1956 ancora il 69 per cento degli italiani andava regolarmente a messa la domenica, già nel 1962 la percentuale si era ridotta al 53 per cento, per arrivare nel 1968 al 40 per cento. A ciò si aggiunga il radicale assottigliamento delle tradizionali organizzazioni cattoliche, specialmente dell’Azione Cattolica, che nel 1955 contava oltre 3 milioni e mezzo di aderenti, scesi nel 1973 a 816 mila; la crisi delle vocazioni e l’abbandono diffuso del sacerdozio, specie negli anni dopo il 1965; l’analoga contrazione delle vocazioni femminili; il calo dei battesimi e la minore partecipazione ai sacramenti. Si assiste, insomma, a una generale emancipazione della società civile da quella religiosa: anche chi resta all’interno di un orizzonte religioso tende ormai a privatizzare la propria fede, a viverla nell’intimità, senza riconoscerle un qualche ruolo pubblico.

    Emergeva quella che Gianni Baget Bozzo ha chiamato la “società radicale”: un avvento – questo va sottolineato – non previsto dal Concilio, che pone una serie di sfide inedite.

    Il nuovo individualismo di massa aveva poco a che spartire con quello del liberalismo tradizionale e dell’utilitarismo classico. Si trattava di un individualismo liberato dal concetto di razionalità e da quello di natura, che si identificava piuttosto in una “cultura del bisogno” che stentava a riconoscersi soggetta a una qualsiasi norma. In tale cultura, il sesso, forse il più complesso dei bisogni umani, acquistava una centralità per l’innanzi sconosciuta: l’atteggiamento nei suoi confronti diventava il metro abituale per giudicare il carattere più o meno “progressivo” di movimenti e istituzioni.

    Si assisteva al tramonto del modello morale cristiano che era sopravvissuto alla secolarizzazione culturale e filosofica dei secoli XVIII e XIX, i cui maggiori esponenti si erano – per alcuni aspetti – proposti proprio di conservarlo e riformularlo in un mondo che non conosceva più l’egemonia del cristianesimo. Il disciplinamento della sessualità tramite la famiglia monogamica ne era stato uno delle componenti fondamentali: esso era sostanzialmente sopravvissuto anche alla fine del regime di “cristianità”, alla sua possibilità di influenzare legislazione e vita politica, ma ora entrava inesorabilmente in crisi.

    Si comprende la portata di una tale sfida alla Chiesa cattolica, che per la prima volta vide vacillare i propri canoni etici all’interno dello stesso “popolo di Dio” e del variegato mondo della ricerca teologica. La sessualità, la contraccezione, i problemi del divorzio e dell’aborto, la condizione omosessuale, la donna e la questione femminista, la situazione del sacerdote e il celibato ecclesiastico, furono i problemi con cui la Chiesa si dovette confrontare in quegli anni e successivamente, fino ai giorni nostri, di fronte a contestazioni pubbliche di settori dello stesso episcopato e a un’inquietudine teologica senza precedenti. Perché la secolarizzazione dispiegata produceva un buco nero fra le regole di vita e di moralità della Chiesa e la realtà della condotta pubblica e privata del tardo ventesimo secolo

    La fine del regime di “cristianità”, che molti cattolici conciliari avevano auspicato, avveniva in modi dirompenti e imprevisti, che ponevano interrogativi anche a coloro che l’avevano invocata: così a un grande storico cattolico come Pietro Scoppola, che condensava le sue riflessioni in un prezioso volumetto del 1985 intitolato significativamente “La ‘nuova cristianità’ perduta”.

    3. L’impatto del Concilio

    Questi processi occupano buona parte degli anni Sessanta e Settanta, grosso modo il pontificato di Paolo VI. Nel mondo cattolico, sul cambiamento epocale che stava trasformando la società, si innestò anche il mutamento ecclesiale: fra i due processi, distinti fra loro per origine e dinamiche, si attuò come un intreccio che produsse un effetto moltiplicatore. Nel senso che il mutamento ecclesiale divenne uno dei fattori, dei simboli potremmo dire, di quello complessivo. E viceversa questo accelerò e in qualche modo ingigantì la portata di quello.

    Di per sé il Vaticano II seguiva una logica “riformatrice” largamente diffusa in quei primi anni Sessanta. Tutti sanno che, se la ricostruzione post-bellica fu guidata da governi conservatori moderati, spesso da uomini nati ancora nel XIX secolo, i primi anni Sessanta furono il momento dei “riformisti”, a partire dalla presidenza Kennedy, dalle socialdemocrazie al potere nei paesi scandinavi, dalla vittoria del laburista Wilson in Gran Bretagna nel 1964, fino al lento crepuscolo dell’egemonia democristiana in Germania che porterà al potere Willy Brandt nel 1969. In Grecia finisce l’era Karamanlis, uomo di centro-destra, e nel 1963 sale al potere il democratico Georgios Papandreou. In Italia è l’ora del centro-sinistra, alla fine “sdoganato” dalla Chiesa di Giovanni XXIII. Sembra, insomma, aprirsi un’era generale di aperture politiche e di riforme.

    Ma è anche noto che questo processo riformatore si arenò o comunque non corrispose alle aspettative diffuse, che invece andavano sempre più alzando il tiro: si pensi al tramonto tragico del kennedysmo o alle difficoltà del primo centro-sinistra in Italia. Per cui si ha il paradosso che nei paesi in cui l’apertura politica era stata maggiore – si pensi agli Stati Uniti, alla Germania, ma anche all’Italia – maggiore fu anche la radicalizzazione degli anni successivi al 1965. Il primo annuncio della mutazione è, forse, la rivolta studentesca di Berkeley alla fine del 1964.

    Ora, con la necessaria prudenza, avendo a che fare con un’istituzione così particolare come la Chiesa cattolica, non è improprio tentare una comparazione fra queste dinamiche “mondane” e quelle della Chiesa fra Concilio e post-concilio. L’innesto di un processo riformatore in una “società chiusa” (definizione tecnica, non giudizio di valore), che ha fatto della sua immutabilità e della sua “perfezione” (“societas perfecta”) i suoi tratti distintivi, che si basa su una serie di credenze organicamente coese e impone comportamenti ad esse coerenti, può avere effetti diversi.

    Da un lato può indurre a spostare sempre in avanti il livello della riforma, affermando che essa non è mai completa, anzi deve essere rilanciata continuamente, perché continuamente i tempi mutano, e a lungo andare le inevitabili lentezze della storia possono spingere i sostenitori di questo continuo cambiamento prima alla dissidenza e poi alla fuoriuscita. Possiamo chiamare questa posizione, molto nota agli studiosi dei movimenti rivoluzionari, come rivoluzione permanente: in questa prospettiva, bisogna sempre assecondare il “dérapage” del mutamento, rilanciandone continuamente il livello.

    Ma si può presentare anche un’altra reazione, che potremmo chiamare del disincanto. Non si può operare una “smentita” formale della fede creduta e vissuta da generazioni e generazioni, ridimensionare credenze e prassi fino a poco prima presentate come vincolanti, senza introdurre un “vulnus” irreparabile nell’autorappresentazione e nella percezione diffusa di un’istituzione. È vero: le credenze di fondo restano, si tratta solo di cambiamenti presentati come accessori, ma per molti la fede vissuta era nutrita proprio di quegli aspetti che ora vengono mandati in soffitta. Non voglio fare un paragone irrispettoso: ma a ben vedere, il comunismo europeo non si è più ripreso dopo la fine del mito di Stalin, perché per molti il comunismo era proprio quello: “E ora ci venite a dire – pensavano e dicevano molti militanti comunisti degli anni Cinquanta – che avevano ragione quelli contro cui abbiamo lottato per decenni!”.

    Per queste istituzioni “chiuse” in via di cambiamento – e il cambiamento è spesso necessario e indifferibile – il vero problema è a un certo punto quello di “porre fine alla rivoluzione”, se non vogliono completamente snaturarsi o finire. Lo avvertivano già Benjamin Constant e la sua amica Madame de Staël fra il 1795 e il 1796, a proposito della necessità di preservare i risultati della rivoluzione francese, senza cedere a impossibili reazioni, ma nemmeno continuando in mutamenti continui e in nuove fratture. Impresa tutt’altro che facile, perché spesso la logica e la forza delle cose prende il sopravvento: basti pensare all’esito del riformismo gorbacioviano nell’URSS degli anni Ottanta del secolo XX.

    Non si allarmino i lettori per questi riferimenti “mondani” mentre si sta ragionando della Chiesa del secondo Novecento: perché – se usati con prudenza – forse possono aiutarci a capire alcune dinamiche del post-Concilio.

    4. La rivoluzione permanente

    Per una parte del mondo cattolico, al di là delle sue pur rilevantissime decisioni, il Vaticano II divenne un grande mito collettivo, carico di ottimismo contro i “profeti di sventura” che avevano sempre condannato il mondo moderno, di contestazione “dal basso” della gerarchia e di aspirazioni a un diffuso rinnovamento. La critica della Chiesa “costantiniana”, l’opposizione a ogni contaminazione mondana del fenomeno religioso e di ogni compromesso col potere, ne furono temi costanti: questo nuovo cattolicesimo post-conciliare venne quindi smarcandosi dalla gerarchia, dilatando con forza alcuni temi presenti nei testi conciliari.

    A costoro poco importava che quei testi non consentissero esiti così radicali. Il Concilio contava come “evento”, il cui “spirito” autorizzava i più audaci sviluppi. Questo fu il comune denominatore della contestazione cattolica che si sviluppò nella seconda metà degli anni Sessanta le cui vicende, in Italia e fuori, sono troppo note perché si debba qui parlarne. Quanti di quei giovani e meno giovani, chierici e laici, uomini e donne, delusi dalla “svolta” di Paolo VI dopo il primo lustro di pontificato, abbandonarono le organizzazioni cattoliche, lasciarono le parrocchie, presero insomma altre vie, spesso di natura essenzialmente politica? Quanti si trasformarono in cattolici “in sonno”, magari pronti a tornare alla comunione ecclesiale quando se ne fosse presentata l’opportunità per il successo delle loro posizioni?

    Una parte della diaspora cattolica di quegli anni ha questa radice. Ma conviene guardare anche da un’altra parte.

    5. La logica del disincanto

    Ci dà molti elementi in merito un libro del sociologo Guillaume Cuchet uscito in Francia nel 2018, che ha un titolo eloquente: “Comment notre monde a cessé d’être chrétien. Anatomie d’une effondrement”. Basandosi su un gran numero di dati e di indagini già pubblicate, Cuchet rileva il crollo della pratica religiosa e il tramonto del “sentire cattolico” anche nella Francia profonda a partire dagli anni Sessanta, con un andamento precipitoso proprio dal 1965, l’anno in cui il Concilio si chiude. Sullo sfondo della sua analisi c’è il mutamento socio-culturale di quel decennio, al quale anch’io ho prima accennato: ma nel mondo cattolico esiste uno specifico elemento scatenante, che è appunto il Concilio. La questione che si pone allora è di precisare ciò che nell’evento Concilio ha potuto provocare questa rottura della pratica religiosa dopo il 1965. A questo livello, evidentemente, le enunciazioni teologiche più o meno innovative hanno scarso impatto. È su altri aspetti che si deve dirigere l’attenzione.

    Per capirci qualcosa, Guchet ricorre a un importante testo del 1976 del canonico Ferdinand Boulard, uno dei maggiori sociologi della religione di metà Novecento, che aveva partecipato al Concilio come perito. Boulard spiegava che uno scarto si era creato dopo il Vaticano II fra le “nuove norme” religiose che ne erano scaturite e quelle del “popolo cristiano tradizionale”: questo scarto poteva spiegare almeno in parte la crisi che si era aperta nella pratica religiosa, nelle credenze e nell’immagine diffusa della Chiesa e del clero. Nella religione quotidiana, giocarono un ruolo importante alcuni aspetti della riforma liturgica che potevano apparire anche secondari, ma che non lo erano del tutto sul piano psicologico e antropologico: l’abbandono del latino, il dare del tu a Dio, la comunione nelle mani, il tramonto di una serie di pratiche obbligatorie. Nel campo degli articoli di fede tutta una serie di verità antiche finirono brutalmente nel dimenticatoio – a cominciare dai “novissimi”: morte, giudizio, inferno, paradiso –, come se gli stessi preti avessero smesso di crederci o non sapessero più come parlarne, dopo averlo fatto per secoli in modo drammatico e ultimativo.

    Un altro campo nel quale la congiuntura degli anni Sessanta ha potuto destabilizzare i fedeli è quello dell’immagine della Chiesa, della sua struttura gerarchica e del sacerdozio. Non si deve dimenticare che la crisi cattolica degli anni 1965-1978 fu in primo luogo una crisi del clero e delle organizzazioni cattoliche. L’abbandono della tonaca e dell’abito religioso, il crescente silenzio dei preti sui “fini ultimi”, la loro politicizzazione generalmente a sinistra, l’abbandono dello stato ecclesiastico di un gran numero di sacerdoti, religiosi e religiose, talora seguito dal loro matrimonio, apparvero a molti fedeli come una vera e propria “trahison des clercs” (qui Guchet riprende e adatta la nota espressione di Julien Benda), paragonabile solo alle “déprêtrisations” operate dalla rivoluzione francese (ma se ne ebbero anche in Italia, specie nel triennio giacobino 1796-1799, sia pure in dimensioni minori), con gli effetti destabilizzanti sulla vita religiosa che tutti conoscono.

    Opportunamente Guchet ricorda uno scritto di Théodore Jouffroy, un altro di quei geniali pensatori del XIX secolo – come Alexis de Tocqueville, di cui era leggermente più anziano – che si interrogarono sulle dinamiche e sul destino delle religioni. In una lezione intitolata “Du scepticisme actuel” (siamo negli anni Trenta dell’Ottocento) affermava che il mutamento dell’insegnamento ufficiale diffonde scetticismo fra gli umili, perché ne deducono che se l’istituzione s’è “ingannata” ieri, dando per immodificabile ciò che invece ha cessato di esserlo, non si può essere sicuri che la cosa non si ripeta anche in futuro.

    Per Guchet, il Vaticano II ha soprattutto aperto la strada a quella che chiama una “fuoruscita collettiva dalla cultura della pratica obbligatoria la cui infrazione comportava un peccato mortale”, pratica obbligatoria che occupava un posto centrale nel vecchio cattolicesimo. Questa cultura, che ha lasciato vivi ricordi in quanti di noi l’hanno vissuta, era ancora più rigida nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento che precedentemente: si incarnava nei precetti della Chiesa – la santificazione delle domeniche e delle feste, appunto, “di precetto”; la confessione e la comunione almeno a Pasqua; il digiuno e l’astinenza dalla carne il venerdì… – che venivano avvertiti come i principali “doveri religiosi” del cristiano. Negli anni del post-concilio questi obblighi canonici furono in parte mantenuti, ma resi sempre meno vincolanti e talvolta seriamente relativizzati nella pratica. Ebbene, l’ipotesi di Guchet è che la fine dell’insistenza pastorale sul carattere obbligatorio di quei precetti e il tramonto del discorso sui “fini ultimi”, sopraggiunti alla fine del Concilio, abbiano giocato, sul piano collettivo, un ruolo fondamentale nella rottura della pratica religiosa soprattutto nei bambini e nei giovani, a cui questi obblighi erano stati presentati come i fondamenti della vita cristiana.

    Perché è proprio l’abbandono della pratica religiosa da parte dei giovani, l’elemento che scatena la crisi, fra il 1965 e il maggio 1968. Era difficile – si può però aggiungere – che una generazione che stava vivendo la rivoluzione individualistica, di cui abbiamo prima parlato, potesse ancora comprendere il linguaggio degli obblighi e delle prescrizioni e non li avvertisse come residui di una religione formale e repressiva. Lo dimostra l’impressionante crollo del sacramento della confessione, la cui ampiezza statistica è sottolineata da Guchet: nel 1983, solo un cattolico francese su cento si confessava almeno una volta al mese (nel 1952 erano 15) e ben 69 non si confessavano mai (nel 1952 erano 37). Questa caduta libera della confessione nel giro di pochi anni costituisce di per sé un fatto sociologico e spirituale di cui forse storici e sociologi non hanno ancora valutato bene tutta la portata: perché si trattava di una pratica che aveva profondamente modellato la mentalità dei cattolici sulla lunga durata, come pure le forme culturali della colpa personale e collettiva.

    La “Gaudium et spes” (49) esortava a istruire adeguatamente i giovani, “molto meglio se in seno alla propria famiglia, sulla dignità dell'amore coniugale, sulla sua funzione e le sue espressioni; così che, formati nella stima della castità, possano ad età conveniente passare da un onesto fidanzamento alle nozze”. Il giovane uomo e la giovane donna della fine degli anni Sessanta, nel pieno della “rivoluzione sessuale”, poteva anche confessare di praticare sesso prima del matrimonio e magari di usare gli anticoncezionali, ma non poteva proporsi solennemente di non compiere più quei “peccati”, come il catechismo che aveva memorizzato gli imponeva. Perché sapeva benissimo che non sarebbe stato così. Alla lunga non li avrebbe più confessati o, più spesso, si sarebbe allontanato dal confessionale.

    Ho semplificato la complessa e documentata argomentazione di Guchet. Essa è sicuramente connessa alla situazione francese, in cui gran parte delle masse cattoliche aveva tradizionalmente fatto parte del “blocco d’ordine”, dai tempi della Restaurazione in avanti. Ma ci può dare qualche indizio e molte osservazioni interessanti per altri contesti nazionali e quindi avere una portata più complessiva.

    6. “Terminer la Revolution”


    Tutto questo “vecchio cattolicesimo” che veniva ormai accantonato era un ultimo residuo del “paradigma conservatore”, che quindi perse la sua ultima battaglia proprio all’interno della Chiesa, provocando tuttavia una disaffezione diffusa in una parte del mondo cattolico. Al tempo stesso lo stile e gli atteggiamenti di questo “vecchio cattolicesimo” erano ormai totalmente estranei ai tempi che stavano cambiando e allo stile di vita delle generazioni più giovani, anche di sacerdoti, al punto che difficilmente sarebbe sopravvissuto anche se tanti preti avessero tenuto maggiormente la posizione.

    Per uscire dalla crisi che rischiava di disarticolare la Chiesa, bisognava – usando le parole di Madame de Staël – “terminer la Revolution”, porre fine alla rivoluzione. Questo fu il compito storico dei pontificati di Giovanni Paolo II e del suo immediato successore Benedetto XVI: il che non significava operare una “restaurazione” – come si è detto e ripetuto da parte di critici interni ed esterni alla Chiesa –, ma preservare e gestire i frutti fondamentali del Vaticano II senza fughe in avanti e ulteriori scosse. Dunque Wojtyla e Ratzinger sono stati papi “conciliari”, ma hanno capito che per consolidare e dare pace alla Chiesa nata dal Vaticano II era necessario, in qualche modo, sopire definitivamente i disordini del post-concilio.

    7. L’avvento della post-modernità

    Tuttavia i loro pontificati possono essere letti anche in un’altra prospettiva: come un tentativo di risposta all’ulteriore balzo in avanti che la modernità intanto stava compiendo proprio dalla fine degli anni Settanta. Sembrava un’autocritica, in realtà era uno sviluppo: si parla spesso di post-modernità (dal fortunato volume di Jean-François Lyotard, “La condition postmoderne. Rapport sur le savoir”, uscito nel 1979), ma si potrebbe anche parlare di “iper-modernità”. Le principali componenti della cultura otto-novecentesca, proprio quelle con cui il Vaticano II aveva appena finito di confrontarsi, venivano ridotte al rango di “grandi narrazioni”, che ormai avevano perduto consistenza e capacità di incidere in un mondo radicalmente cambiato.

    Possiamo riassumere i tratti essenziali di questa nuova cultura con la provocatoria caratterizzazione che ne ha fornito un suo critico, il filosofo neo-illuminista italiano Maurizio Ferraris:

    1) la “messa tra virgolette” del mondo, per cui non esistono più la verità, la realtà, l’oggettività, ma solo la “verità”, la “realtà”, l’”oggettività”. Gli intellettuali, che sono di natura “decostruttori”, lo sanno bene: togliere quelle virgolette sarebbe un atto di inaccettabile violenza o di fanciullesca ingenuità. Siamo immersi nei fenomeni, con le cose non abbiamo contatto: quindi dobbiamo guardare con sospetto chiunque si ritenga in possesso di una verità.

    2) la rivoluzione desiderante: il desiderio costituisce di per sé un elemento emancipativo. Si sottolinea perciò il ruolo politico del corpo, elaborando una critica della morale come struttura repressiva.

    3) la de-oggettivazione: l’idea che quelle che solitamente si chiamano l’oggettività, la realtà e la verità siano un’illusione o un’arma ideologica di un potere sottilmente violento. La banalizzazione dell’aforisma nietzscheano: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” viene da allora ripetuta in ogni aula universitaria.

    Si era giunti, perciò, al paradosso che la Ragione con la R maiuscola, in nome della quale la civiltà moderna aveva condotto e vinto tante battaglie contro la Chiesa, era stata in qualche modo messa da parte e ridimensionata proprio dagli ultimi esponenti della modernità. Lo stesso metodo filologico-storico, che aveva rivoluzionato la critica biblica e la storia delle origini cristiane – anche in questo mettendo in seria difficoltà la cultura ecclesiastica – non sembrava più assicurare alcuna oggettività alla storiografia, che rischiava di essere ridotta a una forma narrativa senza pretesa di “scientificità”.

    È evidente la sfida di tipo nuovo che questa cultura emergente portava alla Chiesa, non più in nome della ragione e della storia, ma della critica del principio di verità: perché all’esistenza di una “verità oggettiva” di cui il cristianesimo è portatore, anche Paolo VI, nel suo momento più dialogico, non aveva rinunziato: “Per chi ama la verità, la discussione è sempre possibile. Ma ostacoli d'indole morale accrescono enormemente le difficoltà, per la mancanza di sufficiente libertà di giudizio e di azione e per l'abuso dialettico della parola, non già rivolta alla ricerca e all'espressione della verità obbiettiva, ma posta al servizio di scopi utilitari prestabiliti” (“Ecclesiam suam”, 106).

    Il confronto con la post-modernità e i suoi esiti nichilistici fu – lo ripeto – peculiare dei pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. E anche qui si assiste a un altro paradosso: che il loro magistero finì per ribadire l’assolutezza dei principi morali e la centralità della ragione, rifacendosi a un atteggiamento per così dire “kantiano” e anche a un certo illuminismo. In un importante intervento del marzo 2005, quindi poche settimane prima della sua elezione al pontificato , il cardinale Ratzinger affermava:

    “Il cristianesimo […] ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termine di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. […] In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato. […] È stato merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato la corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare ad una vera riconciliazione tra Chiesa e modernità. […] Con tutto ciò bisogna che le due parti [cristianesimo e illuminismo] riflettano su se stesse e siano pronte a correggersi. Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la religione del ‘logos’. Esso è fede nel ‘creator spiritus’, nello spirito creatore dal quale proviene tutto il reale. Proprio questa dovrebbe essere oggi la sua forza filosofica, in quanto il problema è se il mondo provenga dall’irrazionale, e la ragione non sia dunque altro che un ‘sottoprodotto’, magari pure dannoso, del suo sviluppo o se il mondo provenga dalla ragione, ed essa sia di conseguenza il suo criterio e la sua meta. La fede cristiana propende per questa seconda tesi, avendo così, dal punto di vista puramente filosofico, davvero delle buone carte da giocare, nonostante sia la prima tesi ad essere considerata oggi da tanti la sola ‘razionale’ e moderna. Ma una ragione scaturita dall’irrazionale, e che è, alla fin fine, essa stessa irrazionale, non costituisce una soluzione ai nostri problemi”.

    Questa battaglia anti-relativistica si è risolta in un sostanziale fallimento, anche perché batteva in breccia atteggiamenti e mentalità ormai maggioritari nel mondo della cultura e dei media, producendo una lunga serie di manifestazioni di rigetto, che appannarono l’immagine di Benedetto XVI. A ciò si aggiunga un’ampia resistenza anche nell’istituzione ecclesiastica, che lasciò solo quel papa in alcuni momenti decisivi:. Il progetto di cercare un dialogo critico con la post-modernità, che fosse al tempo stesso una sfida sui temi della vita, della razionalità dell’uomo, della libertà religiosa, si chiuse con la sua rinuncia al pontificato.

    8. Per concludere

    In alcuni precedenti interventi pubblicati anch’essi su Settimo Cielo, ho cercato di tratteggiare le mie impressioni di osservatore sul momento attuale della Chiesa. Con Francesco e il suo entourage, essa ha ripreso ad assecondare il “dérapage” della post-modernità, correndo consapevolmente il rischio, che per taluni è anche un’opportunità, di superare il “cattolicesimo romano” come si era strutturato negli ultimi secoli, nella speranza di operare un’inculturazione cristiana del nuovo “Zeitgeist”:

    Fine del “cattolicesimo romano”? (13 aprile 2018)
    Link: La riforma di Bergoglio l'ha già scritta Martin Lutero - Settimo Cielo - Blog - L?Espresso

    Per questo oggi la Chiesa di Francesco ha messo ulteriormente in sordina il discorso sui “fini ultimi”, insistendo invece su temi più politici come l’ecologia, le migrazioni, le nuova povertà, che la post-modernità delega volentieri alla Chiesa, da essa avvertita come un’agenzia etica fra le tante:

    Primato dello spirituale o primato della politica? (17 aprile 2020)
    Link: Francesco, il papa che fa politica in presa diretta. L?analisi di uno storico della Chiesa - Settimo Cielo - Blog - L?Espresso

    Dall’altra parte assistiamo al tentativo di rilanciare in forme nuove il “paradigma conservatore” (come ad esempio fa l’americano Rod Dreher), col rischio calcolato di diventare per molto tempo – per dirla con Tocqueville – “una schiera di ferventi zelatori in mezzo a una moltitudine di increduli”:

    Rod Dreher conservatore e cristiano (11 ottobre 2018)
    Link: Un sinodo su ?The Benedict Option?? L?analisi di uno storico della Chiesa - Settimo Cielo - Blog - L?Espresso

    Ma, a ben vedere, si tratta del confronto fra due minoranze. È difficile capire quanto di questi dibattiti e di questi problemi arrivi al rarefatto e sempre più anziano “popolo cristiano”, che munito di mascherina, sanificato e distanziato socialmente, ha avuto il permesso di tornare nelle chiese la domenica.

    Le attese del Concilio contraddette dalla storia. I perché dell?eclissi della fede cristiana - Settimo Cielo - Blog - L?Espresso
    "Si vis pacem, para bellum"

 

 

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