di Giovanni Spadolini - «La Voce Repubblicana”, 22-23 luglio 1983


Il Mezzogiorno all’opposizione. Fu il titolo del primo articolo di Francesco Compagna su «Il Mondo» di Mario Pannunzio, il 18 febbraio 1950, quasi un anno dopo la nascita del famoso settimanale romano. Un titolo emblematico e rivelatore di una scelta morale e di una scelta di cultura. Compagna, non ancora trentenne, aveva maturato le sue esperienze fondamentali all’ombra dell’Istituto di studi storici di Benedetto Croce, che fu insieme con Gaetano Salvemini il suo primo vero e mai dimenticato maestro.
Negli stessi mesi stava comparendo, nelle classiche edizioni laterziane della «Biblioteca di cultura moderna», in cui si era formato e nutrito, il suo primo libro di impegno e di spicco, con un titolo ambizioso, non senza un lontano trasalimento orianesco (egli pur più vicino a Omodeo che a Gobetti sul caso Oriani), echeggiante un fortunato libro di Nino Valeri, allora al massimo del suo auge: La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra e il Mezzogiorno. Un libro dove si intrecciavano storia e autobiografia, dove la componente dell’indagine meridionalistica non era mai svincolata dall’occhio dell’osservatore accurato e penetrante di un passato recente, storia vivente diventata storia vissuta.
Proclamarsi all’opposizione agli inizi degli anni cinquanta nel Mezzogiorno voleva dire per Francesco Compagna rompere con tutto un certo mondo, con tutta una certa società. Dal punto di vista che i marxisti direbbero «classista», dalla società da cui proveniva, dagli ambienti sociali, a sfondo aristocratico e censitario, in cui si era consumata la sua adolescenza.
Voleva dire mettersi contro tutte le collusioni ammiccanti fra una certa democrazia cristiana e la destra che avrebbero preparato di lì a poco l’esplosione violenta del laurismo, un fenomeno anarco-reazionario a metà fra sanfedismo e populismo, contro il quale Compagna combatterà una battaglia memorabile. Voleva dire dissentire dalla scelta di Giovanni Ansaldo, pur così grande giornalista legato alle pagine lontane della «Rivoluzione liberale» di Gobetti, alla direzione del «Mattino»: una scelta che avrebbe rappresentato un motivo di rampogna costante, e di critica severa, da parte degli intellettuali del «Mondo».
Voleva dire soprattutto sollevare la questione meridionale come questione nazionale, contro ogni separatismo e contro ogni ritorno all’autoctonia, e magari a un’autoctonia vernacolare e pittoresca; collocare il problema del Mezzogiorno nel problema dell’Italia moderna e della sua complessiva evoluzione economica e sociale; ricuperare il grande filone del meridionalismo democratico di Nitti e Salvemini, di Sturzo e di Fortunato, teso a rivendicare il nesso fra Mezzogiorno e nazione e, dietro la nazione, fra Mezzogiorno ed Europa.
Amendola o Salandra: si domandava Compagna, qualche mese più tardi, sempre sulle colonne del «Mondo». E la sua scelta era fatta in partenza, coincideva col rifiuto assoluto di ogni forma di liberalismo accomodante, trasformista, capitolardo, si identificava nella rivendicazione coraggiosa, assoluta, perfino con una punta sprezzante, dell’intransigenza democratica di Giovanni Amendola e della sua «Unione democrazia nazionale», germe di quel più grande partito della democrazia laica, riformatrice, non socialista, al quale sempre appartenne Compagna, nel suo trapasso dalla sinistra liberale al partito repubblicano di Ugo La Malfa.
Nello stesso gennaio 1950, compariva un articolo di Compagna sulla «Nuova Antologia» diretta da Mario Ferrara, che era uno dei massimi editorialisti del «Mondo» di Pannunzio e in cui riviveva la stessa coscienza di un liberalismo critico, inquieto, revisionista, tout court democratico, contro tutte le indulgenze conservatrici o moderate del liberalismo meridionale. Quell’articolo si intitolava Temi meridionalisti nella nuova politica economica.
Poche volte il pensiero del giovane Compagna su quelli che erano i termini e l’essenza stessa della questione meridionale era riassunto con tanta essenziale chiarezza: «Questa crisi, che è la crisi dell’Italia come Stato moderno, ha il suo nodo centrale proprio nella questione meridionale, la quale, anche se si presenta con un profilo economico, investe in realtà tutti i problemi del consolidamento politico e dell’equilibrio sociale del paese».
Lo Stato moderno. L’ultimo dono che l’amico carissimo – trentacinque anni di un’amicizia, quasi una vita – mi fece nel Natale del 1981, cinque mesi dopo la formazione del governo, in cui egli aveva assunto il ruolo di mio più diretto e impegnato collaboratore, fu la collezione completa dello Stato moderno di Paggi da lui stesso rilegata, come si rilegavano i libri negli studi legali del Mezzogiorno di una volta, con quella pergamena semplice e disadorna e con cartoncino nero, forse più adatto a un volume di archivio che a una raccolta di rivista. Una rarissima collezione che mancava alla mia biblioteca, caratterizzata proprio dalla ricerca di collane e di riviste e di giornali essenziali nella formazione dell’Italia moderna, dall’«Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux al «Baretti» di Piero Gobetti.
In quella rivista, classicamente impaginata (quasi come il «Conciliatore» di Pellico), con carta poverissima, senza nessuna eleganza o ricercatezza tipografica, erano apparse le prime schegge e frammenti di Compagna. Mi ricordo un titolo del 1948: Cose vecchie e nuove nel Mezzogiorno. Ed erano comparsi anche i primi scritti definitivi del suo orientamento politico sul Partito comunista nel Mezzogiorno e sul Mezzogiorno e la democrazia cristiana.
Il suo meridionalismo si era nutrito di studi severi. Era partito da Croce e dalla lettura decisiva di Croce (di cui si ritroveranno le tracce eloquenti in uno dei suoi volumi più autobiografici, vorrei dire più malinconici e perfino con una vena elegiaca, Meridionalismo liberale, pubblicato da Ricciardi nel 1975). Aveva incontrato Salvemini senza sfuggire al confronto con Giustino Fortunato. Su una matrice storicista aveva inserito fermenti di una cultura democratica avanzata con forti vibrazioni illuministe: la cultura che si rispecchiò appunto nell’esperienza del «Mondo», di cui Compagna è stato uno degli interpreti più significativi e conseguenti. Aveva arricchito i suoi orizzonti attraverso una serie di incontri fondamentali: Renato Giordano, Vittorio De Caprariis. Una triade, con Francesco Compagna, che si è ormai dileguata per sempre.
«Nord e Sud», la testata che nasceva da un vecchio titolo di Francesco Saverio Nitti, sorta alla fine del 1954, aveva rappresentato la palestra essenziale di questo meridionalismo democratico, combattente sia contro le tentazioni del clerico-moderatismo sia contro le attrazioni del nuovo frontismo (pochi intellettuali, fedeli alla sinistra democratica, sono stati più impermeabili di Compagna alle seduzioni dei fronti popolari e dei blocchi generici fondanti sull’indipendentismo di sinistra). Una rivista che ha avuto un ruolo decisivo nella cultura italiana e che avrebbe celebrato nel 1984 il suo trentesimo compleanno. Un’età straordinaria per una rivista; un’esperienza inconfondibile nel panorama della vita culturale e politica italiana.
Pochi uomini di cultura, del filone laico e repubblicano, hanno avuto come Compagna l’ossessione della demagogia, l’insofferenza quasi costituzionale e fisica per le genericità e il pressapochismo, anche se mascherato sotto sembianze progressiste o utopiste.
Mi ricordo la sua lettera aperta al mio «Corriere della Sera» nel momento più infuocato della contestazione, che ebbe una larghissima eco di consensi e anche di dissensi. Si intitolava La sinistra che protesta e denunciava, col rigore morale che nell’uomo era assoluto, il confine fra la cultura storicista e democratica, anche orientata verso la profonda e radicale trasformazione della società, rispetto al sinistrismo gestuale, epidermico, contrapposto alle regole dello Stato di diritto, nelle quali si fondevano i due grandi filoni dell'illuminismo e dello storicismo (due filoni ai quali Compagna, per certi aspetti contemporaneo della repubblica partenopea del 1799, si sentiva egualmente legato).
Il suo modo di fare politica è stato assolutamente suo, peculiare e inconfondibile. Cultura e politica: due termini inscindibili per Compagna (Bobbio lo definirebbe uomo dell’«Italia civile»). Non separò mai la politica dal giornalismo; non concepì mai una qualunque contrapposizione fra la politica e la cattedra universitaria (cui arrivò tardi, nella disciplina di geografia politica ed economica, non senza contrasti e resistenze che lasciarono tracce nelle sua vita). Esponente di primo piano del partito repubblicano, legato alla grande lezione di Ugo La Malfa in cui si rinnovava la stessa felice sintesi fra Croce e Salvemini che egli aveva rappresentato, ministro in più governi, con Andreotti, nell’estrema stagione della solidarietà nazionale, con Cossiga e con Forlani nel corso dell’ottava travagliata legislatura della Repubblica, non ebbe la minima esitazione ad accettare l’incarico di sottosegretario alla presidenza, attraverso quella che apparve una retrocessione da ministro, nel governo a presidenza repubblicana, fin dal giugno 1981. Di quel ruolo egli dava un’interpretazione che nessuna esegesi giuridica avrebbe saputo meglio consigliare, perché aveva un solo precedente a lui caro, Sergio Fenoaltea, nello stesso ruolo, nel governo di Ivanoe Bonomi, all’indomani della liberazione di Roma, nel giugno 1944.
Tredici mesi di governo di cui si dovrà raccogliere presto la documentazione integrale. Un collaboratore impareggiabile per devozione al pubblico bene e per coscienza dei valori dello Stato. Sottosegretario alla presidenza che era più di un ministro (e come tale è stato onorato da metà del Consiglio dei ministri nell’arciconfraternita dei Pellegrini a Napoli: una specie di riunione straordinaria intorno alla sua salma).
Un punto di raccordo e di colleganza fra forze laiche, cattoliche e socialiste (egli che aveva sentito altamente la lezione di Alcide De Gasperi ed era stato allineato nelle stesse battaglie di Pasquale Saraceno e di Ezio Vanoni). E infine un esempio straordinario di discrezione e di misura. Con trentacinque anni di amicizia, con un vincolo personale che si estendeva a molte battaglie combattute insieme nella vita culturale e civile del paese, egli aveva un tale rispetto – anche qui voglio dire un rispetto crociano – della carica di presidente del Consiglio che non ricorreva quasi mai al telefono diretto collegante il sottosegretario al capo dell’esecutivo.
Si avvaleva di un sistema in cui vibrava una traccia dell’altra Italia: mandava bigliettini, documentati e precisi, su tutte le questioni agevolando enormemente il lavoro del presidente del Consiglio. Talvolta a mano, talvolta a macchina: formulava un problema da risolvere, annunciava di avere sgombrato una questione, liberato da un peso, sciolto un nodo.
Nel giugno ’82, in una delle tante crisi striscianti che attraversarono la vita del governo da me allora presieduto, gli avevo sottoposto lo schema di un intervento parlamentare, dove c’era un punto particolarmente sensibile che affrontava, senza eufemismi e senza messi termini, i tabù di una propaganda deformante. «È il caso di far intendere a tutti – mi rispose aderendo a quell’impostazione – con la sincerità di cui siamo capaci, che noi non ci possiamo suicidare: né come filone culturale e politico, né come uomini che hanno sempre dato conto di sé nella vita pubblica». Compagna appunto appartenne a quei magistrati civili che hanno dato sempre conto di sé nella vita pubblica.

Giovanni Spadolini


https://www.facebook.com/notes/giova...1036950866839/