di Eugenio Garin – In AA. VV., “Gaetano Salvemini”, Laterza, Bari 1959, pp. 149-210.
1. – Nel 1954 Paolo Spriano pubblicava una lettera di Gobetti su Salvemini, del 10 agosto del 1922. Si erano incontrati alla stazione di Torino ed avevano chiacchierato per circa un’ora. Fresco dell’impressione provata, Gobetti delineava un ritratto molto acuto di quello che, allora, era uno degli italiani più significativi: «quest’uomo, pur nei suoi limiti addirittura spaventosi e volutamente accentuati, è di una lucidità straordinaria. Di tutto ciò che ha studiato s’è formato una sua idea che conserva questa caratteristica, di essere di un semplicismo apparentemente infantile. Eppure, più ci ripensi e più ti avvedi che non si trattava affatto di un’idea comune e che è molto difficile dire di più. Ha una faccia sola. Vede tutte le cose linearmente. La sua sincerità entusiasma e può sembrare deplorevole. Tutti i suoi difetti si riassumono nella sua primitività di stile. Questi sono gli scherzi, le ironie della franchezza. Salvemini è troppo poco complicato per essere capito»[1].
Venticinque anni prima qualcuno, sulla «Critica sociale», aveva chiamato «stile da maresciallo dei carabinieri» quel modo, più che di scrivere, di aggredire con la penna, che fu così caratteristico in Salvemini[2]. E tuttavia Gobetti, pur rilevandone i limiti, ne coglieva bene la forza, e metteva felicemente a fuoco alcuni tratti dell’uomo, individuando le ragioni del suo isolamento e, insieme, della sua presenza nella vita italiana. Lucidezza e semplicismo, sincerità e primitività, aperta franchezza e ironia tagliente, sdegno della retorica e rifiuto di fumi filosofici: Gobetti scolpiva nette le linee di un volto. Con lui, aggiungeva, è molto difficile, in sede di pensiero critico, fare delle riserve e procedere per sfumature: «del resto – concludeva – i suoi vogliono essere più scherzi che pensieri filosofici». Né senza malizia lo univa a Luigi Sturzo per aver promosso entrambi, in Italia, il «più recente esperimento di illuminismo politico, offrendo il metodo ad alcuni esempi di problemismo pratico». Oltre l’ironia velata, l’avvicinamento aveva un fondo serio, e sottolineava una volta di più i pericoli della posizione salveminiana, fornendo un’indicazione interpretativa tuttora non trascurabile. Anche se resterà sempre difficile, nonostante tutto, non rimaner colpiti subito dalla quasi eccezionale paradossalità di una figura che non trova termini di confronto[3].
In un’Italia invasa culturalmente dalla retorica dannunziana, dal genialismo alla Papini e dagli scherzi futuristi; in un paese dove gli uomini più eminenti e più noti nel campo del sapere erano due filosofi sostanzialmente conservatori, le cui idee non sempre apparivano molto lineari, come non dare un posto a sé a questo non-conformista, ribelle sul serio fra tanti rivoluzionari da gazzette e da caffè, di mestiere insegnante universitario di storia, pronto ad opporre, in nome del buon senso e dell’onestà, Cattaneo a Hegel, e disposto a difendere il più screditato positivismo contro l’idealismo ovunque trionfante?
Isolato sempre per quel suo gusto di una polemica senza sottintesi, per quel suo moralismo intransigente e per quel suo franco illuminismo, era un sentimentale con la maschera del razionalista; e tanto più rigido razionalista quanto più disarmato sentimentale. Non riesce a togliersi dal cuore i contadini della sua terra e gli allievi della sua scuola: i compagni di lavoro che sperano in lui e i giovani che credono in lui e che hanno fede nella vita; guardando a loro non può abbandonarsi un istante solo al compromesso. Sa che gli uomini semplici e le menti pure non capirebbero i calcoli, e si sentirebbero amaramente traditi anche se dall’apparente tradimento avessero a trarre poi un vantaggio: potranno perdonargli errori anche fatali; non gli perdonerebbero tortuosità ed infingimenti.
In un mondo cinico, capace solo della retorica della commozione, non mai della commozione vera, Salvemini si commuove sempre dinanzi alla fede schietta. Si commuove nel Mazzini del 1905 al ricordo della preghiera cristiana: «nessuno di noi può riandare quella preghiera infantile senza sentir palpitare in sé un fervido desiderio di giustizia, di amore, di pace». Si commuoverà mezzo secolo dopo, nel 1955, di fronte ai giovani e alle ragazze che combattono nelle file di quel comunismo che egli avversa con veemenza; dinanzi alla loro fedeltà e alla loro ispirazione morale pensa a quegli altri giovani che, sul cadere dell’Ottocento, avevano lottato con lui nelle file del socialismo[4].
Questo fratello dei più diseredati fra i contadini del Sud, diventato professore di una delle più dotte università italiane, unirà sempre in quel suo trepido affetto, che dette tanta forza anche alle sue posizioni più deboli, i suoi scolari, e tutti i giovani in loro, e i suoi compagni contadini – che saranno sempre i contadini pugliesi. Il problema dei contadini meridionali, quello di tutta la scuola italiana, studenti e insegnanti: ecco le due cause per cui Salvemini si batté fino all’ultimo giorno – le due cause che dettero calore a ogni altra battaglia, e che fanno apparire così austeramente saggio l’uomo che ad Anna Kuliscioff, che gli voleva bene, sembrava matto da legare[5].
(...)
[1] P. SPRIANO, Inediti di Piero Gobetti, «Il contemporaneo», 24 aprile 1954, pp. 3-4. Ma è da confrontare con questa lettera il giudizio, in gran parte esattissimo, recato in Rivoluzione liberale, Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, 1950³, pp. 97-101.
[2] «Critica sociale», VII, 1897, p. 269.
[3] «Per certa rigidità intransigente, per certi impeti sdegnosi e per la irriducibilità dei propositi si avvicina alla tendenza del radicalismo puritano» (M. VINCIGUERRA, Un quarto di secolo, 1900-1925, Torino, Piero Gobetti editore, 1924, p. 47).
[4] Il pensiero religioso politico sociale di Giuseppe Mazzini, Messina, Trimarchi, 1905, p. 68; Opere, I, Scritti sulla questione meridionale, 1896-1955, Torino, Einaudi, 1955, p. XXXV.
[5] F. TURATI – A. KULISCIOFF, Carteggio, vol. I (maggio 1898-giugno 1899), a cura di A. Schiavi, Torino, Einaudi, 1949, p. 465. Il testo è finemente ripreso da E. RAGIONIERI, Gaetano Salvemini storico e politico, «Belfagor», V, 1950, p. 517. Cfr. l’allusione dello stesso Salvemini nel discorso al Congresso nazionale socialista dell’ottobre 1910, in cui, rivolgendosi a Turati, esclamò: «Dal momento che Anna Kuliscioff pensa allo stesso modo mio, se sono matto io, è matta anche lei» (G. SALVEMINI, Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano. Saggi critici, Bologna, Cappelli, 1922, p. 119).