La vita moderna è fatta così. Si vive e si muore alla velocità della luce.
(da Luis Sepúlveda, "Jacaré", Guanda 1999)
Gli amici lo chiamavano Lucho, ma per tutti gli altri era Luis Sepúlveda, scrittore cileno di fama internazionale, narratore degli oppressi, esule politico, rivoluzionario, giornalista, sceneggiatore, ecologista e molto altro. Per averne passate tante, nel corso della sua non lunga vita, amava dire: «Il sangue mapuche è forte: nei secoli ha saputo resistere ai conquistatori spagnoli, ha difeso la sua regione, l'Araucania, dal nuovo Stato cileno. In me scorre quel sangue». La madre Irma, infatti, era di origine mapuche. Per questo, sosteneva, era in grado di resistere anche alle prove più dure. Invece se n'è andato in un soffio, a settant'anni, infettato dal virus Covid-19, probabilmente contratto in Portogallo dov'era stato invitato a partecipare al festival letterario Correntes d'Éscritas. Al ritorno a casa, alla fine di febbraio, era risultato positivo al virus ed era stato ricoverato prima all'ospedale di Gijón, in Spagna, dove risiedeva da anni, poi in quello di Oviedo, dove è morto. Lascia quattro figli e la moglie, la poetessa Carmen Yáñez, sposata due volte. Tra i due matrimoni era stato sposato con Margarita, una tedesca conosciuta in Ecuador, con la quale aveva avuto tre figli. Spiega la moglie Carmen: «Quando sarà possibile organizzeremo una piccola cerimonia di addio perché tutti i suoi figli e i suoi nipoti e i suoi amici possano salutarlo. E poi lo porteremo in Patagonia».
La vita di Lucho è sempre stata contrassegnata da molte battaglie: contro gli oppressi (quelli che la legge dei padroni considerava banditi o fuorilegge), contro i dittatori dell'America Latina, contro le multinazionali che avevano condannato i Paesi del Cono Sud ad una dipendenza economica simile alla schiavitù; ma anche contro i crimini ambientali che stanno distruggendo gli equilibri naturali del nostro pianeta: per difenderli, non aveva esitato a militare per anni tra gli attivisti di Greenpeace. «La buona notizia» - sosteneva - «è che la Storia vera è stata la storia dei perdenti perché i vincenti si sono fatti riscrivere la storia a modo loro. È a noi scrittori che tocca dare voce ai dimenticati».
Grazie alle sue battaglie, era diventato bersaglio dei poteri forti del suo Paese e la sua vita era stata per anni quella di un uomo in fuga: anzitutto, dal Cile di Pinochet (che l'aveva incarcerato due volte, torturato e infine liberato grazie alle pressioni di Amnesty International), poi da altre dittature del Sudamerica. Era fuggito in Argentina, poi Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia... in treno o su veicoli di fortuna fino a Panama e da qui in Spagna, via nave. Le avventure di quegli anni Sepúlveda le ha raccontate, anni dopo, nel libro "La frontiera scomparsa" (Guanda 2009). Lui era così: trasformava le sue esperienze in materia letteraria, regalando pezzetti di vita vissuta ai suoi personaggi. E a chi gli chiedeva perché ci avesse messo tanto a trasformare quell'esperienza in letteratura, rispondeva che era letteratura, appunto, quella che voleva fare, non psicoletteratura. Detestava il pathos, aveva bisogno di mettere tra lui e il Cile la giusta distanza e scansava il dramma con una scrittura semplice, netta, sintetica. Tutto il contrario di Márquez: molto realismo, poca o nessuna magia.
Una vita avventurosa, dunque, che non avrebbe potuto essere diversa perché, come raccontava sorridendo, lui stesso era nato fuorilegge: quando aveva visto la luce - in una modesta camera d'albergo a Ovalle, cittadina a nord del Cile - sulla testa di suo padre, José Sepúlveda (cuoco e comunista, teneva a precisare) pendeva un mandato di cattura in seguito alla denuncia dei genitori della compagna Irma per «rapimento di minore e sequestro di persona».