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  1. #1
    Blue
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    Predefinito Luis Sepúlveda, in memoriam



    La vita moderna è fatta così. Si vive e si muore alla velocità della luce.
    (da Luis Sepúlveda, "Jacaré", Guanda 1999)




    Gli amici lo chiamavano Lucho, ma per tutti gli altri era Luis Sepúlveda, scrittore cileno di fama internazionale, narratore degli oppressi, esule politico, rivoluzionario, giornalista, sceneggiatore, ecologista e molto altro. Per averne passate tante, nel corso della sua non lunga vita, amava dire: «Il sangue mapuche è forte: nei secoli ha saputo resistere ai conquistatori spagnoli, ha difeso la sua regione, l'Araucania, dal nuovo Stato cileno. In me scorre quel sangue». La madre Irma, infatti, era di origine mapuche. Per questo, sosteneva, era in grado di resistere anche alle prove più dure. Invece se n'è andato in un soffio, a settant'anni, infettato dal virus Covid-19, probabilmente contratto in Portogallo dov'era stato invitato a partecipare al festival letterario Correntes d'Éscritas. Al ritorno a casa, alla fine di febbraio, era risultato positivo al virus ed era stato ricoverato prima all'ospedale di Gijón, in Spagna, dove risiedeva da anni, poi in quello di Oviedo, dove è morto. Lascia quattro figli e la moglie, la poetessa Carmen Yáñez, sposata due volte. Tra i due matrimoni era stato sposato con Margarita, una tedesca conosciuta in Ecuador, con la quale aveva avuto tre figli. Spiega la moglie Carmen: «Quando sarà possibile organizzeremo una piccola cerimonia di addio perché tutti i suoi figli e i suoi nipoti e i suoi amici possano salutarlo. E poi lo porteremo in Patagonia».

    La vita di Lucho è sempre stata contrassegnata da molte battaglie: contro gli oppressi (quelli che la legge dei padroni considerava banditi o fuorilegge), contro i dittatori dell'America Latina, contro le multinazionali che avevano condannato i Paesi del Cono Sud ad una dipendenza economica simile alla schiavitù; ma anche contro i crimini ambientali che stanno distruggendo gli equilibri naturali del nostro pianeta: per difenderli, non aveva esitato a militare per anni tra gli attivisti di Greenpeace. «La buona notizia» - sosteneva - «è che la Storia vera è stata la storia dei perdenti perché i vincenti si sono fatti riscrivere la storia a modo loro. È a noi scrittori che tocca dare voce ai dimenticati».

    Grazie alle sue battaglie, era diventato bersaglio dei poteri forti del suo Paese e la sua vita era stata per anni quella di un uomo in fuga: anzitutto, dal Cile di Pinochet (che l'aveva incarcerato due volte, torturato e infine liberato grazie alle pressioni di Amnesty International), poi da altre dittature del Sudamerica. Era fuggito in Argentina, poi Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia... in treno o su veicoli di fortuna fino a Panama e da qui in Spagna, via nave. Le avventure di quegli anni Sepúlveda le ha raccontate, anni dopo, nel libro "La frontiera scomparsa" (Guanda 2009). Lui era così: trasformava le sue esperienze in materia letteraria, regalando pezzetti di vita vissuta ai suoi personaggi. E a chi gli chiedeva perché ci avesse messo tanto a trasformare quell'esperienza in letteratura, rispondeva che era letteratura, appunto, quella che voleva fare, non psicoletteratura. Detestava il pathos, aveva bisogno di mettere tra lui e il Cile la giusta distanza e scansava il dramma con una scrittura semplice, netta, sintetica. Tutto il contrario di Márquez: molto realismo, poca o nessuna magia.

    Una vita avventurosa, dunque, che non avrebbe potuto essere diversa perché, come raccontava sorridendo, lui stesso era nato fuorilegge: quando aveva visto la luce - in una modesta camera d'albergo a Ovalle, cittadina a nord del Cile - sulla testa di suo padre, José Sepúlveda (cuoco e comunista, teneva a precisare) pendeva un mandato di cattura in seguito alla denuncia dei genitori della compagna Irma per «rapimento di minore e sequestro di persona».
    Ultima modifica di Blue; 27-04-20 alle 13:29

  2. #2
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam

    Da bambino [mio nonno] mi leggeva Tolstoj e cercò di trasmettermi gli ideali anarchici.
    Si arrabbiò moltissimo quando gli confessai che ero entrato nella Gioventù comunista.


    (Dall'intervista di Antonio Gnoli, Luis Sepúlveda: "Sono morto tante volte", Repubblica.it, 20 agosto 2017)




    Figura fondamentale nella sua infanzia fu il nonno paterno, Gerardo Sepúlveda Tapia, anarchico andaluso che si era rifugiato in Cile per sfuggire ad una condanna a morte, con il quale crebbe presso la città di Valparaíso. Altra figura determinante fu lo zio Pepe, anche lui anarchico. Saranno loro a trasmettergli l'amore per la letteratura, insieme ad una visione anticonvenzionale della vita, che il giovane Sepúlveda seppe esprimere già quattordicenne al liceo.

    «Era il '63.» – racconta – «Ci innamorammo tutti della nuova professoressa di storia, la signora Camacho, una pioniera della minigonna. Un compagno di classe mi chiese di scrivere una storia su di lei. Quindici-diciotto pagine che finirono nelle mani del preside, che le bollò come pornografia. Provai a ribattere:
    – Letteratura erotica.
    – Pornografia - tagliò corto il preside - ma scritta molto bene».

    A soli quindici anni il giovane Luis decise di entrare a far parte della Gioventù Comunista, a diciassette divenne redattore del quotidiano "Clarín" e giornalista radiofonico. Tre anni dopo ottenne il Premio Casa de las Americas con il suo primo libro di racconti, "Cronicas de Pedro Nadie". Inoltre, nel 1969 vinse una borsa di studio per i corsi di drammaturgia presso l'Università di Lomonosov, a Mosca. Tuttavia, fu espulso dall'Ateneo dopo soli quattro mesi, secondo alcuni a causa di contatti avuti con dei dissidenti, secondo altri perché era diventata di dominio pubblico la sua relazione amorosa con una professoressa di letteratura slava, moglie del decano dell'istituto di ricerche marxiste. Al ritorno in Cile conobbe l'amore della sua vita, la futura poetessa Carmen Yáñez, di tre anni più giovane. Tra i due scoppiò una passione immediata: Carmen rimase incinta e si sposarono, 22 anni lui e 19 lei. Eccoli, nella foto sotto, in una foto del matrimonio celebrato a Santiago del Cile l'11 settembre 1971. Il loro unico figlio, Carlos, che di secondo nome si chiamava Lenin, nacque nel 1972.


    Espulso di lì a poco anche dalla Gioventù comunista in seguito a dissidi ideologici, Sepúlveda decise di fare qualcosa di concreto contro le tante ingiustizie che aveva sotto gli occhi, così partì per la Bolivia per unirsi all'Esercito di Liberazione Nazionale. Tornato nuovamente in patria, prese il diploma di regista teatrale e cominciò ad organizzare spettacoli, oltre a scrivere racconti, a lavorare alla radio e a condurre come responsabile una cooperativa agricola. Intanto, il suo impegno politico procedeva di pari passo: aderì al Partito Socialista negli anni dell'elezione di Salvador Allende, facendo anche parte del "Grupo de Amigos Personales" (GAP), la guardia personale del presidente. Ribelle e anticonformista, prese a studiare i maggiori pensatori di sinistra, finché, nel 1973, in seguito al colpo di stato di Augusto Pinochet, venne arrestato. Anche la moglie Carmen venne imprigionata e torturata a Villa Grimaldi, simbolo crudele degli anni della dittatura di Pinochet. Sepúlveda era invece detenuto nella prigione di Tucapel de Temuco, in una cella tanto angusta da non permettergli neppure di alzarsi in piedi. Per 7 mesi fu torturato sistematicamente, finché, dopo tre anni e grazie alle pressioni di Amnesty International, ottenne la liberazione, a prezzo dell'esilio per 8 anni. Molti anni dopo, avrebbe rievocato quei terribili momenti:

    «Nessuno è capace di precisare quale sia la cosa peggiore del carcere, dell'essere prigioniero di una dittatura, di qualunque dittatura, e nemmeno io posso indicare se il peggio di tutto ciò che ho dovuto sopportare sia stata la tortura, i lunghi mesi di isolamento in una fossa che mi appestava, il non sapere se fosse giorno oppure notte, l'ignorare da quanto tempo stessi nelle mani degli sbirri di Pinochet, i simulacri di fucilazione, i compagni morti o la denigrazione costante e sistematica. Tutto è peggio in carcere, e ricordo specialmente un momento in cui i militari quasi ottennero ciò che volevano: che accettassi volontariamente di essere annichilito e condannato all’atroce solitudine degli sconfitti.

    Al termine di un processo sommario del tribunale militare in tempo di guerra, tenuto a Temuco nel febbraio 1975 e nel quale fui accusato di tradimento della patria, cospirazione sovversiva e appartenenza a gruppi armati, insieme ad altri delitti, il mio difensore d'ufficio (un tenente dell'esercito cileno) uscì dalla sala dove si celebrava il processo senza la presenza di noi accusati – che aspettavamo in una stanza vicina – e con gesti euforici mi informò che era andato tutto bene per me: ero riuscito a liberarmi della pena di morte e in cambio mi si condannava solamente a ventotto anni di prigione.

    Allora io ero un uomo giovane, avevo venticinque anni e non seppi come reagire quando, dopo un calcolo elementare, scoprii che avrei recuperato la libertà a cinquantatré anni. È anche certo che allora ero un ottimista a oltranza – ancora lo sono – e mi ripetevo che la dittatura non sarebbe durata tanto, ma alle volte, soprattutto durante le lunghe notti, la ragione si imponeva e cominciai ad accettare che forse la dittatura sarebbe stata lunga, molto lunga, e che avrei perso i migliori anni della mia vita tra i muri del carcere.

    I compagni, le lettere della famiglia e di alcuni amici mi davano coraggio, anche se non smettevano di ripetermi che per disgrazia non potevano fare più niente per aiutarmi e che l'unica cosa importante era che io fossi vivo. Sì. Ero vivo, però la vita cominciò ad avere un terribile sapore di solitudine di fronte all'ingiustizia fino a che, una mattina, un soldato mi consegnò una lettera. La aprii e dopo averla letta seppi che, a migliaia di chilometri di distanza, ad Amburgo, c'era una persona, Ute Klemmer, che era disposta ad aiutarmi fino a tirarmi fuori dalla prigione. Così iniziò uno scambio epistolare che rese meno brutali i giorni della segregazione. Nelle sue lettere, Ute mi parlava degli sforzi della sezione amburghese di Amnesty International per aiutare i numerosi cileni che si trovavano in condizioni simili alla mia, e le descrizioni della sua città e delle centinaia di atti di solidarietà ai quali assisteva, portavano brezze di libertà fino al carcere di Temuco.

    Un giorno nel 1977, grazie al lavoro e alla costanza dei membri di Amnesty International, ottenni che i militari cileni rivedessero il mio caso e alla fine mi cambiarono i venticinque anni di prigione con otto di esilio, che in realtà e a dimostrazione del rispetto dei militari cileni per la giustizia, si prolungarono a sedici lunghi anni senza poter calpestare la terra cilena.



    (Luis Sepùlveda, tratto dalla Prefazione all'opera "Non sopportiamo la tortura", Rizzoli 2000)

  3. #3
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam



    «Viaggiando in lungo e in largo per il mondo ho incontrato magnifici sognatori,
    uomini e donne che credono con testardaggine nei sogni.
    Li mantengono, li coltivano, li condividono, li moltiplicano.
    Io umilmente, a modo mio, ho fatto lo stesso
    ».
    Luis Sepúlveda



    Su quella triste stagione di lotte e prigionia, Sepúlveda sarebbe tornato oltre quarant'anni dopo con il romanzo "La fine della storia" (Guanda 2016). Protagonista è Juan Belmonte, ex guerrigliero, fedele fino alla fine a Salvador Allende e al suo sogno sciolto nel sangue, che si ritrova a fare i conti con il proprio passato e, ormai sessantenne, è costretto a lasciare la quiete dell'isola di Chiloé, dove vive, e riprendere le armi perché «non si sfugge alla propria ombra. Non importa dove stiamo andando, l'ombra di ciò che abbiamo fatto e siamo stati ci perseguita con la tenacia di una maledizione».

    Tornando alla sua vita di quegli anni, ottenuta la libertà nel 1977 lo scrittore fu quindi costretto a lasciare il Cile, mentre la moglie era ancora prigioniera. Lui tentò in ogni modo di liberarla, ma non ci riuscì perché privo di appoggi e, alla fine, non gli restò che darsi alla latitanza. Carmen si salvò tempo dopo, perché creduta morta e gettata via come un sacco. Da quel momento, la sua strada e quella di Lucho si sarebbero divise per molti anni.

    Intanto, lui aveva preso contatti con il governo svedese, che gli aveva offerto asilo politico e una cattedra di drammaturgia presso l'Università di Uppsala. Ma in Svezia non arrivò mai: mentre il suo aereo faceva scalo in Brasile, riuscì a dileguarsi per tentare di tornare nel suo Paese e salvare i compagni. Andò in Argentina, a Buenos Aires, dove non trovò gli appoggi sperati, perché molti dei suoi amici erano morti o erano stati arrestati. Si spostò allora in Paraguay, poi in Ecuador, dove fondò una compagnia teatrale. Poco dopo prese parte ad una spedizione Unesco che aveva l'obiettivo di studiare l'impatto del moderno capitalismo sull'ambiente e sulla civiltà dei nativi, gli indios Shuar, stanziati lungo il confine tra Perù ed Ecuador.

    Durante i sette mesi vissuti nella foresta amazzonica accanto agli indigeni, lo scrittore apprese non soltanto una lingua nuova, ma anche il valore del rispetto dei delicati equilibri della Terra. Da questa esperienza sarebbe nato, anni dopo, il suo primo romanzo, "Il vecchio che leggeva romanzi d'amore" (Guanda 1993), dedicato a Chico Mendes, sindacalista brasiliano vittima dei latifondisti interessati alla deforestazione dell'Amazzonia. Il libro, che alla sua uscita ebbe un successo mondiale, racconta una storia sospesa tra due mondi: quello degli indios diffidenti nei confronti dei bianchi, ma che gli avevano offerto un rifugio dopo la perdita della giovane moglie, e quei bianchi cacciatori di frodo, cercatori d'oro, sfruttatori feroci e avidi capitalisti.

    Dopo l'esperienza presso gli indios Shuar, Lucho si trasferì in Nicaragua, dove si unì alle brigate sandiniste, in lotta per liberarsi del regime sanguinario di Noriega nel '79. Come ricompensa per questo ulteriore impegno in nome della democrazia, ottenne la cittadinanza nicaraguense. Dopo la vittoria, iniziò a lavorare come giornalista; l'anno successivo, da Panama, decise di partire per la Germania stabilendosi ad Amburgo. Qui iniziò una nuova vita insieme ad una tedesca conosciuta in Ecuador, Margarita, che gli avrebbe dato tre figli. Nel frattempo, lavorava come giornalista e durante questi anni fece numerosi viaggi in Sud America, Europa, Africa.

    Nel 1982 venne in contatto con l'organizzazione ecologista Greenpeace, con la quale collaborò fino al 1987 sia come corrispondente che come membro d'equipaggio su una delle loro navi, per contrastare la caccia alle balene, inseguendo pescherecci giapponesi che trascinavano a bordo balene esangui e si trasformavano in mattatoi: militanti ecologisti contro pescatori giapponesi. Anni dopo, avrebbe rievocato quell'esperienza durante un'intervista rilasciata al Corriere della Sera:

    «Ho imparato molto dalla generosità dei miei compagni, volontari che sacrificavano le vacanze per prender parte a qualcosa di importante. Ricorderò sempre quando, nel 1982, bloccammo il porto di Yokohama, per impedire l'uscita della flotta baleniera giapponese. Quasi due mesi in acqua. Era freddo, faticoso, e non si mangiava bene a bordo [della nave di Greenpeace]. Ma eravamo convinti che fosse importante. Nessuno ha detto: lascio, non ce la faccio. Finché abbiamo vinto. Non solo la flotta non lasciò il porto, ma nell’84 la Commissione baleniera internazionale dichiarò la moratoria della caccia alle balene».

    Dall'esperienza con Greenpeace sarebbe nato il suo secondo romanzo, "Il mondo alla fine del mondo" (Guanda 1994). Il tema centrale del libro è la natura e, in particolare, l'estinzione delle balene e del male che l'uomo provoca alle specie marine; lo sfondo è il paesaggio estremo e lontano dei mari del Sud, con le sue acque gelide e i fiordi dove le balene si rifugiano.

    «La lotta contro i nemici dell’umanità si combatte in tutto il mondo, non richiede né eroi né messia, e inizia dalla difesa del più fondamentale dei diritti. Il diritto alla vita».

    (Luis Sepúlveda, "Il mondo alla fine del mondo")
    Ultima modifica di Blue; 27-04-20 alle 15:51

  4. #4
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam

    Il libro "Storie ribelli" (Guanda 2017) è una raccolta di racconti della vicenda umana, politica e civile dello scrittore, che ripercorre oltre quarant'anni di storia personale e corale. Nei racconti si affrontano temi come l'amicizia, l'impegno civile, le lotte in nome della libertà, la difesa dell'ambiente. L'antologia si apre con il racconto dedicato alla memoria di Óscar Lagos Ríos (il più giovane della scorta presidenziale, che quel tragico giorno del colpo di Stato rimase fino alla fine accanto al presidente Allende nel palazzo presidenziale della Moneda, pagando il suo gesto con la vita) e si chiude con un testo scritto a caldo in occasione della morte di Pinochet. Nella prefazione, Sepúlveda rievoca il momento in cui fece l'amara scoperta - nel 1986, quando risiedeva ad Amburgo - di essere stato privato della cittadinanza cilena e di essere diventato apolide... e l'emozione, 31 anni dopo, di vedersi restituire la nazionalità cilena.



    I miei 31 anni da apolide

    di LUIS SEPÚLVEDA


    Era una bella mattina di giugno del 1986, ad Amburgo. Uscii dalla mia casa di Erichstrasse 4, a Sankt Pauli, il quartiere indomito che scendeva verso l’Elba, verso il porto, fra intricate viuzze di vecchie case sopravvissute alla guerra e condannate alla demolizione, ma abitate da giovani anarchici del movimento Okupa che avevano cura di tenerle in piedi. Mi piaceva stare in quel quartiere popolato da operai del porto e della fabbrica di birra Astra, da artigiani di mestieri condannati a estinguersi rapidamente, e da donne che esercitavano la prostituzione languendo nelle vetrine della Herbertstrasse, la strada chiusa ai minori di diciotto anni, o all’entrata di taverne come la Bierdeich, la «diga di birra», aperta ventiquattr’ore su ventiquattro accanto al portone di casa mia.

    Mi piaceva Sankt Pauli. Fra la gente era corsa voce che scrivevo, in diversi avevano letto un breve articolo che avevo pubblicato sulla «Hamburger Rundschau» e subito avevano associato la scrittura alla poesia. Così ero divenuto uno dei tanti personaggi del quartiere, der Dichter, il poeta, e quella mattina Anette, una ragazza dolce dagli occhi intensamente azzurri che era in attesa di qualche cliente, mi salutò con un caldo Moin Dichter, buongiorno poeta, in Platt, il vecchio dialetto che sapeva di naufragi e di fatiche.

    Quella mattina d’estate dovevo andare al consolato cileno per rinnovare il passaporto. Ero costretto a sbrigare questa odiosa formalità ogni tre mesi, perché il mio passaporto era marchiato con una lettera L: ben visibile sulla prima pagina, nel linguaggio criptico della dittatura di Pinochet, significava che con quel documento potevo andare ovunque nel mondo, tranne tornare in Cile. Era il mio marchio di appestato, di esiliato, di paria. Così, ogni tre mesi, entravo nel consolato cileno e dopo uno scambio d’insulti con gli impiegati uscivo col passaporto valido per altri tre mesi, diretto al commissariato centrale di polizia per rinnovare il permesso di soggiorno in qualità di esule e il permesso di lavoro.

    Nel 1986 la mia attività politica consisteva nell’appoggiare dall’esilio gli sforzi dei compagni del Mir, il Movimiento de Izquierda Revolucionaria, e del Fpmr, il Frente Patriótico Manuel Rodríguez, che lottavano contro la dittatura e non concedevano un giorno di pace a Pinochet. Collaboravo anche con la rivista «Análisis», il baluardo delle rivendicazioni democratiche, la fragile luce giornalistica che teneva in vita l’idea della libertà di stampa in Cile.

    Molti, troppi compagni del MIR e del Fpmr sono morti in combattimento. Anche la rivista «Análisis» ha pagato un prezzo altissimo. L’8 settembre di quell’anno, il giorno dopo l’attentato compiuto dai combattenti dell’Fpmr che per poco non aveva messo fine alla vita di Pinochet, gli scagnozzi del dittatore sequestrarono da casa Pepe Carrasco, editore internazionale di «Análisis», e lo assassinarono. Il 1986 fu un anno decisivo in Cile, dimostrò che il dittatore non era intoccabile e che la solidarietà degli oppositori in esilio era fortissima. Quella bella mattina di giugno uscii dalla metropolitana alla stazione di Dammtor e attraversando i giardini dell’università mi diressi all’Aussen Alster, la grande laguna formata dal fiume Alster, bordata di tigli frondosi e di case patrizie, molte delle quali ospitavano consolati.

    Era estate ad Amburgo, mentre in Cile cominciava l’inverno. Forse il freddo e i rapporti dei servizi di intelligence sull’attività sovversiva degli esuli avevano irritato le emorroidi a Pinochet che, in uno dei suoi tanti gesti di pura superbia vendicativa, aveva steso una lista di 86 cileni in esilio, sottoscritto compreso, e ci aveva privato tutti della nazionalità cilena.

    Quella mattina, al consolato, consegnai il passaporto spiegando che volevo rinnovarlo, mi stupii che tardassero tanto a restituirmelo, finché non mi si parò davanti un impiegato insieme a due gorilla della sicurezza. «Lei non ha diritto al passaporto cileno. Viste le sue attività sovversive e antipatriottiche le è stata ritirata la nazionalità. Può andare.»

    È dura la condizione di apolide. Mi ci vollero mesi a ottenere dall’Onu il passaporto azzurro degli apolidi, documento che alle frontiere nessun poliziotto conosce e che ti fa finire ultimo negli aeroporti. Apolide vuol dire essere doppiamente paria. Scrivo queste cose e mi torna in mente un uomo che ammiravo: Sergio Poblete, generale delle Forze Aeree cilene, arrestato e torturato dai suoi camerati, condannato a morte e poi esiliato in Belgio, a Liegi, dove è morto nel 2011. Non dimentico quando, nelle manifestazioni di denuncia davanti agli organismi internazionali, chiedeva la parola e dichiarava: «Sono un generale della Repubblica Cilena spogliato della nazionalità da un infame tiranno».

    Quella bella mattina d’estate ad Amburgo uscii dal consolato cileno trasformato in apolide, ma la vita andò avanti lo stesso e anche gli sforzi per far cadere Pinochet. In seguito presi la cittadinanza tedesca, ma sono sempre rimasto in attesa da parte dei governi post-dittatura di un gesto che ponesse riparo all’ingiustizia, perché la costituzione cilena diceva che la nazionalità cilena era irrinunciabile e che nessuno poteva esserne spogliato. Quel gesto però ha tardato trentun anni a giungere.

    Nel mese di aprile di quest’anno, il 2017, ho accompagnato mia moglie Carmen a Madrid, perché doveva sbrigare alcune pratiche al consolato cileno, e cioè richiedere un «certificato di sopravvivenza» che la riconosce come ex prigioniera politica della dittatura e le garantisce alcuni diritti minimi. Io mi sono limitato ad accompagnarla e, mentre ero nella sala d’aspetto, guardavo le belle fotografie del Sud del Cile che decoravano le pareti. Di colpo mi sono trovato davanti un uomo vestito in modo elegante. «Lei è il signor Luis Sepúlveda, lo scrittore?». Ho pensato che fosse un lettore che mi aveva riconosciuto e l’ho salutato con la gentilezza con cui si salutano i lettori. «Mi permetta di stringerle la mano, signor Sepúlveda, è un grande onore e un motivo d’orgoglio per me salutarla. Sono il console cileno di Madrid».

    Mi ha invitato nel suo ufficio, mi ha offerto un caffè, e ho pensato che avrei dovuto ringraziarlo per la sua gentilezza ma che non poteva chiamarmi compatriota, perché io non ero cileno. Mi sono ricordato di certe conversazioni che avevo avuto con un caro amico, adesso ambasciatore del Cile in Italia, e dei suoi «risolviamo tutto alla svelta», a cui però non avevo mai dato molto credito perché erano passati trentun anni da quando mi avevano tolto la cittadinanza. Il console, invece, aveva buone notizie. Appena due settimane prima il governo cileno aveva deciso di porre fine all’ingiustizia.

    La prima cosa che ha fatto il console è stato richiedere online un certificato di nascita, che è arrivato nel giro di pochi minuti e che recitava: nato a Ovalle, in Cile, privo di nazionalità cilena. Subito, sempre online, ha richiesto un altro certificato con applicato il provvedimento di restituzione e stavolta, insieme a luogo e data di nascita, si leggeva: «Nazionalità: cilena». Carmen e io siamo usciti dal consolato e ci siamo messi a passeggiare per Madrid. Anche quella era una mattina molto bella, con l’inconfondibile luce di Madrid che invita al buonumore, ma noi due camminavamo in silenzio. «Ehi, cileno, me lo offri un bicchiere di vino?» ha detto Carmen. «Certo, cilena» ho risposto io. E dopo trentun anni eravamo di nuovo due cileni che camminavano per le strade del mondo.



    Tratto dal "Corriere della Sera", 12 agosto 2017

  5. #5
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam

    Ritrovarsi






    "Lucho" e "Pelusa" sembrano i nomi dei protagonisti di un romanzo. Invece, sono i soprannomi affettuosi con i quali si chiamavano Luis Sepúlveda e sua moglie Carmen Yáñez, poetessa. Nata nel ‘52 a Santiago del Cile, l'abbiamo lasciata quando, dopo la terribile esperienza del carcere e della tortura a Villa Grimaldi (il famigerato centro di detenzione dove venivano torturati e uccisi gli oppositori di Pinochet) riuscì fortunosamente a scampare alla morte. Dopo un periodo vissuto in clandestinità, conobbe un altro uomo dal quale ebbe un figlio, finché – sotto la protezione dell'Onu – riuscì a raggiungere la Svezia insieme alla nuova famiglia e al figlio avuto da Sepúlveda, Carlos.

    Dopo tanto tempo, finalmente, lei e lo scrittore si incontrarono in Svezia, dove lui andava appena possibile per incontrare il figlio. Ma era passato troppo tempo, avevano preso strade diverse ed entrambi si erano formati una nuova famiglia. Così, di comune accordo, decisero di divorziare. Carmen continuò ad abitare in Svezia col nuovo compagno e i figli; Luis rimase ad Amburgo con Margarita e i figli avuti da lei. Ma c'era Carlos che ancora li legava e non smisero mai di rimanere in contatto: si scrivevano, si facevano telefonate lunghe, sempre più lunghe, e lui non mancava mai di mandarle da leggere, prima di pubblicarli, gli articoli e i libri che scriveva.

    Nel 1989 Sepúlveda fu invitato a partecipare ad un incontro tra scrittori a Göteborg e chiese a Carmen di accompagnarlo. Non fu un incontro allegro. Carmen Yáñez, in un'intervista rilasciata al quotidiano "Repubblica" qualche anno fa, rievoca quel giorno…

    «Fu molto triste. Eravamo silenziosi, strani. C'erano forse troppe aspettative e in realtà parlammo pochissimo: c'era come un grande vuoto tra di noi. Anche lui era strano, silenzioso. Così, dopo quella volta, ricominciammo a comunicare per lettera. Lettere bellissime, che custodisco ancora.»

    Tra loro c'era il piacere di sentirsi, di raccontarsi cose e l'antico affetto pian piano riemergeva.
    Fu Margarita, con quell'incredibile preveggenza che hanno le donne, ad accorgersi di tutto e, infine, a proporre il divorzio, che Sepúlveda accettò. Lo scrittore ricorda:

    «Non sapevamo come comunicare agli amici che divorziavamo e decidemmo di convocarli tutti insieme con una grande festa nella nostra vecchia casa nella Foresta Nera: un modo per condividere con loro la nostra separazione. Non mi aspettavo che fosse stata inclusa Carmen, invitata da Margarita. Passata la sorpresa, ci siamo confidati. Le ho proposto di non rientrare in Svezia l'indomani, ma di trascorrere qualche giorno con me a Parigi. E, al ritorno, ho chiesto a nostro figlio la mano della madre.»

    Sul treno che dalla Germania li portava a Parigi, Sepúlveda scrisse questa poesia:

    L'ultimo suono del tuo addio,
    mi disse che non sapevo nulla
    e che era giunto
    il tempo necessario
    di imparare i perché della materia.
    Così, tra pietra e pietra,
    seppi che sommare è unire
    e che sottrarre ci lascia
    soli e vuoti.
    Che i colori riflettono
    l’ingenua volontà dell’occhio.
    Che i solfeggi e i sol
    implorano la fame dell’udito.
    Che le strade e la polvere
    sono la ragione dei passi.
    Che la strada più breve
    fra due punti
    è il cerchio che li unisce
    in un abbraccio sorpreso.
    Che due più due
    può essere un brano di Vivaldi.
    Che i geni amabili
    abitano le bottiglie del buon vino.
    Con tutto questo già appreso,
    tornai a disfare l'eco del tuo addio
    e al suo posto palpitante a scrivere
    la più bella storia d'amore.
    Ma, come dice l'adagio,
    non si finisce mai
    di imparare e di dubitare.
    E così, ancora una volta,
    tanto facilmente come nasce una rosa
    o si morde la coda una stella fugace,
    seppi che la mia opera era stata scritta
    perché la più bella storia d'amore
    è possibile solo
    nella serena e inquietante
    calligrafia dei tuoi occhi.


    Lucho e Pelusa vissero per alcuni anni in Francia, dove lui ottenne anche la cittadinanza. Qualche anno tempo, insieme ai figli e al cane Zarko si trasferirono in Spagna, a Gijon, nella regione delle Asturie, dove nel 2004 si sposarono per la seconda volta (foto sotto)… e dove sono vissuti fino alla fine.



  6. #6
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam



    Luis Sepúlveda con la moglie alla festa milanese, organizzata da Guanda per i suoi 70 anni



    «La vita, diceva Luis Sepúlveda, è piena di storie». E la sua lo è stata senz'altro: in tutti i libri che ha scritto, circa una trentina, spaziando tra generi diversissimi – dall'avventura al poliziesco, dal thriller politico alla cronaca, dal racconto di viaggi alla favola, dal saggio alla poesia – ha messo sempre qualcosa di sé e del proprio vissuto.

    La sua vita di cileno errante si coglie, a tratti, in quasi tutti i suoi libri, in un'altalena tra passato e presente, tra realtà e invenzione, tra rabbia e pacatezza. Aveva la capacità di trasformare ogni aspetto della vita sua e altrui in un racconto che, come aveva sottolineato più volte, affondava le radici nella «magia della realtà», legandosi saldamente alle letture amate da ragazzo: Salgari, Verne, Coloane, Melville, Hemingway, ai film che lo incantavano e che tanto avevano influito sulla qualità «visiva» della sua scrittura semplice e diretta, e, infine, ad un'appartenenza politica orgogliosamente dichiarata e pagata a caro prezzo. Non aveva timore a schierarsi, Sepúlveda, perché sosteneva che la letteratura non può essere neutrale, non deve proporre modelli morali ma ha una profonda responsabilità etica: ha il dovere della verità e del coraggio civile.

    Anche le sue incursioni nel cinema, come sceneggiatore e come regista di documentari premiati in più occasioni – l'ultima. al Festival di Venezia del 2003, dove fu presentato il suo "Corazón verde" – hanno seguito il filo delle passioni e delle convinzioni emerse fin dai suoi primi romanzi.

    Eppure, nonostante la coerenza delle idee e l'onestà della scrittura, nonostante il successo internazionale e i milioni di lettori che lo seguivano con entusiasmo, nel suo Paese – e, in generale, in America Latina – non era amato (gli studi critici su di lui quasi non esistono), ma etichettato come uno scrittore facile, stereotipato, moraleggiante e privo di vere qualità letterarie. Il mondo letterario cileno e latinoamericano lo ha sempre percepito come un outsider con il quale critici, giornalisti e scrittori del suo Paese hanno battagliato aspramente attraverso le pagine di giornali come "Mrcurio e "La Tercera" (il primo, dichiaratamente di destra, è stato un tempo il più fedele araldo di Pinochet), scandalizzati dal suo enorme successo edefinendolo, in modo sprezzante, una «macchina da best- sellers», irritati inoltre dalla sua abitudine di rievocare memorie che avrebbero preferito tenere sepolte.

    In compenso, Sepulveda era amatissimo in Europa... soprattutto in Francia, in Spagna e nel nostro Paese. Lo scrittore aveva un rapporto speciale con l'Italia, dove ogni suo libro veniva salutato come un evento letterario e dove lui veniva molto spesso. Lo scorso ottobre, per esempio, aveva compiuto 70 anni e aveva deciso di festeggiarli proprio in Italia, a Milano, nel corso di un evento organizzato dalla sua casa editrice italiana, Guanda. A marzo di quest'anno sarebbe dovuto tornare in Italia per inaugurare "Libri Come" 2020, la festa del libro e della lettura all'Auditorium Parco della Musica di Roma. Ad aprile, a Napoli, avrebbe dovuto tenere a battesimo il Salone del Libro "Napoli Città Libro"...

    In Cile, invece – dove, dopo aver riottenuto la cittadinanza, era andato più volte insieme alla moglie Carmen – non aveva più voluto tornare a vivere.

  7. #7
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam

    Polizieschi e thriller





    Mi sono innamorata della scrittura di Sepúlveda quando, molti anni fa, ho scovato il libreria un suo libro appena uscito, il cui titolo mi aveva incuriosito: "Diario di un killer sentimentale" (Guanda 1998). Quasi un ossimoro pensare che un killer possa essere sentimentale... innamorato, per giunta. Così, per curiosità, l'ho comprato e l'ho letto d'un fiato. In effetti era molto breve (solo 73 pagine) e scritto benissimo, con uno stile asciutto e secco come un colpo di pistola, pieno di colpi di scena e del tutto privo di fronzoli e artifici letterari. Fin dall'incipit:

    «La giornata iniziò male, e benché io non sia un tipo superstizioso, credo che in giorni del genere la cosa migliore sia non accettare incarichi, anche se la ricompensa ha sei zeri sulla destra ed è esentasse. La giornata iniziò male, e tardi, perché atterrai a Madrid alle sei e trenta, faceva molto caldo e durante il tragitto fino all'hotel Palace dovetti sorbirmi uno sproloquio del tassista sulla coppa europea di calcio. Mi venne voglia di puntargli la canna di una quarantacinque alla nuca per fargli chiudere il becco, ma non avevo attrezzi con me, e poi un professionista non se la prende mai con un cretino, nemmeno se è un tassista.»

    Da Madrid a Istanbul, da Francoforte a Parigi, da New York a Città del Messico, seguiamo il nostro killer sentimentale innamorato e deluso, seduttore e sedotto, implacabile e, in fondo, fragile. Un killer che parla con il suo doppio riflesso negli specchi, negli specchietti retrovisori delle macchine e nell'acqua delle fontane. Un killer imprevedibile fino in fondo... fino all'ultimo incarico, fino alla fine del mondo e della vita.


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    "Un nome da torero" (Guanda 1995) è un agile giallo d'azione ricco di riferimenti storici e politici, che racconta di due tedeschi antifascisti che rubano delle antiche monete alle SS durante la Seconda guerra. Ma, come dirà uno dei protagonisti : "il gatto può rubate una bistecca la macellaio, mai la mucca intera". E a cercare quelle monete, molti anni dopo e per motivi diversi, saranno due ex soldati, tra Berlino e la Terra del fuoco, in un susseguirsi di lotte e di rinunce, di ricordi e nostalgie: gli stessi vissuti dall'autore. Racconta Sepúlveda:

    «Qualche anno fa uscivo da una libreria di Parigi e venni avvicinato da un ragazzo che avrà avuto vent’anni. Mi disse che aveva letto "Un nome da torero", forse uno dei miei romanzi dove ho messo più di me stesso. Mi chiese se avevo un minuto da dedicargli e dal momento che ce l’avevo siamo andati a prendere un caffè. Vedevo che era molto emozionato, non riusciva a parlare, così l’ho spronato a farlo. Mi ha raccontato di essere il figlio di Perez, massimo dirigente del Mir, ucciso dalla dittatura. Mi ha raccontato dell’odio che provava per suo padre perché era sempre assente, perché non lo accompagnava alle partite di calcio, non lo andava a prendere a scuola come tutti i suoi compagni. Leggendo il mio libro aveva capito chi fosse stato realmente suo padre e per cosa si era battuto, per cosa era morto. E allora non solo aveva capito, ma lo aveva amato, rispettato e di lui era divenuto orgoglioso. Ho realizzato proprio in quel momento la carica etica profonda della letteratura, un dovere a cui non posso certo sottrarmi. »
    (L.S., da un'intervista di Elena Torre per "Mangialibri", 2009)


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    Jacaré (Guanda 1999) è composto da due racconti lunghi, due noir di piacevole lettura, narrati con uno stile essenziale e pervaso di ironia.

    Il primo racconto, che dà il titolo al libro, ha per protagonista un ex poliziotto cileno, esule a causa della dittatura, che indaga su una serie di omicidi di alcuni esponenti di una nota pelletteria milanese, coinvolta nel commercio illegale di pelle di jacaré, caimano della famiglia degli alligatori, dalla pelle lucidissima e brillante, con la quale vengono ricavate splendide borse vendute nei negozi di lusso della capitale meneghina. Usando il pretesto del racconto giallo, Sepúlveda ci presenta i vari personaggi della storia, che si avvicendano, a ritmo serrato, in affari loschi e corrotti a discapito delle foreste e della fauna amazzonica.

    Nel secondo racconto, "Hot line", l'autore parte dal trasferimento nella capitale cilena inflitta come punizione a George Washington Caucamán, simpatico poliziotto di origini india, per raccontare di un'indagine relativa ad un reato sessuale apparentemente banale. Nonostante il tema, anche qui si affacciano i fantasmi del passato, la repressione militare e la dittatura, impossibili da dimenticare. In particolare, il periodo della dittatura viene raccontato suggerendone l'orrore senza mai sfociare nella retorica, anzi, utilizzando l'arma dell'umorismo.


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    La storia narrata in "L'ombra di quel che eravamo" (Guanda 2009), ambientata a Santiago del Cile, si svolge su due piani d'azione un presente avvilente e grigio, ed un passato avvincente, pieno di lotte e di speranze. In una vecchia officina della città, tre militanti di sinistra si ritrovano, ora vecchi e un po' malmessi, dopo trent'anni di separazione per preparare una strana rapina. Mentre aspettano un non meglio precisato "specialista", si raccontano le vicende che hanno vissuto tra fughe, esilio, e sogni infranti, rievocando con nostalgia gli anni della militanza politica e della speranza.

    Intanto, in una casa dall'altra parte della città, una lite familiare provoca un inconsapevole omicidio: un giradischi gettato dalla finestra colpisce e uccide un passante. Coco è il marito e Conceptión la moglie "assassina". Nella mente della donna scorrono le immagini del giovane rivoluzionario che l'aveva affascinata, dei cadaveri che galleggiavano sul fiume Mapocho dopo il colpo di stato, dell'esilio in Germania e dell'indolenza del marito. Coco, intanto, sta raggiungendo i tre amici al vecchio garage per realizzare una picaresca rapina sullo scheletro di una vecchia banca degli anni '70, ora ridotta ad un topless bar, dietro le cui mura si nascondono i soldi e i documenti sporchi dei giri illegali della destra di quel periodo...

    La storia, seppure gravida di momenti di sofferenza e di miseria (che include la stessa città, Santiago, immersa costantemente in una foschia piovosa e grigia) è narrata con leggerezza, con uno stile lineare e carico di ironia, in grado di stemperare anche i momenti più drammatici del racconto.
    Ultima modifica di Blue; 04-05-20 alle 13:49

  8. #8
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam

    I libri di viaggi





    «Al andar se hace el camino, se hace el camino al andar.» E' questo il titolo originale di uno dei più famosi romanzi di Luis Sepúlveda, "Patagonia Express" (Feltrinelli 1995), che riprende i versi di Antonio Machado: "E' camminando / che si fa il cammino".

    Il libro racconta del lungo viaggio a tappe che l'autore compie a sud del sud del mondo, fino in Patagonia e nella Terra del Fuoco, fino al punto della mappa del Sudamerica dove la terra finisce e rimane solo acqua: da un lato l'Atlantico, dall'altro il Pacifico, davanti il canale di Beagle e, nel mezzo, onde ghiaccio e vento.
    Il protagonista, Luis, annota sulla sua Moleskine gli incontri, i racconti e le riflessioni del suo viaggio, formando così una galleria di personaggi, storie umane e paesaggi in dodici tappe, tanti quanti sono i racconti di "Patagonia Express". Il riferimento alla Moleskine scatena nell'autore i ricordi di alcuni anni prima, che ci catapultano indietro nel tempo, nella Barcellona invernale di una gelida mattina di febbraio…

    «Questo è un viaggio che iniziò molti anni fa, non importa quanti. Cominciò quel freddo giorno di febbraio a Barcellona, seduto con Bruce a un tavolo del caffè Zurich».

    Un inglese e un cileno, Bruce Chatwin e Luis Sepúlveda, si incontrarono in quel bar per organizzare insieme un viaggio in Patagonia. Il primo aveva già pubblicato "In Patagonia", uno dei più bei libri di viaggio mai scritti, per raccontare l'itinerario che aveva compiuto nel 1974 nella Terra del Fuoco. Il secondo voleva cogliere l'occasione per tornare in Cile per la prima volta dopo il lungo periodo di esilio. L'idea dei due scrittori era quella di seguire le orme di Butch Cassidy e Sundance Kid, i due leggendari criminali del Far West morti in America Latina.
    Fu proprio durante quell'incontro che lo scrittore cileno ebbe in regalo da Chatwin la famosa agenda Moleskine, sulla quale annotare gli appunti di viaggio riportati poi in "Patagonia Express".

    Il viaggio di Luis Sepúlveda e Bruce Chatwin inizia a Chonchi, sull’isola di Chiloé, con il traghetto "Colono" che li porterà nella Patagonia cilena, ma alla fine di questa traversata i due amici si separano e Sepúlveda prosegue da solo. Durante la traversata lo scrittore cileno fa amicizia con i marinai del traghetto, che gli raccontano leggende di un tesoro perduto sotto le acque del canale e dei mostruosi abitanti di Trapananda. Il viaggio prosegue poi verso le Ande con un trenino che sale a più di cinquemila metri fino alla frontiera con la Bolivia. Ma soprattutto si svolge sul "Patagonia Express", la più australe delle linee ferroviarie, che dal confine fra Cile e Argentina arriva fin sulle coste atlantiche: si tratta di due carrozze passeggeri e due vagoni merci trascinati da una vecchia locomotiva a carbone. L'autore dedica ampio spazio alla descrizione del paesaggio, come la notte australe o il deserto di Atacama, dove non esiste alcuna forma di vita perché l'altitudine, il vento gelido e la siccità lo rendono inabitabile.

    Le ultime pagine della "Moleskine" sono dedicate all'incontro, avvenuto a Santiago del Cile, con lo scrittore che è stato il maestro e l'ispiratore di Luis, Francisco Coloane:

    «Lessi i suoi formidabili libri di racconti e i suoi romanzi quand'ero bambino, e dalla loro lettura nacque il desiderio di viaggiare, di essere una specie di nomade, il prurito alla pianta dei piedi che mi spinge a vedere che diavolo si nasconde dietro l'orizzonte, a sapere come vivono, sentono, amano, odiano, mangiano e bevono, le genti di altre terre. Mi aveva passato i suoi fantasmi, i sui personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte le latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai e i suoi vagabondi del mare. Adesso sono tutti con me e mi permettono di dire a voce alta che vivere è un magnifico esercizio».


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    Anche nel caso di "Ultime notizie dal Sud" (Guanda 2011) il libro nasce da un incontro. Un pomeriggio del 1996, Luis Sepúlveda e il fotografo argentino Daniel Mordzinski sono seduti ad un café di Parigi e bevono mate. Stanno progettando un viaggio nel Sud del mondo, in Patagonia, che avrà la caratteristica di non essere troppo programmato né limitato nel tempo.

    Il progetto prende corpo e i due amici, con una Moleskine e una Leica, iniziano il viaggio a San Carlos de Bariloche, in Argentina, con un'auto presa a noleggio in un concessionario Renault, per concluderlo a Punta Arenas, in Cile: 3500 chilometri di steppa patagonica, «dove si sta tra la terra e il cielo».

    Il progetto, dopo le prime sei settimane di viaggio, si completerà negli anni successivi con l'uscita del libro: una galleria di storie, personaggi e paesaggi, corredata dalle fotografie di Daniel Mordzinski. Durante il loro viaggio a sud del 42° parallelo, i due amici faranno incontri incredibili: con Doña Delia – classe 1901, conosciuta il giorno del suo novantacinquesimo compleanno – che, in piena steppa, è capace di far fiorire un ramoscello secco sfregandolo tra le mani. Oppure, con un ubriaco incontrato in un bar di San Carlos de Bariloche, che afferma di essere il discendente di Davy Crockett. O, ancora, con un liutaio che cammina lungo una ferrovia per cercare la traversina di legno giusta per fabbricare un violino. E tante altre…

    Ma il tempo passa, alle storie si aggiungono altre storie, e il libro vede la luce molti anni dopo e questo ritardo porterà ad un risultato imprevisto: tutto ciò che i due compagni d'avventura hanno raccolto, situazioni e persone, non esiste più quando il libro esce. È un'involontaria e tragica narrazione della rapidità della forza distruttrice delle trasformazioni. «Così il libro è diventato anche un inventario delle perdite...», commenterà Sepúlveda:

    «Questo libro è nato come la cronaca di un viaggio compiuto da due amici, ma il tempo, i violenti cambiamenti dell’economia e l’avidità dei vincitori lo hanno trasformato in un libro di notizie postume, nel romanzo di una regione scomparsa. Nulla di quanto abbiamo visto è ancora come lo avevamo conosciuto. In qualche modo siamo i fortunati che hanno assistito alla fine di un’epoca nel Sud del mondo. Di quel Sud che è la mia forza e la mia memoria. Di quel Sud a cui mi aggrappo con tutto il mio amore e tutta la rabbia.» (Luis Sepúlveda)
    Ultima modifica di Blue; 07-05-20 alle 14:41

  9. #9
    Blue
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    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam

    Le favole


    Nella sua carriera di scrittore Sepúlveda ha scritto cinque libri di favole (tutte corredate, nell'edizione italiana, dai disegni di Simona Mulazzani), dove i protagonisti sono sempre animali parlanti. E, come nelle favole della tradizione, a dire la verità sono proprio loro, ovvero la nostra parte più ancestrale. Le favole sono storie a misura di bambino, ma – fornendogli un pensiero adulto – lo mettono in grado di comprenderlo: ecco perché Esopo e Fedro non invecchiano mai e le loro morali, seppure esplicite, non risultano pesanti neppre oggi. Anche nelle favole dell'autore cileno possiamo cogliere insegnamenti morali e messaggi universali: l'amore, l'amicizia, la solidarietà, il rispetto per la natura, e così via. Ma le chiavi di lettura sono molteplici e le sue storie, pur essendo adatte ad un pubblico giovane e giovanissimo, rappresentano una lettura altrettanto piacevole per un pubblico adulto…

    «Il mio editore spagnolo, pubblicando le mie favole, ha scritto che sono per le persone dagli 8 agli 88 anni, e questo mi sembra vero. Possono leggerle i bambini, ma anche gli adulti; il mio lettore di favole non ha un’età definita.» (Luis Sepúlveda)

    La prima favola, che ha fatto conoscere lo scrittore cileno al grande pubblico italiano è "Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare" (Salani 1996), un grande successo editoriale. Dal libro, due anni dopo l'uscita, è stato tratto il film d'animazione "La gabbianella e il gatto", per la regia di Enzo D'Alò.





    La storia racconta della gabbiana Kengah, la quale, mentre è in volo col suo stormo sopra il Mare del Nord, adocchia uno stormo di aringhe e si tuffa per pescarne una; ma, quando riemerge, è coperta di petrolio dalla testa ai piedi. A stento riesce a sollevarsi in volo, mentre il petrolio di cui è impregnata la stordisce e la avvelena. Infatti, poco dopo precipita sul balcone di una casa di Amburgo e qui incontra un gatto nero, Zorba. Sentendo vicina la fine, la gabbiana affida al gatto l'uovo che sta per deporre, dopo aver ottenuto tre solenni promesse: che Zorba coverà l'uovo amorevolmente, che non mangerà il piccolo quando nascerà e, soprattutto, che gli insegnerà a volare. Il gatto, un felino di buon cuore, accetta e cerca come può di mantenere le promesse… Dopo qualche tempo nasce una graziosa gabbianella, alla quale – date le circostanze in cui è venuta al mondo – viene dato il nome di Fortunata. La gabbianella cresce felice, accudita da Zorba e dai suoi amici gatti, al punto da desiderare di essere anche lei un felino. Ma è nata gabbianella e deve volare: una cosa che i gatti non sanno proprio fare. Però, c'è di mezzo quella promessa fatta a Kenagh… così, Zorba e i suoi amici si vedono costretti a cercare l'aiuto di un umano. Ma dev'essere un umano speciale, qualcuno che conosca il volo e le sue altezze, un poeta…

    Una favola molto bella, quasi una parabola, che mette in scena sentimenti universali come la generosità e la solidarietà, l'amore per gli altri e il rispetto per la natura.


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    La seconda fiaba è "Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico" (Guanda 2012) e racconta del gatto Mix e del suo rapporto con un bambino, Max: di fatto, il suo padrone; eppure, mai definito tale nel libro. Il tempo passa e i due diventano adulti insieme, instaurando un rapporto di reciproco rispetto, amicizia e fedeltà. Invecchiando, il gatto diventa quasi cieco e Max passa intere giornate fuori casa per lavoro, mentre Mix è costretto a rinunciare ai suoi vagabondaggi: non esce quasi più e soffre terribilmente di solitudine, finché un giorno sente dei rumori provenire dalla dispensa e si rende conto che in casa dev'esserci un topo. A questo punto, infatti, entra in scena il terzo personaggio della favola, il topolino Mex: logorroico, divertente, simpatico, vigliacco per sua stessa ammissione e perennemente affamato. Dopo l'iniziale diffidenza, a poco a poco i due diventano amici inseparabili: il topo Mex regala al gatto due nuovi occhi, raccontandogli in dettaglio tutto ciò che vede fuori dalla finestra; soprattutto, riesce pian piano ad infondergli il coraggio di avventurarsi di nuovo fuori casa e di tornare a saltare sui tetti, come faceva prima di perdere la vista. Così, i due volano insieme da un tetto all'altro, col topo avvinghiato alla groppa di Mix, terrorizzato di precipitare da un momento all'altro. Eppure, riesce a vincere le sue paure perché si fida di Mix e perché sa che il gatto ha un bisogno vitale di quella libertà. Dal canto suo, il gatto riacquista fiducia in se stesso proprio grazie al topolino e riesce a muoversi con l'agilità di un tempo, nonostante la disabilità.

    Molto chiari i messaggi contenuti nel racconto: il valore impagabile dell’amicizia, l’accudimento reciproco, il rispetto per il diverso, la solidarietà…


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    "Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza" (Guanda 2013) è ambientata in un prato verde chiamato Paese del Dente di Leone, dove vive, felice, una colonia di lumache. Consapevoli della propria lentezza e vulnerabilità, le lumache vivono una vita semplice e ripetitiva e non hanno nomi propri per distinguersi le une dalle altre. Tra loro, però, c'è una lumaca diversa dalle altre, una che non si accontenta: non vuole essere una qualsiasi del branco, vuole avere un nome; inoltre, intende scoprire le ragioni della lentezza che caratterizza la sua specie. Così, nonostante le critiche e la disapprovazione delle altre, decide di allontanarsi dalla colonia e di girare il mondo, promettendo di fare ritorno solo dopo aver ottenuto quello che cerca. Durante il viaggio incontra un gufo malinconico e una saggia tartaruga di nome Memoria, che la aiutano e la sostengono; inoltre, la testuggine le attribuisce finalmente un nome, Ribelle, che rispecchia la sua indole forte e anticonformista. Grazie alla sua voglia di osare, Ribelle scoprirà che le sue compagne sono in pericolo: l'uomo sta distruggendo i grandi prati intorno alla colonia per trasformarli in strade, case, palazzi. La minaccia è imminente e la nostra coraggiosa protagonista deve intervenire…
    Riuscirà Ribelle ad avvisare in tempo le altre lumache e a salvarle? La sua lentezza le sarà di vantaggio o si trasformerà inevitabilmente in un ostacolo? E, al termine della sua avventura, riuscirà finalmente a capire l'importanza della lentezza?





    La favola rappresenta una metafora della decrescita felice e del rispetto per l'ambiente, in contrapposizione con la società moderna, veloce e frenetica.


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    "Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà" (Guanda 2015) è narrata in prima persona dal protagonista: un cucciolo di pastore tedesco che si perde nella foresta e viene trovato da un giaguaro, il quale, non potendo tenerlo con sé, lo deposita davanti ad una tenda, in un villaggio di indios Mapuche. Qui il cane viene adottato da Wenchulaf, il capo del villaggio, e cresce insieme a suo nipote Aukamañ, che è solo un bambino ma insegna ad Aufman molte cose sulla cultura dei Mapuche, il loro senso della comunità, l'amore per la terra, il rispetto verso la natura. Passano gli anni, nove anni felici, in cui il cane e il ragazzo crescono come fratelli, stringendo un forte legame di affetto e lealtà… fino al giorno in cui arrivano al villaggio i Wingka, gli "uomini del branco", che reclamano la proprietà della terra e ordinano al popolo di abbandonarla. Ma gli indios si rifiutano e i Wingka distruggono il villaggio, uccidono il capo Wenchulaf e, riconoscendo in Aufman un cane di razza, lo portano con sé. La vita in cattività è molto dura per Aufman: incatenato, picchiato, malnutrito e infine sfruttato come cane da caccia. Passano anni pieni di sofferenza, violenze e prigionia, finché un giorno tutto cambia di nuovo: i Wingka inseguono un indio attraverso la foresta, portandosi dietro Aufman per seguirne le tracce. Ma gli odori che il cane avverte nell'aria sono molto familiari: legna secca, farina, mele e sangue: Aufman capisce chi è il fuggitivo e sa che è ferito. La sua corsa per stanarlo sarà, in realtà, un tentativo di salvarlo perché l’amicizia non si dimentica e non può essere spezzata, nemmeno dopo molti anni. Non a caso il nome Aufman, in lingua mapuche, significa "leale e fedele"…


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    Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa” (Guanda 2018) celebra il fascino di un mito, sulla scia della balena bianca più famosa della letteratura e del capitano Achab a bordo della baleniera Pequod. Succede, infatti, che ogni tanto uno scrittore non si accontenti di leggere o rileggere un classico, ma entri nella storia e scopra tra le sue pagine una seconda trama sotterranea, decidendo di scriverla per ribaltare il precedente punto di vista, per dare voce ad un personaggio chiave rimasto muto. Succede proprio così in questa favola di Sepúlveda, che rilegge in chiave inedita il capolavoro di Melville. Nel "Moby Dick" la balena è così importante da dare il titolo all'opera intera, ma di lei conosciamo solo ciò che le accade intorno e quali effetti scatena negli uomini; non sappiamo cosa direbbe se potesse parlare, possiamo soltanto immaginarlo. Lo scrittore cileno va alle radici del romanzo di Melville per dare finalmente voce e consistenza alla balena color della luna. E questa intenzione è esplicita fin dal titolo: a parlare sarà lei, Moby Dick…

    «Io amo molto "Moby Dick", ma mi sono sempre chiesto perché Melville approfondisca la psicologia del Capitano Achab, relegando la balena ad un ruolo così marginale. E ho pensato che potevo darle voce io».(Luis Sepúlveda)

    Su una spiaggia sassosa nei pressi di Puerto Montt, a sud del Cile, il mare ha trascinato e abbandonato il cadavere di una balena… forse si era persa, forse si era intossicata mangiando la spazzatura umana. L'autore dice che i fatti avvengono una mattina del 2014, quindi non può trattarsi dell'ottocentesco Mocha, ovvero Moby, il cetaceo che ispirò Melville, evocato nella nota finale… o forse sì: in fondo, la balena senza vita che approda in Cile incarna tutte le balene del pianeta e con il suo corpo zittisce gli umani, facendoli vergognare della loro brutalità. Come recita Plinio il Vecchio nell'esergo:

    «L'occhio della balena registra da lontano ciò che vede negli uomini.
    Custodisce segreti che noi non dobbiamo conoscere
    ».





    I pescatori sono tristi, sanno che dovranno farle un funerale per onorarla e darle l'ultimo addio. E i pescatori, si sa, la sanno lunga. Ma a saperla più lunga di loro è un personaggio fuori dall'ordinario, un bambino lafkenche (i lafkenche, "Gente del Mare", sono uno dei gruppi degli indigeni Mapuche, per i quali le balene sono sacre). Da una conchiglia portata dal bambino lafkenche e avvicinata all'orecchio del narratore, sgorga allora una storia. E' la balena a dire «io», lei a raccontare della paura che incute agli uomini, degli incontri con i balenieri, di come i capodogli devono difendersi non solo dagli umani, ma anche dal mare e dalle sue tempeste…

    "La balena parla di ciò che muove gli uomini" si intitola uno dei capitoli di questo libro, ed è quello che fanno gli animali delle favole: spiegare agli uomini chi sono gli uomini, metterli davanti allo specchio. Servono un capodoglio dall'altra parte dell'oceano, una conchiglia parlante, la ritrosia e il coraggio di un bambino indigeno per scoperchiare i nostri movimenti più segreti. Serve lo sguardo di un grande scrittore per seminare pace e amicizia senza lasciare tracce di stucchevolezza. Secondo un antico rito, quando un lafkenche moriva il suo corpo doveva essere disteso sulla riva del mare con il viso rivolto al cielo e dieci pietre turchesi sui palmi delle mani. Quelle pietre erano il compenso per le balene, che avrebbero traghettato la sua anima sull'isola Mocha. Se sono le balene ad accompagnare gli umani nell'aldilà, dev'essere vero anche il contrario: ecco come l'addio alla balena del bambino misterioso diventa anche quello dei pescatori, dello scrittore, di tutti noi.
    Ultima modifica di Blue; 10-05-20 alle 13:47

  10. #10
    Blue
    Ospite

    Predefinito Re: Luis Sepúlveda, in memoriam

    Gli scritti politici




    «Quando vivi intensamente, capisci presto che la cosa più facile, più normale, è il fallimento.
    Però solo dai fallimenti ricavi una lezione.
    La nostra generazione è segnata dai fallimenti.
    Oppure si potrebbe dire che procede di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria finale.
    »
    (Luis Sepúlveda)



    L’intensa vita di Luis Sepúlveda, così come le sue opere, incluse quelle di narrativa, sono disseminate di riferimenti biografici e politici. E non poteva essere altrimenti per chi, come lui, ha combattuto per tutta la vita contro il potere tiranno (i dittatori dell'America Latina, ma anche le multinazionali che avevano condannato i Paesi del Cono Sud ad una dipendenza economica simile alla schiavitù) e la politica l'ha vissuta – e subita – sulla propria pelle. Scrivere e raccontare era, per lui, un modo di difendere le idee nelle quali credeva, per denunciare soprusi e infamie e ricordare i compagni caduti, «per dar voce a chi non ha voce». Una filosofia che si potrebbe riassumere in questo passaggio de "Le rose di Atacama":

    «O sei degli altri o sei dei nostri. E chi sono i nostri? Quelli che sono stati fottuti, quelli che vengono sconfitti senza che nessuno gli abbia chiesto se volevano perdere. E quelli che danno il meglio di se stessi senza aspettarsi ricompense o riconoscimenti.»


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    "Le rose di Atacama" (Guanda 2000), uno dei capolavori dello scrittore cileno, è una raccolta di 35 racconti di uomini e di donne che hanno in comune la volontà di lottare per i propri ideali e di non piegarsi alle prepotenze. I luoghi dove si svolgono le storie narrate toccano tutti i punti estremi della Terra: dalla Patagonia alla Norvegia, dall'Argentina alla Russia, passando per i campi di sterminio nazisti e le prigioni di Pinochet, le terre lapponi e le isole dell'Adriatico. I protagonisti sono personaggi "minori", uomini e donne perseguitati, torturati, uccisi dalle dittature nel mondo, storie che l'autore ha raccolto nei suoi continui pellegrinaggi di esule. Attraverso una scrittura controllata e del tutto priva di retorica, l'autore riesce a conferire umanità e dignità a tragedie e vicende a volte terribili, altre volte ironiche, allo scopo di restituire a questi sconosciuti eroi quotidiani un posto nella Storia, nonostante il loro ruolo marginale.


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    "Raccontare, resistere" (Guanda 2002) - Nel corso di una lunga conversazione con Bruno Arpaia – scrittore italiano che, per inclinazione letteraria e conoscenza del mondo latinoamericano, rappresenta per lui un'ideale sponda dialettica – Luis Sepùlveda affronta molti dei temi che lo coinvolgono e lo appassionano: il ruolo della sinistra di ieri e oggi; la sfida dei movimenti no-global; il significato dell'impegno ambientale; la letteratura latinoamericana al di fuori di schematizzazioni e luoghi comuni; le varie forme di lotta, il carcere, l'esilio. Una confessione a tutto campo, che si confronta con gli stimoli, le domande e talvolta il dissenso dì un narratore che verifica nella propria scrittura il ruolo della letteratura, intesa anche come testimonianza.


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    "Il generale e il giudice" (Guanda 2003) - Dopo aver lasciato la presidenza del Cile, nel 1990, Augusto Pinochet continuò ad avere incarichi come capo dell'esercito e poi fu nominato senatore a vita. Quando, nell'ottobre del 1998, l'ex dittatore venne arrestato a Londra – su mandato internazionale per crimini contro l'umanità, emesso dal giudice spagnolo Baltasar Garzón – Sepúlveda si schierò in prima linea con articoli e interventi appassionati (tutti raccolti in questo libro) per chiedere l'estradizione di Pinochet. La battaglia legale andò avanti fino al marzo del 2000, quando l'Inghilterra decise di negare l'estradizione a causa delle precarie condizioni di salute dell'anziano generale. Questa, scrisse Sepúlveda, «è la vittoria dell'infamia. Che la memoria di chi fu eliminato dalla dittatura non sia cancellata!» e aggiunse il nome del premier britannico Tony Blair all'Enciclopedia dell'infamia. Lo scrittore sperava che tante vittime della dittatura potessero alla fine ottenere giustizia e che nel suo Paese si potesse finalmente cambiare la Costituzione, che ancora oggi è quella redatta da Pinochet.


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    "Un sporca storia" (Guanda 2004) è una raccolta di annotazioni, spunti e riflessioni su vari temi, raccolti dallo scrittore su taccuini Moleskine fra il gennaio 2002 e il marzo 2004. Accanto a storie ascoltate on the road, ritratti di amici scomparsi (Manuel Vázquez Montalbán, Francisco Coloane) e denunce ambientaliste, in questo saggio più che altrove si coglie forte e chiara la natura rivoluzionaria e indomita dell'autore: una persona che, per dirla con parole semplici, di certo non le manda a dire. Tra i temi principali ci sono l'amore per la propria terra (mai espresso a livello di vuoto e incallito nazionalismo), il rispetto della libertà individuale, la necessità di comprendere che l'America Latina non è un giocattolo nelle mani degli Stati Uniti e delle multinazionali. E poi la rabbia impotente per il golpe di Pinochet, i diritti violati, i desaparecidos, le ingiustizie, l'apatia del G8 riguardo i problemi mondiali, le guerre (principalmente quella in Iraq) e la delusione di vedere, spesso, che i cambiamenti auspicati non vengono mai messi in atto. Tutto ciò si traduce, nella maggior parte dei casi, in un attacco feroce contro i principali responsabili dello status quo: l'allora presidente George W. Bush (definito spesso, con ironia, «l'intellettuale texano»), l'allora presidente del governo Aznar, l'allora primo ministro francese Chirac. C'è anche uno spazio dedicato al "nostro" Berlusconi, di cui lo scrittore denuncia gli scandali e la probabile connivenza mafiosa. L'ardore politico di Sepúlveda, misto alla denuncia e ad una rabbia feroce, riesce a volte a strappare un sorriso amaro.


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    "Cronache dal Cono Sud" (Guanda 2007) contiene una raccolta di articoli che lo scrittore cileno ha pubblicato sui quotidiani "Repubblica" e "Manifesto" tra tra la primavera del 2005 e il dicembre del 2006, dopo la morte di Pinochet. Un anno e mezzo di vita e di passioni, di entusiasmi e delusioni, narrati sempre con franchezza e a volte con rabbia impotente: vere e proprie invettive, soprattutto verso il dittatore e i suoi fiancheggiatori, che hanno coperto e spesso avallato gli orrori della dittatura: la DINA ("Dirección de Inteligencia Nacional", la polizia segreta cilena durante la dittatura), i carabineros, la Corte Suprema e gli Stati Uniti di Bush, ma anche Blair, Sarkozy e Patricio Aylwin, primo e discusso presidente cileno del dopo-Pinochet. Proseguendo nella lettura, una boccata d'ossigeno arriva quando l'autore si sofferma a parlare della rinascita politica in Cile, rappresentata dall'elezione a presidente di Michelle Bachelet, figlia di quel generale Alberto Bachelet torturato a Villa Grimaldi e infine assassinato per non essersi piegato alla dittatura. Lungo poco più di 100 pagine, su tutto il libro incombe la figura del dittatore, ancora vivo durante la stesura del volume e infine morto «senza pena né gloria, così come ha vissuto i suoi novantuno anni di miserabile vigliacco, a cui si riconoscevano solo tre talenti: tradire, mentire e rubare».


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    "Ritratto di gruppo con assenza" (Guanda 2010) - Qui Sepúlveda ripercorre i lunghi anni di esilio lontano dal Cile in una lunga catena di storie, di racconti, di volti e di voci, dai quali traspare soprattutto l'amore: amore per il proprio Paese, per i propri ideali, per i compagni che lo hanno seguito negli anni della dittatura. Lo spunto per il titolo dell'opera è offerto dal primo racconto: uno scatto della fotografa tedesca Anna Petersen a La Victoria, uno dei tanti quartieri poveri e popolari della periferia di Santiago del Cile. Una fotografia, donata anni prima a Sepúlveda in ricordo della sua terra – un gruppetto di sorridenti volti infantili – offre allo scrittore il pretesto per tornare nella sua patria dopo il lungo esilio: un viaggio compiuto insieme all'amica fotografa, per cercare quel gruppetto di ragazzini e provare a fotografarli di nuovo dopo il lungo tempo trascorso.

    Riferimento per la ricerca del gruppo è il Loco Garrido - don Antonio - ex pugile, che negli anni '60 era diventato campione sudamericano del pesi welter, ora ridotto ad un sorriso sdentato e ad un volto pieno di rughe. E' il nonno dei quattro ragazzini immortalati in quella foto di tanto tempo fa. Marcos – il più sorridente del gruppo – che abbraccia Jorge. Ma Marcos oggi non c'è più perché è stato ammazzato a quindici anni da un carabinero mentre rubava un sacchetto di cibo. Oltre a Marcos e Jorge, nella foto c'è Henry, anche lui sorridente, prima di scappare a scuola a mangiare il suo unico pasto caldo della giornata, come spiega il Loco Garrido. E poi c'è Cecilia, una bella ragazza di diciassette anni che ha paura di sognare perché i sogni sono solo bugie…

    E' una storia di assenze quella raccontata da Sepúlveda... assenze che diventano via via più palpabili man mano che si procede nel racconto: è l'assenza dei desaparecidos, dei giovani uccisi senza motivo, di quelli spariti nel nulla. Ma la tristezza non ce la fa a diventare incombente, perché l'autore riesce a mitigarla con l'ironia delle descrizioni degli amici ritrovati, oppure con la speranza che traspare dalle pagine di questa e di altre storie contenute nel volume.

    Negli altri racconti (la raccolta ne contiene in tutto 26), la galleria di personaggi è quanto mai varia e, anche se si avverte tra le pagine un latente senso di perdita, l'autore non cede mai al pessimismo. A vincere, anzi, è la speranza nel futuro per il suo Paese appena uscito dalla dittatura. Da vero cosmopolita, avendo vissuto a nord e a sud del mondo, Sepúlveda tratteggia con uguale partecipazione vicende lontane fra loro nel tempo e nello spazio: racconta di combattenti valorosi e di bambini senza futuro, di una Miss colombiana che muore durante un intervento di chirurgia plastica, di una signora sovietica… Tra i tanti incontri spicca quello con un vecchio che, nella foresta amazzonica, vive isolato in una capanna e legge romanzi d'amore: il personaggio che tanti anni prima lo aveva ispirato nel suo fortunatissimo romanzo.
    Ultima modifica di Blue; 14-05-20 alle 21:34

 

 
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