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    Predefinito Per Arturo Carlo Jemolo (1981)



    Arturo Carlo Jemolo (Roma, 1891-1981)



    di Giovanni Spadolini – In «Nuova Antologia», fasc. 2137, gennaio-marzo 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 20-48.


    1. Il testimone del tempo

    Viale Mazzini 9. Un palazzo borghese di decoro fra umbertino e giolittiano. Scale larghe; stanze grandi; soffitti molto alti. Il respiro del «mondo d’ieri»; il ricordo di una civiltà fondata su forme di istintiva urbanità e di esteriore distinzione. Arturo Carlo Jemolo abita da quasi trent’anni all’ultimo piano di questo edificio, in quella Roma che una volta era dell’alta burocrazia e oggi tutto ha contaminato e confuso. Il queste stanze, senza nessun lusso ma con civile proporzione degli oggetti e una punta di ostentato «passatismo», ha atteso – con schiva riservatezza, cercando di nasconderlo il più possibile – il novantesimo compleanno scoccato il 17 gennaio 1981 (per intendersi, è nato, Jemolo, il 17 gennaio 1891, presidente del Consiglio Francesco Crispi in procinto di lasciare il posto al marchese Antonio Di Rudinì: già ministro del Tesoro, in quel gabinetto Crispi, il futuro implacabile avversario dello statista siciliano, cioè Giovanni Giolitti). «Per carità, che nessuno pensi a mandarmi auguri»: aggiunge.
    Siamo alla vigilia di Natale, e solo per questo motivo Jemolo mi riceve in casa. Di norma, tutte le mattine, egli si reca nel vicino studio di via Paolucci de’ Calboli, dove mancano ormai quasi tutti i libri (ceduti a una biblioteca universitaria), dove si accumulano solo, con apparente distrazione, gli annali delle riviste specializzate di giurisprudenza, dove l’unico esemplare, e forse incompleto, delle tante opere e operette di questo straordinario maestro è confinato nella stanza della segreteria, con una punta di distacco rasentante l’automortificazione (un fondo di auto-flagellazione ha sempre caratterizzato il pensiero di Jemolo, in una linea di pessimismo non senza trasalimenti giansenisti).
    Uno studio che vede ancora svolgersi, con puntigliosa diligenza, il suo lavoro di avvocato – fino a un anno fa regolarmente impegnato in Cassazione, ora piuttosto incline a riservare, o meglio a regalare soltanto pareri – alternato al lavoro dello storico, dello studioso, del giornalista grande che egli è: capace di trarre una morale dal più piccolo o malinconico episodio della cronaca, lettore avido di libri ma soprattutto scrutatore di una realtà, anche di una realtà sociale, che per lui non ha misteri, né conosce limiti.
    Giornalismo. Parliamo in primo luogo della sua collaborazione alla «Stampa» e alla «Nuova Antologia», vecchia la prima di tre decenni, la seconda di sei, cui Jemolo è affezionato come a una seconda vita. Il tavolo del salotto da pranzo è ingombro di libri: scorgo l’ultimo volume della «Storia della Chiesa» diretta da Hubert Jedin che gli ha offerto lo spunto per una radiografia, in qualche punto impietosa, della Chiesa di oggi.
    L’aria è claustrale; questo laico credente nella ragione (ma senza mai separarla dalla grazia) vive in un clima ovattato di sospensioni o di vibrazioni religiose. Le sedie della tavola da pranzo sembrano tratte da un convento: un cancelletto di vaga rimembranza ecclesiastica divide quella stanza dallo studio che abitualmente appartiene alla moglie, ora inferma, e dove qualche volta posa il suo lavoro (solo le pareti di quella stanza piene di libri: «ma sono – precisa Jemolo con una punta di civetteria – romanzi, libri narrativi, libri qualunque»).
    La retorica dell’antiretorica: non c’è alle pareti un quadro che si colleghi alle tante battaglie civili o politiche di Jemolo, tutto è decoroso ma casuale, pitture di paesaggi si alternano a dipinti vagamente religiosi, un singolare Rosai (forse donato da qualche cliente stupito delle famose basse parcelle di Jemolo) rompe la monotonia di opere senza storia in quello che una volta si definiva il «salotto buono», tenuto in penombra o mezza penombra per non sciupare tappezzerie e vecchi mobili.
    Mi parla dei suoi progetti di lavoro. Ci scambiamo opinioni, pareri. Debbo preparare una nuova edizione di Questa Repubblica, il bellissimo diario che sono riuscito a trarre da un decennio di collaborazione alla «Stampa», il decennio che va dalla contestazione del ’68 all’assassinio di Aldo Moro; egli mi ha raccolto tre cartelle spesse di articoli successivi al ’78, un centinaio nel complesso, perché io possa sceglierne nove o dieci destinati ad accrescere l’edizione, a rinfrescarla e aggiornarla (preferisce una sopraccoperta diversa, quell’immagine di Moro lo rattrista troppo, qualche mese fa ha invocato una tregua nelle polemiche retrospettive sullo statista pugliese, ha ricordato i detti tradizionali sui morti, «vive nelle opere, vive nel ricordo il cristiano»).
    La memoria è prodigiosa. Frammenti di anni lontani si uniscono a squarci del tormentato presente, insondabile per entrambi. Parliamo di Buonaiuti: in una lettera inedita del gennaio 1930, che Jemolo mi fa leggere, che mi consentirà poi di pubblicare, si vede la tenaglia in due tempi che si stringe intorno allo studioso per imporgli la suprema mortificazione dell’applicazione del Concordato fresco d’inchiostro ai «sacerdoti apostati o irretiti da censura» che non potevano tenere cattedra universitaria né ricoprire impieghi pubblici: si liberasse, il cattolico sconfessato ma ancora fedele alla Chiesa, dall’abito ecclesiastico prima che la legge civile gli strappasse l’abito accademico.
    Da Buonaiuti il discorso porta, per una successione singolare, a Paolo VI, un Papa che Jemolo ha molto amato e che ne è stato riamato: attingendo a quel singolare archivio, il vecchio amico mi fa vedere una lettera autografa di Papa Montini, nel giorno dell’Epifania 1971, in ricambio di augurali pensieri del destinatario. «Veramente il peso della croce si aggrava sulle deboli spalle; e, com’Ella può immaginare, la recente questione del divorzio in Italia mi ha lasciato molto afflitto e sorpreso per tante ed evidenti ragioni». Un linguaggio umano, problematico, quello che rendeva caro Paolo VI anche per i suoi infiniti perché, per i suoi laceranti dubbi (il Pontefice «sorpreso» dal divorzio!).
    «Papa Wojtyla non ha dubbi»: osserva Jemolo. Il giudizio sul nuovo Pontefice è del tutto diverso. Egli ne apprezza l’attivismo, l’instancabilità, la capacità di comunicare con le folle: «tutte doti da leader politico», aggiunge. Ma si sente che nel credente Jemolo un dubbio, appena affiorante, sussiste sull’utilità di accavallare tante missioni, l’una dietro l’altra intrecciate, in questa specie di gara smisurata contro il tempo: «non è detto – aggiunge – che ogni successo spettacolare contribuisca all’accrescimento della fede».
    Jemolo rievoca, con portentosa precisione, uomini e cose dell’Italia lontana e recente. Fra gli uomini di Stato del dopoguerra, forse il prediletto è Einaudi, per la sobrietà piemontese, per quella secchezza di stile, da servitore dello Stato. Rispetta De Gasperi, di cui fu critico anche severo durante gli anni del centrismo. Ha molta ammirazione per Sturzo, e in pieno ’53 lui, avversario della legge maggioritaria, difese Scelba. Non era in confidenza con Moro, alla cui memoria si inchina. Ha avuto maggiori rapporti con Andreotti, di cui segue con interesse e stima le pubblicazioni, piene di ironia ma anche di cose, sulla Roma papale; fu Andreotti a inserirlo nella delegazione della Santa Sede per la revisione del Concordato (lui, l’uomo che nel ’44 aveva auspicato la «pace religiosa» degli italiani senza corazze e usberghi concordatari) dopo che Gonella l’aveva compreso nella prima commissione di studio, di cui toccò a me pubblicare gli atti.

    (...)
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  2. #2
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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    2. Una polemica con La Malfa

    Jemolo ricorda una polemica ad armi cortesi con Ugo La Malfa sul «Mondo» del gennaio-febbraio 1954: l’esponente repubblicano, rilanciando una proposta di terza forza, aveva insistito sui valori creativi potenziali di una borghesia che già allora si impigriva nell’assistenzialismo e nel corporativismo.
    Singolare polemica, in verità. Erano i giorni in cui Gaetano Salvemini, smagato dalla esperienza della legge maggioritaria del giugno ’53 che egli aveva pur condiviso («turandosi il naso»), incitava i partiti laici minori, in particolare liberali e repubblicani, a formare un’aggregazione comune, a tentare un cartello. La Malfa non era ancora in maggioranza nel suo partito; il suo «riformismo» azionista e neo-illuminista godeva di molto rispetto ma non di altrettanti consensi.
    L’esperienza del centrismo, per il futuro leader repubblicano, era chiusa. La Malfa aveva chiesto ospitalità al direttore del «Mondo» per scolpire, a puntate, i lineamenti di un programma, di un programma radicato nella società ma estraneo a intese di vertice, volto a indicare una strada nuova per la democrazia laica, in lui da sempre di ceppo amendoliano. Il 17 gennaio, prospettando una piattaforma ideale e pratica di azione, La Malfa consigliava all’Italia una meditazione su due temi fondamentali: il new-dealismo da una parte, il laborismo dall’altra.
    Soffermiamoci un momento sul pensiero lamalfiano: «Il punto che ha marcato il trapasso sia nella esperienza americana del New Deal, sia in quella inglese del laburismo, da vecchie concezioni economiche e sociali, da luoghi comuni tradizionali, a nuove concezioni, è stata la politica del risparmio forzato e dell’austerità, accettata dalla collettività tutta ai fini della soluzione del problema del pieno impiego e della sicurezza sociale. Senza uno sforzo generale, senza una politica che ha premuto sui redditi dei cittadini che ne godevano, per creare possibilità e occasioni di lavoro per cittadini che non ne godevano o ne godevano in misura infima, il problema della stabilità sociale nei paesi di moderna democrazia non sarebbe stato risolto. E il dilemma comunismo-anticomunismo si sarebbe presentato acuto in altri paesi, così come è acuto oggi in Italia.
    «La democrazia italiana – sono gli stessi accenti di vent’anni dopo della ‘Caporetto economica’ – non può salvarsi senza tentare questa strada e senza chiamare tutti gli italiani ad avere coscienza del loro problema nazionale e sociale.
    «Una impostazione di questo genere – prosegue La Malfa – tocca in primo luogo la borghesia, e la borghesia di ogni grande condizione. Una borghesia che si diletta di alimentare i suoi giornali con attacchi contro l’intervento dello Stato, che non riesce a compiere il proprio dovere fiscale, che non riesce a capire come lo sperpero di redditi in consumi voluttuari condanni un ordinamento libero al suicidio, è una borghesia che ha già consegnato la sua testa al comunismo. L’abilità che la borghesia italiana ha avuto sempre, e soprattutto in questo dopoguerra, di alimentare nel quadro di un’economia nazionale povera una economia superlativamente ‘ricca’, tale da meravigliare svizzeri o americani, ha veramente del prodigioso.
    «Poiché in effetti – continua ancora l’esponente repubblicano – questa è la strana condizione dell’economia italiana: essa non è una economia unitaria. Come tutte le economie depresse, essa presenta nel suo vasto quadro di povertà un’area più ristretta di economia ricca, dispendiosa, altamente voluttuaria. E le due economie rimangono estranee l’una all’altra: la capacità di alimentazione di una economia ricca che ha la borghesia di Milano, o, in limiti più ristretti, la borghesia e l’aristocrazia di Roma, di Napoli o di Palermo, ha del sorprendente.
    «Una vera politica ‘sociale’ di un partito di sinistra moderno – conclude La Malfa – frantuma inflessibilmente queste aree di economia ricca e conduce tutti gli italiani a comprendere il carattere vero della loro economia, che è quello di una economia povera, faticosamente rivolta a dar lavoro a tutti, e quindi obbligata a eliminare investimenti e consumi ‘voluttuari’, per alimentare produzioni e consumi ‘primari’». C’erano già nel ’54 i germi del «patto sociale».
    Jemolo militava in «Unità popolare», aveva condiviso con Calamandrei la battaglia contro la legge maggioritaria. Aveva punti di confluenza con gli amici del «Mondo», ma anche punti di netta differenziazione. Eppure una frase di La Malfa lo aveva molto colpito. Quella così severa, così tagliente sulla borghesia. In una «lettera scarlatta» uscita sul «Mondo» il 2 febbraio 1954, l’insigne studioso si domandava: «Dovrebbe allora darsi un giudizio di mancanza di intelligenza sulla borghesia italiana? Sono un grande lettore di memorie e di documenti dell’ultimo Ottocento, dove si sente spesso ripetere da uomini di varie tendenze, che, per quanto lo zarismo fosse uno scandalo agli occhi di anglosassoni, di tedeschi, di latini, pure era il solo regime che convenisse ai russi, che non avrebbero potuto né voluto essere governati diversamente. Giudizi d’inferiorità politica si sono più volte sentiti dare di altri popoli e classi: incapaci di comprendere od incapaci di adattarsi ai rimedi occorrenti per salvarsi, o per raggiungere un più dignitoso regime di vita politica.
    «Ma mi sembrerebbe ingiusto – replicava Jemolo – sentenziare così severamente della borghesia italiana; non solo per il favorevole giudizio che merita tutta la sua opera lungo l’Ottocento, ma perché ancora nel ’44-’45 vedemmo fervore di rinnovamento e le classi industriali, i ricchi, apparvero allora disposti a compiere i sacrifici necessari per la salvezza della borghesia.
    «Direi che la borghesia italiana – è la conclusione finale – non è né stupida né conta di consegnare la testa al comunismo».
    Piuttosto, aggiungeva ancora Jemolo, c’è il timore di una soluzione autoritaria, di un colpo di forza tipo ’21-’22, da destra, con l’aiuto degli Stati Uniti, o meglio della destra degli Stati Uniti (la signora Luce era ambasciatore a Roma).
    La risposta di La Malfa è nello stesso numero. «La verità è che è il mondo anglosassone che si contrappone al comunismo con la forza delle sue convinzioni democratiche e del suo vivere libero e umano. L’Occidente è debole in noi: nell’Italia e nella Francia, nei paesi che non hanno saputo amare veramente né la libertà né la giustizia sociale, che vissero di egoismi, di paure e di chiacchiere demagogiche. Il comunismo non ha forza verso l’Occidente: ha forza verso il falso Occidente».
    Non mancherà una coda polemica nel fascicolo del 16 febbraio. Jemolo si sentirà colpito, anzi ferito, da un accenno involontario al «veleno» comunista. La Malfa lo tranquillizzerà: «Se mi consente l’amico Jemolo invertirei il paragone. Noi non siamo quelli che dicono di ogni avversario che si avverte in lui ‘tracce del veleno protestante’ o ‘dell’eresia modernista’. Noi siamo quelli che ogni giorno dobbiamo lottare per essere ‘protestanti o modernisti’. Poiché dobbiamo lottare ogni giorno contro il dogmatismo della sua vita moderna, che non si esprime soltanto attraverso le idee dell’ ‘integralismo cattolico’ o il ‘maccartysmo’; ma altresì, e fortemente, attraverso le idee dell’integralismo marxista leninista».
    Un quarto di secolo più tardi, Jemolo parlerà come il La Malfa del ’54, e anche con qualche maggiore durezza sull’integralismo marxista-leninista. Ricordo il singolare, e dimenticatissimo, episodio col vecchio amico.
    «Nei riferimenti di La Malfa alla borghesia – commenta, rasserenato, disteso, il novantenne Jemolo – c’erano gli stessi accenti di Giovanni Amendola». E soggiunge: «In Amendola c’era una punta mazziniana. Attento a non dimenticare che in Italia c’è un ruscello mazziniano, un filone mazziniano. È esile ma purissimo. Era nell’animo dei Rosselli. È stata la sola fede laica capace di contrapporsi al Papato».

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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)





    3. Il culto della ragione

    La linea complessiva di Jemolo, quale emerge dalle pagine degli ultimi quindici anni, particolarmente ricchi di commenti politici e di costume, è quella di un «conservatore progressista», nel solco della grande tradizione risorgimentale. Mai nostalgico dello statu quo sul terreno sociale, mai inclinato, Jemolo, sul piano dell’accigliato conservatorismo di classe: l’uomo che votò per la sinistra più avanzata del 1948, che combatté apertamente la legge maggioritaria di De Gasperi nel 1953, che fu al fianco di Calamandrei e di Salvemini, collaboratore costante del «Ponte» quando scrivere sul periodico fiorentino significava qualcosa sul terreno delle scelte politiche, e non solo politiche. «Non ho mai votato per la democrazia cristiana», aggiunge, in una delle schede di Questa Repubblica.
    Libero da ogni tentazione di potere, da ogni desiderio di cariche: dopo la lontana magistratura commissariale nel campo dell’ex-EIAR, nuova RAI, occupata nei mesi della liberazione, e con qualche traccia perfino in pagine recenti – si veda il capitolo sulla «televisione che vorrei» in Questa Repubblica -, mai un incarico pubblico di qualche rilievo, nessun riconoscimento che non fosse scientifico o accademico (a non voler considerare il compito, non richiesto, spesso oggetto di fraintendimenti o di polemiche, di negoziatore col Vaticano per conto del governo italiano, nella commissione Gonella, prima e seconda, in vista della revisione dei patti lateranensi, un capitolo importante nella storia civile e intellettuale di un cattolico intimamente e coerentemente anti-concordatario quale è rimasto in ogni momento Arturo Carlo Jemolo).
    Sempre nelle condizioni migliori, per giudicare la lotta politica, le sue contraddizioni, i suoi sottintesi, le sue ipocrisie. L’abito dello storico e del giurista prevalente, in ogni momento, anche nei commenti dettati all’improvviso per la «Stampa», su quello del commentatore, obiettivo o distaccato. Quale, in genere, Jemolo non è, per la sua tendenza connaturale ad andare contro-corrente, a sfidare gli idola fori o gli idola tribus dell’ora, a rifuggire da qualunque forma di conformismo, di snobismo, di assuefazione alle mode.
    Ma conservatore di certe tavole di valori della società o della civiltà, sì. È il suo modo di porsi, singolare e inconfondibile, di fronte alla contestazione. Non spirito laudator temporis acti, non nostalgia di vecchie strutture o di antichi ordinamenti per tanti aspetti fondati sull’ingiustizia, su discriminazioni mai accettate, su gerarchie non più corrispondenti ai meriti, neanche nel campo della cultura o dell’università; ma coscienza, fermissima, lucidissima sempre, che nessun rinnovamento è possibile nella confusione, nella devastazione delle regole inseparabili dalla ragione, e dall’umanità.
    I nemici della ragione: è un articolo del 30 maggio 1974, che si inserisce in un coerente atteggiamento sull’ombra della violenza che accompagna il decennio ’68-’78, la strage di piazza Fontana, la strategia della tensione, l’affare Sossi (con tante ombre), le polemiche sui servizi segreti, il primo insorgere di un terrorismo armato destinato a culminare nella tragica vicenda Moro, quasi una forma suprema di espiazione.
    Ecco perché, come tutti i conservatori veramente illuminati, e disinteressati, Jemolo sfugge a qualunque classificazione. Le sue tesi talvolta coincidono con posizioni che, nello sfumato o allusivo linguaggio politico, si classificano di destra; talvolta sopravanzano, nella loro schiettezza, nella loro spregiudicatezza intellettuale, quelle della più tormentata, o sofisticata, sinistra. Su tutto dominante un senso severo, austero, dello Stato. È un po’ la tradizione di Francesco Ruffini, il grande, sempre ricordato maestro, maestro di quell’ateneo torinese che fu fra le più alte fucine intellettuali degli anni fra il ’15 e il ’25; è un po’ il costume mentale del figlio di una piccola borghesia, che non rinnega le sue origini, che ricorda le tradizioni di altruismo, di sacrificio, di rinuncia, quelle immortalate nelle pagine, per tanta parte autobiografiche, di Anni di prova. E a proposito dei funerali di Ruffini, al cimitero di Borgofranco, come sono accorate, e commosse, le annotazioni del figlio Edoardo, nella testimonianza raccolta in questo fascicolo della «Nuova Antologia»: omaggio all’amico che saluta i novanta anni, con l’apporto di Norberto Bobbio, di Carlo Bo, di Edoardo Ruffini, di Paolo Barile, di Francesco Margiotta-Broglio.
    Di qui le invettive, coerenti e spesso sdegnate, contro la «malattia burocratica», contro le degenerazioni o deviazioni di quella burocrazia che pure, nel corso del suo lungo periplo umano, Jemolo ha avuto modo di apprezzare per le tenaci doti di sobrietà o di scrupolo, di cui riaffiora una memoria, talvolta elegiaca, in scorci o ritratti del passato. È la polemica sulle pensioni d’oro, sugli alti stipendi, che trova echi penetranti nelle sue pagine. È la linea, prefascista e su questo terreno quasi giolittiana, del «no» allo sciopero dei servizi pubblici, del «no» allo Stato che si occupa di tutto, centralizzatore nel male più che nel bene, sopraffattore di ogni slancio o energie individuali, livellatore nelle abitudini, tanto nazionali, dello spreco o della dissipazione.
    È la realtà malinconica di una burocrazia in crisi che si oppone, nell’arco del volume, alla meta di uno Stato da realizzare. Non con ossequio verbale e ipocrita alla «costituzione» tabù; Jemolo ha già messo in rilievo, con assoluta e quasi sprezzante indipendenza di giudizio, le insufficienze o le contraddizioni o le enfasi della carta costituzionale, quel «sincretismo» che tutto abbraccia ma lasciando aperti i varchi alla molteplice interpretazione o alla mascherata disobbedienza, quelle «formule», «la repubblica fondata sul lavoro», che sembrano appaganti ma in realtà alimentano frustrazioni, proteste, al limite rivolte. Ma piuttosto come ansia di una democrazia decentrata, fondata sul senso di responsabilità e sul dovere, capace di moltiplicare le energie dei suoi cittadini, con forme di solidarismo e di associazionismo in cui il vigoroso tronco cattolico-liberale dell’educazione, e della stessa preparazione giuridica, di Jemolo si unisce con una vena mazziniana, con una diretta derivazione dalla grande scuola democratica del Risorgimento.
    Nella primavera ’78, accingendomi ad ordinare in forma di diario le pagine sparse di Jemolo, che comporranno Questa Repubblica, mi trovai di fronte ad un saggio singolare e semiclandestino del vecchio amico, uscito negli estratti, tanto impeccabili nel nitore tipografico quanto introvabili nelle comuni librerie, dell’Accademia dei Lincei: Riflessioni critiche sulla Carta costituzionale. Erano pagine di parecchi anni prima, della fine del ’65, frutto di una relazione scientifica, o almeno presentata come tale, ma in realtà solcata da quella passione morale che sempre lievita nelle pagine di Jemolo, e le rende così spezzate, così scabre, così diverse da ogni altro autore, sui difetti, sugli squilibri, sulle lacune e sugli eccessi della Costituzione repubblicana.
    «Ho sempre confessato – cominciava Jemolo quella specie di sfogo autobiografico, dove il sapere giuridico era al servizio di una visione etica – di non amare la vigente Costituzione, pur con una completa adesione al regime che ha instaurato e alle sue grandi direttive: di non amarla per tutto ciò che ha di enfatico, di espressioni dal significato vago, di buoni propositi che nulla hanno di giuridico…». Decisi di aprire il diario di Jemolo con quella lontana e sconosciuta pagina ma di integrare la testimonianza- condanna con un altro articolo, questa volta sulla «Stampa», di tredici anni più tardi, uscito il 22 gennaio 1978, e quindi alle soglie di quella svolta del dramma italiano che sarà costituita dal rapimento di Moro, articolo che riprendeva gli stessi spunti ma li integrava con un confiteor rivelatore: «non sono così cieco da dare colpa alla Costituzione dei guai presenti: le Carte costituzionali contano assai meno delle passioni e delle capacità degli uomini; e credo che i nostri mali attuali si verificherebbero lo stesso se anche avessimo una Costituzione perfetta; uomini politici e giuristi sono sempre pronti ad appellarsi ad uno spirito delle leggi, per far dire l’opposto di ciò che le norme esprimono…».
    Le polemiche in corso sulla riforma costituzionale, talvolta aggressive e con una punta di autentico impatto nell’opinione pubblica, talvolta caratterizzate da una vena divagante e goliardica, mi hanno riportato a quelle pagine di Jemolo, a quella critica così penetrante ma anche a quel rattenuto senso del limite e della misura riaffiorante oltre il pessimismo connaturato al cattolico liberale, cui non è mai estranea una nota giansenista.
    E poiché siamo in tema di rievocazioni della Costituzione, e di ritorno al ’46, e di patti costituzionali, da varie parti invocati e da altre contrastati, dirò che l’accento di scontentezza e di insoddisfazione, da sempre emergente, rispetto alla Carta costituzionale, in uomini come Jemolo, caratterizzò anche alcuni grandi protagonisti della Costituente, a cominciare da un giurista sommo che a Jemolo fu profondamente legato, che di Jemolo ospitò, sulle pagine del «Ponte», gli sfoghi anti-centristi e anti-degasperiani ai tempi della controversia sulla legge maggioritaria, intendo dire Piero Calamandrei.
    Scontentezza della lettera della Costituzione, ma anche nella prassi, sovente degeneratrice. Saranno alcune delle pagine caratterizzanti del diario: un certo tipo di televisione, diversa dai mostruosi approdi di un monopolio statale che unisce le peggiori forme della dispersione privatistica, ma scaricandole sullo Stato; un certo tipo di tutela dei beni culturali, che si oppone all’abbandono o all’indifferenza di una classe politica per cui musei o biblioteche non costituiscono motivi di interesse perché privi di risvolti elettorali (caro Bianchi Bandinelli, quando come direttore generale delle antichità e belle arti chiedeva invano al ministro del tempo dotazioni che non servivano alla politica di potere del partito maggiore!); un certo tipo di esercito, dove si riproduce una determinata forma di selezione, dove non viga solo la regola dello «sfilare in piazza».
    Problematico, rispetto ai partiti. Una certa polemica, come quella, appassionata e veemente, di Maranini contro la «partitocrazia» non è passata senza lasciare qualche traccia nel pensiero di Jemolo. Troppo giurista, e garantista, per non avvertire la necessità insostituibile dei partiti nella dialettica della democrazia moderna; ma anche troppo fedele alle regole dell’individualismo liberale per non scorgere i rischi di partiti sopraffattori, monolitici, più apparati che vivai di energie, fondati su consorterie professionali inclini all’esclusivo e spesso spregiudicato professionismo. Quando si tratta di varare, a tempo di primato, la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, Jemolo manifesta il suo avverso pensiero, polemizza cortesemente anche col suo grande amico Casalegno; teme il sovrapporsi di più finanziamenti, il permanere segreto della corruzione plutocratica (e di più plutocrazie) accanto al canale prestabilito del dichiarato sostegno pubblico.
    Collegio uninominale? Rapporto diretto dell’eletto con l’elettore? I modelli di una certa vecchia Italia ritornano nelle pagine dell’ultimo Jemolo, senza sopravalutazioni encomiastiche ma con la coscienza di taluni dati essenziali, cui non si può venir meno senza comprendere i fondamenti della rappresentanza popolare, del suffragio universale; l’ostilità verso la proporzionale riaffiora in Jemolo come riaffiora in Valiani. Il nostro sistema elettorale non è giudicato il più perfetto, se ne denunciano anomalie, insufficienze, contraddizioni.

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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    4. Il colloquio coi morti

    In comune con Luigi Einaudi, Jemolo ha il culto del «buon governo». Gli anni, che vanno dal ’68 ad oggi, sono stati nell’insieme gli anni del malgoverno, soprattutto economico e finanziario, più accentuato che abbia conosciuto l’Italia repubblicana: non più le speranze, generose, del centrismo, quel senso di creatività, pure in mezzo a errori e schematismi, che caratterizzò l’epoca degasperiana, quel ricostruire dal nulla un’Italia distrutta, devastata nelle risorse materiali non meno che nei punti di riferimento della coscienza collettiva, neanche più le euforie e i fervori, magari immotivati, un po’ da anno mille, del primo centro-sinistra, quello delle attese messianiche e un tantino escatologiche.
    Dopo il ’68, è la crisi totale, crisi quasi di identità. Jemolo l’ha vissuta intera, e senza illusioni. L’irrompere del prepotere sindacale, senza una minima coscienza del ruolo organico, e collaborante, dei sindacati in una democrazia industriale moderna; l’«austerità rifiutata» (è il titolo di una pagina molto bella, del ’72). Le dilapidazioni e gli sprechi di una macchina statale che gira ormai all’impazzata, nell’acceleratore irresponsabile sulla spesa pubblica, senza più i necessari controlli di un potere politico esautorato, inefficiente, talvolta ai limiti del sonnambulismo. Sono scorci di Jemolo, che hanno qualcosa degli scatti o delle vibrazioni lamalfiane. Che ne direbbe Luigi Einaudi?; si domanda l’autore, il 17 agosto 1974, quando la crisi petrolifera ha già lacerato gli ultimi clichés dell’ottimismo convenzionale, da parata.
    Ma il vecchio studioso non si ritira nella tenda. La forza di Jemolo è di non confondere mai il suo magistero morale con l’evasione tribunizia, o con la raffica predicatoria. Quando si tratta di impegnarsi nelle battaglie civili, per un’Italia più giusta, più moderna, più europea, trovi sempre Jemolo dalla parte buona. Così nella battaglia per il divorzio, di cui affiorano tracce eloquenti nella sua battaglia recente; così nella lotta per l’ammodernamento del diritto di famiglia, sostenuta con coscienza «quiritaria»; ma mai con forme di oscurantismo. Ricordiamo con particolare commozione il cattolico Jemolo impegnato con noi, quasi giorno per giorno, sulle colonne della «Stampa», nel civile confronto sul referendum divorzista, che egli aveva fatto il possibile per evitare, come noi, di fronte alle incredibili illusioni della destra cattolica, ma di cui favorirà lo scioglimento in senso laico, con un vigore alimentato insieme dalla ricchezza della dottrina e dall’onestà della coscienza.
    «Stato e Chiesa»: sono i temi classici di Jemolo, che ritornano in tutti gli scritti, e sono tanti!, dedicati alla polemica sul Concordato, dal lontano 1968, allorché la revisione, voluta da Moro e da Paolo VI, dominante il centro-sinistra, guardasigilli il repubblicano Reale, rappresentò un indubbio passo avanti rispetto alle timidezze ed esitazioni del partito cattolico, fino al periodo 1976-1977, che vide lo studioso ancora in posizione di protagonista nel negoziato finale per la «renovatio» dei patti lateranensi. Piuttosto incline, nel cuore, Jemolo, alla tesi delle «foglie secche», un albero che cade da sé, tutto l’edificio concordatario, perché in contrasto con la coscienza collettiva, con la metamorfosi del mondo cattolico, con le deliberazioni del Concilio vaticano secondo: quasi «bis» della questione romana al termine del sessantennio post-unitario. Ma anche disposto, con senso di pubblico servizio, ad assecondare la potatura di quell’albero, come rappresentante dell’Italia, dello Stato, ad un solo patto, sempre ricorrente nelle sue pagine: che l’altra parte contraente dimostri di voler accettare modifiche radicali e profonde, non punti a forme di «gattopardismo», a modifiche solo di facciata volte a preservare privilegi comunque anacronistici, vinti dall’evoluzione dei tempi della società. Una questione ancora sospesa.
    Avanza, intorno agli anni settanta, il «clericalcomunismo»; si parla di Repubblica conciliare, Jemolo interviene; i suoi giudizi irritano lettori dell’estrema sinistra, che un tempo gli erano stati favorevoli, lo avevano talvolta portato sugli scudi. Ma la logica dello studioso e dello scrittore è perfetta: lo Jemolo che denuncia certi pericoli, che segnala certi trabocchetti, è lo stesso Jemolo del memorabile opuscolo della «nuova Italia» su «la pace religiosa d’Italia», una pagina del lontano 1944 che un giorno pure vorremmo ristampare. Una pace che ha, comunque, il suo presidio nella coscienza delle moltitudini, che prescinde dalle garanzie o dalle prerogative concordatarie, sempre labili, sempre mutevoli, al di là di qualunque ancoraggio a vecchi o nuovi «machiavellismi». Clericalismo e giurisdizionalismo, quasi sempre inseparabili, nei mutui favori, nelle reciproche e tollerate invadenza, negli ammiccanti approcci di potere, e talvolta di prepotere.
    Il volume Questa Repubblica si chiudeva con un epilogo originale sull’intero trentennio repubblicano, proiettato sullo sfondo di un ripensamento globale della storia d’Italia come nazione libera e civile. Sono pagine che integrano perfettamente il quadro, un quadro che diventa storico, e da grande storico, dopo tutte le amarezze, le confessioni, gli sfoghi del moralista.
    Quasi compendio finale delle occasioni mancate nella storia della Repubblica; quello che si poteva fare e che non si è fatto, la redenzione del Mezzogiorno (a proposito della Cassa, Jemolo scrive: «a rischio di scandalizzare, manifesto il mio pensiero, che si sarebbe operato più fruttuosamente per il Mezzogiorno, facendo spargere in biglietti da diecimila lire da elicotteri quelle somme sulle province meridionali»), la lotta alla disoccupazione e soprattutto alla disoccupazione intellettuale e giovanile, la battaglia per il decentramento, ma per quello vero, non camuffato dai nuovi orgogli o dalle nuove etichette regionaliste («le autonomie locali, il decentramento, tutti vi abbiamo creduto»: ma perché mantenere le province? Perché compensi a tutti? «Non si ammette che si possa più lavorare gratuitamente per il proprio paese»). Infine, negli ultimi anni, il terrorismo, i sequestri di persona, l’impotenza della polizia.
    Le conclusioni di Jemolo sono amare. «Sono svanite le grandi speranze che nutrivamo alla fine della seconda guerra mondiale; di una Italia che scrutasse se stessa, le sue possibilità, reprimesse gli egoismi, rialzasse il suo prestigio nel mondo con la giustizia sociale, che riuscisse a realizzare, con il buon governo, la buona volontà di tutti i suoi ceti sociali, il culto del lavoro…».
    «Nel breve tratto di strada che scorgiamo di fronte a noi, possiamo solo prevedere un inasprirsi di violenza, una povertà sempre crescente, un periodo caotico di terrore…». Sembra che il pessimismo di Jemolo tocchi in talune pagine recenti, quasi testamentarie, il suo acme. Non sono più gli anni di Chiesa e Stato, gli accenti altissimi di quella chiusa del libro decisivo per la nostra generazione: «Sul fresco cielo di giugno, appena lavato dalla pioggia, ti ergi chiara dinanzi ai miei occhi, cupola di San Pietro… Un secolo, la passione di tre, forse di quattro generazioni; l’affermarsi e il dissolversi delle tavole del liberalismo; l’inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal crollo delle speranze neo guelfe; breve momento, piccola storia nella eterna storia dei rapporti fra umano e divino». È una diversa e più sconsolata vibrazione umana, quasi la coscienza del fallimento di una generazione nel confronto coi problemi di una grande società che non è più quella agricola o pastorale dell’infanzia di Jemolo, che si è avvicinata alle tensioni e alle contraddizioni delle società industriali avanzate, condividendone tutti i tormenti senza, per ora, intravederne gli approdi.
    È l’invito di Jemolo a non piegare mai ai miti dell’ora, a ragionare con la propria testa. C’è una pagina di Anni di prova in cui spiega la sua naturale ritrosia a seguire fino in fondo Buonaiuti: «Non potei entrare nella cerchia dei fedelissimi, dei discepoli del cuore di Buonaiuti, per quella mia aridità, quel mio prevalere della ragione su ogni impulso, od almeno sottoporre ogni impulso al vaglio della critica, che non ha mai consentito di seguire al cento per cento alcun maestro, essendo sempre rimasto dissenziente intorno a qualche passo, a qualche riga, pure dei maestri più amati, e con cui mi sono trovato in fondamentale consenso nell’ambito delle idee, in armonia nel sentire».
    È quel «pessimismo incorreggibile», di cui parla Edoardo Ruffini nel saggio dedicato a questo numero della «Nuova Antologia». Con quel titolo, Una amicizia, che potrebbe rievocare il De Amicitia di Jemolo, uscito in queste pagine nel dicembre 1979: «Troppe cose si perdono del mondo che scompare: si nota spesso lo svanire del pudore, non solo quello del corpo, ma l’altro delle parole, dello scoprire la propria anima; ma io temo assai che scompaia anche l’amicizia».
    Tornano alla mente gli accenti conclusivi dell’epilogo a Questa Repubblica: «Quando rievoco i molti che divisero con me le grandi speranze del 1945 e degli anni immediatamente successivi, penso che sono stati amati da Dio quelli che hanno chiuso gli occhi in tempo per non vedere l’Italia del 1978». Di nulla serbo più caro ricordo delle parole con cui Jemolo definisce lo storico, nella prefazione alla bibliografia dei miei scritti di storia nel corso di trent’anni di insegnamento universitario, bibliografia raccolta dai miei allievi: «Lo storico è l’uomo cui piace di conversare coi morti. E ci sono morti presenti al pensiero dei contemporanei».

    Giovanni Spadolini

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    DOCUMENTI

    1. Manzoni e Jemolo

    Il dramma di Manzoni: fu il contributo che Jemolo apportò al centenario manzoniano nel 1973, col volume da me ordinato e pubblicato nella collana «Quaderni di storia». Come testimonianza dei mei rapporti con Jemolo, ristampo oggi, per i lettori della «Nuova Antologia», la prefazione a quel raro volume, una pagina del marzo 1973.




    Chi cerchi nelle «Cose italiane» della «Civiltà cattolica», l’attentissima rivista dei gesuiti, la notizia della morte di Alessandro Manzoni il 22 maggio del 1873 farà non poca fatica ad orizzontarsi. I sommari, sempre puntuali e diligenti, della rubrica riservata alle notizie dalla penisola («cose italiane» e «cose romane» saranno scrupolosamente distinte per parecchi decenni in omaggio alla pregiudiziale temporalista in favore del Papa «prigioniero» delle Guarentigie), non recheranno, al lettore di oggi, un aiuto immediato e diretto. Solo dopo un po’ di attenzione e di meditazione, il paragrafo 8 del fascicolo datato 13 giugno lo metterà sulla buona strada: «lutto della rivoluzione per la morte di varii suoi protagonisti; elogi funebri di Urbano Rattazzi», sarà il titolo testuale, dietro il quale si nasconderanno poche righe scarne, avare, notarili, non senza una vena di ironia, dedicate alla scomparsa del maggiore scrittore italiano dell’Ottocento, del cristiano sempre fedele alla sua ispirazione religiosa e alla sua Chiesa, dell’uomo cui lo Stato liberale e laico nato dal 20 settembre tributerà onoranze indimenticabili, con l’intervento di quattro principi reali, con la partecipazione di tutti i corpi organici della nazione. Lutto mescolato non a caso con quello del meno celebre duca Massimo di Rignano e con l’altro del tanto più discusso «Cavaliere dell’Annunziata» Urbano Rattazzi, il favorito della «bella Rosina», l’oppositore cortigiano.
    E lo spunto alla notizia della morte di Manzoni sarà dato, per gli estensori dell’ebdomadario, gesuitico, dell’impiego, eccessivo e ostentatamente criticato, della Guardia nazionale nelle onoranze funebri: spunto che permetterà al quindicinale della Compagnia di ricordare che «il mortorio di Milano per le spoglie dell’illustre romanziere e senatore Alessandro Manzoni sarà pomposo sì ma religioso eziandio». Quasi ad adombrare, con una nota di caustica severità, la doppia fedeltà dell’autore dei Promessi Sposi, la doppia obbedienza del credente nella patria italiana e del fedele alla religione dei padri: «I liberali – scriverà con aria volutamente affrettata e infastidita la ‘Civiltà cattolica’ – ne celebreranno i meriti sotto il riguardo del liberalismo; i cattolici pregheranno di cuore per lui, che certamente fu di sensi cristiani, ben costumato come si conviene ad un cattolico, e seppe con singolari pregi, qual letterato, congiungere al dilettevole l’onesto nelle sue scritture».
    Tutto qui: il romanziere e il senatore vengono insieme liquidati con queste frasi appena adatte ad uno scrittore marginale e periferico, ad un personaggio non solo contrastato ma di seconda fila. Bisognerà aspettare il fascicolo successivo per avere, non un’analisi approfondita e peculiare dell’opera manzoniana, ma una risposta irata e risentita alla «Nuova Antologia», che aveva celebrato Manzoni attraverso la penna di Giuseppe Puccianti, in un’apertura, seminascosta, della «Cronaca contemporanea», col sottotitolo «nostra corrispondenza» e il sarcastico richiamo a «Alessandro Manzoni e Giuseppe Puccianti» (che era già un modo di svalutare, nel debilitante confronto, lo scrittore sommo da poco spirato).
    Scritto, quello della «Civiltà cattolica», pieno di riserve e di cattiverie. Reso un omaggio di rito ai Promessi sposi, ma non senza richiamare le critiche e le riserve avanzate intorno al 1830 da un tale Paride Zaiotti trentino («non celebre ma degnissimo di celebrità»); contrapposto il Manzoni del romanzo celebre al Manzoni delle opere minori, «delle quali nessuno si terrà mai obbligato in coscienza a leggere ad ammirare tutto»; evocato l’autore degli Inni sacri solo per auspicarne l’ingresso nei libri scolastici, ingresso utile ma carico di pericoli per la massa di cattivi imitatori che potrebbe suscitare; ricordato di sfuggita il trageda dell’Adelchi solo per sottolineare, con non velato compiacimento, che quelle opere, alla pari delle prose didascaliche, letterarie, filosofiche e morali, «non passeranno mai, come finora non passarono, in quella che si chiama letteratura popolare e cristiana».
    Un misto di malignità e di ironie, destinato a culminare nell’attacco aperto, senza sottintesi, al patriota, al credente in Roma capitale, al fedelissimo dell’unità politica della nazione: un personaggio degno di don Ferrante («uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né di obbedire») ma che ubbidì a donna Prassede, cioè alla rivoluzione italiana, più che non don Ferrante, «il quale in certe circostanze sapeva dire di no». È il sì a Porta Pia che l’organo dei gesuiti non perdona; è l’abbraccio con Garibaldi che la rivista degli «ultras» cattolici non dimentica; è il viaggio a Torino nel giugno del 1860 per plaudire a Cavour che i «camelots» dell’infallibilismo pontificio non hanno mai scordato, con la conseguente accettazione della dignità senatoriale, con l’inserimento pieno in quella vita di pubbliche magistrature dalla quale il grande scrittore era sempre rimasto estraneo, irremovibile a tutte le pressioni e suggestioni del vecchio regime, anche nel corso della parentesi massimilianea, anche negli anni dell’ultimo tentativo di distensione con l’Austria fra 1857 e 1859.
    «Il Manzoni disse troppi sì alla signora rivoluzione»; è la sintesi, irritata e compendiosa, della «Civiltà cattolica». «Ond’è che ora Donna Prassede, che sopravvive, piange, non il defunto letterato, ma l’uomo compiacente che la secondava, persuaso di secondare i voleri del cielo, facendo lo sbaglio grosso di prendere per cielo ‘non il proprio cervello’ ma l’altrui, in certe cose di politica pratica: nelle quali non è forse gran colpa sua se egli non era che, come diceva Donna Prassede, ‘un letterato’».
    È difficile, in poche righe e sotto il manto di un rispetto formale, unire espressioni tanto insinuanti e limitatrici. Un Manzoni puro letterato, senza impegno civile che non fosse imposto da una convenienza ai tempi avanzanti; uno scrittore che non era capace di ragionare in politica col proprio cervello ma solo di adeguarsi, e per di più in modo compiacente, all’altrui volontà, alla volontà di quel liberalismo che – l’ha scritto l’estensione della nota poche righe prima - «non è un sistema politico, è un sistema antireligioso». E antireligioso in quanto «vuole il fine politico con qualunque mezzo, e come mezzo ad altro fine antireligioso».
    Sono accenti, quelli della «Civiltà cattolica», che risuoneranno largamente, in quei mesi o in quegli anni, sulle sponde degli intransigenti cattolici, non dimentichi dell’essenziale contributo morale che Manzoni aveva portato all’unità d’Italia con Roma capitale: soprattutto attraverso la sua discrezione, la sua convinta tranquillità d’animo, quell’avere accettato senza un tormento di coscienza, senza un’esitazione o un dubbio, l’unità politica della penisola previo lo smantellamento del potere temporale, previa la liberazione della capitale predestinata, previa l’accettazione franca e cordiale delle Guarentigie – ultima e riassuntiva espressione del liberalismo cavouriano.
    Un mese più tardi, sulle colonne della «Scuola cattolica» don Davide Albertario, il futuro prete rosso di Milano, il battagliero direttore dell’«Osservatore cattolico» che si contrapporrà con tutta la veemenza dei suoi sentimenti papalini agli indirizzi conciliatoristi e moderati della maggioranza del clero lombardo, rincarerà la dose denunciando «l’ingegno che abbracciò a mezzo la verità» e si educò alla vana speranza di conciliare la religione e la rivoluzione. Un motivo che tornerà in don Bosco, pronto e rilevare, fin dalle pagine della sua Storia d’Italia, «la cattiva impressione che gli adolescenti avrebbero ricavato dalla rappresentazione dei parroci»; un motivo che assumerà quasi consacrazione formale e ufficiale nel trattato di Theologia moralis di un autore riconosciuto dalla Chiesa, Pietro Scavini, attraverso la condanna di quella parte dell’opera manzoniana che poteva essere «perniciosa» per la satira della scolastica non meno che per la censura dei preti (trattato che non a caso vedrà la luce ad un anno di distanza dalla morte di Manzoni, nel 1874).
    E in tutta l’aspra polemica fra rosminiani e antirosminiani, che dominerà la Milano del processo Albertario-Stoppani, l’ombra di ‘don Lisander’ tornerà costantemente a ricordare l’innesto fra religione e libertà, l’incontro fra patria e fede realizzato spontaneamente e per forza d’animo e senza neppur l’ausilio di una particolare dottrina filosofica o di un impegnato programma politico. Ma fu veramente Manzoni un cattolico-liberale?: è il quesito che si ripropone oggi Arturo Carlo Jemolo nel capitolo forse più bello, e stimolante, e suggestivo di questa indagine manzoniana, scavata, approfondita, del tutto originale, che l’amico ha affidato alla nostra collana «Quaderni di storia» come contributo, di discussione e non di agiografia, al centenario manzoniano.

    ***

    È un quesito del tutto legittimo, quello che muove Jemolo, non meno dell’altro, che ispira il primo capitolo di questo volume, dedicato alle ragioni profonde dell’antipatia e dell’impopolarità che hanno sempre caratterizzato Manzoni, che non gli hanno consentito una popolarità, nel suo tempo o nella sua generazione, paragonabile a quella di un Carducci o di un D’Annunzio nelle generazioni successive. È un quesito legittimo che spinge Jemolo ad alcune delle notazioni più penetranti, più sottili e talvolta più paradossali dell’intero libro.
    «Il personaggio Manzoni sta sempre a sé»: è il punto di partenza dell’analisi di Jemolo, rispetto a tutte le varie correnti, o sottocorrenti, in cui si articola il cattolicesimo liberale, di derivazione francese o di rielaborazione italiana. Nulla di comune con la scuola del primo Lemennais, ripugnante ad ogni legame fra Trono e Altare. Non il presentimento o l’auspicio, che caratterizzarono altri filoni del cattolicesimo liberale d’oltralpe, di una Chiesa impegnata nella missione sociale, nell’emancipazione degli umili, nel riscatto degli oppressi, «desiderosa di bene, di azione conforme all’insegnamento evangelico». Non l’ansia, diciamo pre-modernista, di una libertà di ricerca nel campo della storia ecclesiastica, nel dominio delle origini cristiane. Non una fiducia dichiarata o motivata negli ordinamenti costituzionali, nei parlamenti, nel giuoco dei partiti, magari solo nelle forme caute o censitarie del suo Rosmini, amante di una Camera dei saggi, di un regime di notabili. Neppure il rovello, il tormento che angosciò Ricasoli, sulla possibilità di rinnovare la Chiesa dall’interno, attraverso il ritorno alle forme della democrazia medievale fermentanti nell’ambito stesso della comunità ecclesiale.
    Culto della libertà, ma in un senso che Jemolo avvicina a Muratori: «giusta libertà», senza eccessi, senza residui giacobini, ma anche senza intuizione di autogoverno. Ostilità alle dominazioni straniere: me senza che dai Promessi sposi traspaia una netta contrapposizione fra le regioni d’Italia dominate dallo straniero, la Lombardia sotto gli spagnoli per esempio, e i Medici o i Farnese o i Savoia, i principati indigeni, posti al riparo da infiltrazioni o da controlli di fuorivia. Un anti-temporalismo sussurrato, allusivo, discreto, quasi pudico, che lo porterà ad accettare la logica di Porta Pia senza traumi, senza vero travaglio; ma mai un accento che evochi le condizioni disastrose degli Stati della Chiesa, che arrivi anche alle tonalità di un D’Azeglio sugli ultimi casi di Romagna (senza parlare di un Farini).
    Un rapporto complesso e singolare, a giudizio di Jemolo, anche con Pio IX. Sì: Manzoni ritiene che Papa Mastai erri ritenendo necessario e irrinunciabile il potere temporale, è chiaramente per l’unità nazionale (come dimenticare la profonda simpatia di Mazzini per il notabile lombardo chiuso nella casa di via Morone?), va in Senato a votare per Cavour, arriva fino a ricevere affettuosamente Garibaldi, l’eroe dei due mondi il cui nome non si poteva neppure pronunziare senza profanare una chiesa, a parere di Davide Albertario. Ma contemporaneamente l’autore degli Inni sacri non mostra nessuna angoscia per il fatto che il Papa si accinga a proclamare il dogma dell’infallibilità, non pone mai riserve al primato di giurisdizione del Papa – un tema che tormenterà tutta la generazione cattolico-liberale -, non solleva dubbi o perplessità per l’altro dogma, quello dell’Immacolata concezione, né per la sostanza né per il fatto che sia suggellato dal magistero papale senza accertarsi dell’adesione preventiva di tutta la Chiesa, di tutto il corpo dei pastori.
    Può sussistere una vera e propria linea cattolico-liberale senza l’esistenza di queste premesse?: è il quesito di Jemolo, un quesito cui neppure il nostro autore risponde in modo definitivo, felice di averlo posto, di avere una volta di più rotto i tabù e le convenzioni retoriche, di aver riaperto un problema che merita di essere discusso e approfondito. Riavvicinandosi alla tesi del grande Francesco Ruffini – tesi che invano il mondo cattolico ufficiale respinse a suo tempo, quando le critiche dei gesuiti erano dimenticate e si tornava a parlare del «nostro Manzoni» -, discostandosi su questo punto dalla posizione di Tommaso Gallarati Scotti, Jemolo tende piuttosto a veder prevalere, nella complessa religione manzoniana, la componente giansenista, la tendenza a un rigorismo morale che paralizza l’azione, il credere nella grazia donata da Dio misteriosamente, «senza che l’intelligenza umana possa comprendere perché gli uni sono illuminati, gli altri no».
    «Può darsi che sbagli – ecco il succo del pensiero di Jemolo – ma a me pare certo che per Manzoni c’è lo scetticismo sull’opera delle forze politiche, sulla efficacia dell’una o dell’altra struttura. Per la vera, profonda religiosità di Manzoni – sono ancora parole di Jemolo – la vita attuale è veramente un’anticamera dell’eternità,... ecco uno di quei cristiani che non si illudono sia dato all’occhio umano di intuire quel che sia la vita ultraterrena». E in un altro punto, con questa conclusione lapidaria, quasi definitiva: «solo i semplici trovano ottimistici i Promessi sposi per via del lieto fine di Renzo e Lucia; a chi riflette, il romanzo lascia il senso austero e pauroso della imperscrutabile volontà di Dio».
    È il fondamentale pessimismo pascaliano che domina la visione della vita in Manzoni: veramente l’uomo decaduto di Pascal, senza il quale non sarebbe nato l’apologo dei Promessi sposi. Uno scetticismo sull’impegno politico condotto oltre un certo limite di tensione; una sfiducia nelle masse come elemento portante di una democrazia largamente rappresentativa. Nessuna indulgenza rousseauiana; nessuna fede nell’«homme naturel», nella mistica del «bon sauvage», nell’uomo di natura istintivamente buono, che la civiltà è destinata a corrompere. Non la chimera del «governo giusto», che poi tradisce la tentazione dell’Eden.
    Tutto giusto: ma non sono, quelle indicate da Jemolo, componenti che rendono ancora più importante l’approdo cattolico-liberale, nei fatti se non nei ragionati princìpi, del grande scrittore? La sua origine giansenista, il suo travaglio di coscienza che lo allontanerà così profondamente dalla mistica rivoluzionaria e giacobina, non contribuiranno forse ad accentuare il significato e il valore del traguardo finale?
    Chi legga con la dovuta attenzione queste bellissime e tormentatissime pagine di Jemolo – pagine che si potevano intitolare solo così, solo Il dramma di Manzoni – sarà portato alle nostre stesse conclusioni, intimamente condizionate ai fecondi stimoli dell’autore. Un Manzoni che non può essere incasellato – Jemolo ha ragione – in nessuno dei filoni del pur ricco e fermentante cattolicesimo liberale del secolo decimonono; un Manzoni che ha poco o niente da spartire con Capponi o con Lambruschini, con Cavour o con Ricasoli, con Gioberti o con Minghetti.
    Un Manzoni che sta per conto suo, che fa razza a sé: protagonista tormentato e solitario di una rielaborazione profonda dei motivi del cristianesimo, ma in chiave di salvazione individuale, con poca fede in un fermento evangelico del cristianesimo, magari al servizio della patria, come nella grande illusione neo-guelfa, nella grande scalmana giobertiana. Ma insieme un Manzoni che compie senza sacrificio, senza sforzo, tutti gli atti necessari a congiungere la fede nel credente con la dignità del cittadino; un Manzoni che non sbaglia nel ’48, nell’adesione alle cinque giornate, che non sbaglia nel decennio della lunga snervante attesa, che non ha esitazioni o incertezze di fronte alla svolta del ’59, che riceve dalle mani di Rattazzi all’indomani di Villafranca l’assegno regio di riconoscenza ma ringrazia Cavour, perché solo a Cavour il suo pensiero guarda, il pensiero riconoscente del patriota che la patria ha vissuto nell’unità della lingua prima che nel fervore dell’azione ma cui ha contribuito in modo determinante, con una certezza olimpica, quasi goethiana.
    È il Manzoni intimo, cattolico e liberale d’istinto, quale apparirà ai familiari negli sfoghi politici incontrollati, nell’effusione dei sentimenti talvolta più importante delle calibrate e dosate e soppesate parole. È il Manzoni che si reca a votare nel dicembre del 1864 a Torino per il trasferimento della capitale a Firenze, primo sicuro passo sulla via di Roma, resistendo a tutte le pressioni anche familiari, mettendosi in tasca, senza leggerla, la lettera con cui D’Azeglio, l’autore dell’opuscolo Questioni urgenti e il gran nemico del balzo sull’Urbe, tenterà di dissuaderlo.
    È il Manzoni che quattro anni prima plaude all’impresa garibaldina dei Mille senza aspettare il corso degli eventi e senza sostare sui calcoli della diplomazia (la figlia Vittoria testimonierà: «papà non stava più in sé dalla contentezza: piangeva, rideva, batteva le mani, gridando ripetutamente viva Garibaldi, viva Garibaldi»).
    È il Manzoni che non ha nessuna incertezza od esitazione, una volta compiuta la parabola dell’unità, ad incontrarsi con Mazzini, a stringere la mano – lui monarchico e senatore del Regno – al grande profeta repubblicano dell’ideale unitario, al «Mosè dell’unità» che si era prodigato in un’azione tesa al massimo quanto distaccata e socratica era stata l’attesa dello scrittore: «io e Mazzini – sono parole sue rivelatrici, al di là di ogni abituale prudenza – abbiamo avuto sempre fede nell’indipendenza d’Italia, compiuta e assicurata con l’unità. In questa unità – è sempre Manzoni che parla – era così grande la mia fede che le ho fatto il più grande dei sacrifizi, quello di scrivere scientemente un brutto verso: ‘liberi non sarem se non siam uni’».
    È il Manzoni che non tergiversa, che non si aggroviglia, che non ripiega su se stesso, né si rifugia nella casistiche della dottrina, per la grande scelta di Roma capitale, anche contro il Papa: una scelta che egli, da cristiano vero, sente estranea alla sfera dell’ortodossia, compatibile coi doveri religiosi del credente, pregiudiziale ad un rinnovato, e più spirituale, e più libero universalismo della Chiesa romana, finalmente affrancata dai ceppi e dai gravami e dalle miserie del temporalismo.
    È il Manzoni cui le delusioni del decennio fra il ’60 e il ’70, il decennio solcato da Aspromonte e Mentana, non toglieranno la certezza, testimoniata in una bella pagina del genero Giorgini Giambattista, di «Bista», che l’ingresso in Roma italiana non contraddiceva con la coscienza cattolica e con gli interessi futuri – quelli veri e permanenti – della cattolicità: «non spera nulla – l’annotazione di Giorgini è del 5 dicembre 1864 – da Pio IX, ma spera molto dal Papato, e sogna ancora, come la sognava quando scrisse l’Adelchi, un Papa re delle preci».
    Una volta Tommaso Gallarati Scotti, che di Manzoni sentì tutto, anche le torture e le contraddizioni interiori, al punto da non riuscire a portare a termine la biografia manzoniana tanto vagheggiata ed accarezzata (fermatasi alle pagine sulla giovinezza, poi pubblicate postume), scrisse, in un articolo sul ‘Corriere’ del luglio ’61, che in Manzoni, diversamente da Rosmini, «si era formata la coscienza che dovesse [la perdita del potere temporale] essere una misura provvidenziale per la Chiesa: la Chiesa sublimata ‘non avendo altra forza che quella di Gesù Cristo’ come la intravvedeva nei secoli venturi il poeta della Pentecoste». Dove c’era già il presentimento di Fogazzaro, quasi un primo brivido di modernismo.
    È questo il Manzoni che rimarrà sempre esempio e modello, non superati, di cattolicesimo vissuto «in scrinio pectoris» e di liberalismo serbato nella dignità del comportamento e della vita: un innesto forse non perfetto sul piano filosofico, con qualche ombra sul terreno del diretto impegno politico, con una vena di sofferenza e di ritrosia che si collegava al temperamento stesso dell’uomo, ma con una linearità essenziale che spiegherà, appena la notizia della sua morte si diffonderà, le riserve amare e risentite della «Civiltà cattolica» non meno che gli strali, un po’ più avvelenati, di un don Davide Albertario. Lo stesso Albertario che, come ricorda Jemolo in una pagina del suo libro, dirà di Manzoni una volta che «non fu rivoluzionario al punto di piacere al Settembrini e non fu cattolico al punto di spiacere al Buccellati»: un tal professore bizzarro e stravagante che lo aveva esaltato come rivoluzionario cristiano. Ed era detto tutto!

    ***

    Non a caso la genesi di questo libro si lega proprio ad una discussione sulle linee di fondo del cattolicesimo liberale. Avvicinandosi il centenario di Manzoni, proposi più di un anno fa all’amico e collega Jemolo – amico e collega in tante battaglie di questo dopoguerra – di rielaborare per la mia collezione il saggio preparato, insieme con Duroselle e Aubert, per il decimo congresso internazionale di scienze storiche di Roma, quello del 1955. Non avrei mai sperato che Jemolo, oberato da tanti impegni, potesse scrivere un libro ex-novo, tutto originale e fresco come questo, per la ricorrenza manzoniana; volevo unire la pubblicazione di quelle pagine, uscite solo in lingua francese, con la presentazione di una altro scritto che l’autore aveva affidato a me per la «Nuova Antologia» - quello sulle ragioni dell’antipatia verso Manzoni, inizialmente comunicazione al convegno manzoniano di Lecco – ma che io avevo riserbato alla silloge futura.
    Dal nostro dibattito, dal nostro incontro è nato il libro di oggi. Poco o niente vi rimane del profilo del cattolicesimo liberale, che vi è solo ricordato di scorcio; tutto è stato ripensato in funzione della domanda che tormentava Jemolo, la possibilità stessa di classificare un Manzoni fra gli spiriti emblematici del cattolicesimo liberale. Allargato, l’esame, ad altre sponde della personalità manzoniana: le caratteristiche dello storico, cui Jemolo attribuisce gran peso; l’amore per la natura, che lo differenzia dal cristianesimo di accento francescano; la riletture dell’Adelchi, sullo sfondo di un ripensamento organico del rapporto fra Risorgimento e Manzoni. E su tutto notazioni penetranti, giudizi che sfiorano il paradosso e non mancano di temerità.
    Ma sempre un Manzoni intimo, reale, non statuario. Niente di monumentale o di cortigiano – nell’analisi, talvolta impietosa, di Jemolo. Un amore struggente per la verità; un desiderio di capire, che quasi cozza contro la calma e il distacco manzoniani, conturbanti più di tante furie oratorie.
    Come partecipare oggi ad un centenario se non attraverso un esame di coscienza, quasi uno scavo dentro se stessi? Qualche tempo fa, partecipavo a Milano a un dibattito su «Tre cattolici liberali», Alessandro Casali, Tommaso Gallarati Scotti e Stafano Jacini, a proposito della bella antologia curata da Alessandro Pellegrini. Dibattito ricco di chiaroscuri, e tutt’altro che esaurito nell’elegia o nella nostalgia celebrativa. Personaggi tutti, chi più chi meno, dominati dalla problematica manzoniana, formatisi alla sua lezione, a quella grande indimenticabile lezione di rigore morale e di interiore coerenza.
    Tutt’e tre, Casati, Gallarati Scotti, Jacini, patrizi lombardi; e il patrizio lombardo, scrisse una volta Borgese, discende spiritualmente da Carlo Borromeo più che da don Rodrigo. Uomini ispirati alla religione della tolleranza, a quella che Cesare Angelini – il maggiore dei nostri interpreti e studiosi di Manzoni – chiamò «una magnanima tolleranza, una dignitosa umiltà e, anche di fronte all’autorità civile o ecclesiastica, né ribelli né schiavi».
    «Né ribelli né schiavi»: in quella citazione di Angelini cercai di riassumere, coordinando il dibattito, il senso di quella serata, il succo di quelle problematica. E conclusi allora il discorso di Milano, come concludo oggi queste pagine di prefazione e di ringraziamento all’amico carissimo, con una citazione di Angelini che riassume il segreto più vero di Manzoni. «E il tipo del patrizio cattolico lombardo ha un nome, Alessandro Manzoni; che, ai suoi tempi, si sarebbe potuto dire modernista, data la grande amicizia col ‘pericoloso’ Rosmini e la persuasione che Gesù, fondando la sua Chiesa, non le ha dato le grucce di un potere temporale, ma le ali per tener dietro allo Spirito Santo, volando».
    A distruggere quelle grucce, senza sembrare, Manzoni ha contribuito più di ogni altro spirito del secolo decimonono. E nessuno più di Manzoni può essere considerato profeta dell’intuizione affiorata negli anni giovannei, l’intuizione delle due Rome coabitanti, senza schemi concordatari e senza sottintesi di potenza, all’ombra di un Tevere sempre più largo.

    Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...5360162888903/

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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    2. Uno scritto del «Mondo»: «Coscienza laica»

    A completamento del dialogo fra La Malfa e Jemolo, di cui abbiamo punteggiato le fasi essenziali nel nostro saggio, riteniamo utile ripubblicare questo scritto di Jemolo, dal titolo Coscienza laica, uscito nel «Mondo» del 24 gennaio 1956, lo stesso «Mondo» che portava l’annuncio del nuovo partito radicale di Pannunzio, Carandini, Cattani e Valiani: «per un partito moderno».

    Nel suo articolo Neoguelfi e laici Raffaello Morghen afferma che occorre ridestare una coscienza laica assopita, e che non v’è opposizione tra cattolico e laico, perché il cattolicesimo è una fede ed il laicismo è la espressione della volontà del cittadino, che è spesso anche un credente, di partecipare alla vita della comunità politica e sociale alla quale appartiene.
    Io sento come lui, ma più vecchio di lui di alcuni anni, ricordo le discussioni che si svolgevano in Italia negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, intorno alle elezioni del 1909 e del 1913, ed i begli articoli che penne liberali scrivevano per dimostrare che mancava la ragion d’essere per un partito cattolico, che i cattolici potevano trovare il loro posto in altri partiti. Rammento sul «Corriere della sera» di Albertini degli editoriali in questo senso. E, sebbene fossi molto giovane, leggendo quegli articoli mi ribellavo a quel «dover essere», che pretendeva di prevalere sull’«essere», cioè sul dato che in Francia come in Germania come nel Belgio, i cattolici formavano dei partiti, e si sentiva che in Italia non attendevano che l’autorizzazione della S. Sede per fare altrettanto.
    Il dato che vi siano cattolici, ed estremamente numerosi, per cui il partito aconfessionale, come il sindacato aconfessionale, è inaccettabile, che in ogni manifestazione, in ogni votazione, aspirano a stare tra di loro ed a conquistare suffragi ai loro, che non nutrono ammirazione né devozione per chi non sia dei loro e che non concepiscono vita politica se non per assicurare il maggior numero di successi alla Chiesa: è un dato da cui non si può prescindere. E convincere questi cattolici che dovrebbero mescolarsi agli altri cittadini e disperdersi nei vari partiti (dispersi veramente, non formare quinte colonne per conquistarli, e togliere loro l’originario carattere laico), mi pare impresa disperata. Se venisse un ordine pontificio in tal senso cui dovessero obbedire, se vescovi e parroci si rifiutassero di consigliarli e di farne pattuglie organizzate entro gli altri partiti, perderebbero ogni interesse per la politica, non andrebbero più a votare.
    Quando rileggo gli atti della Costituente, vedo subito balzarne fuori un certo numero di deputati che sono lì solo per la tutela degl’interessi ecclesiastici, e che di qualsiasi argomento si tratti, di elettorato o di protezione della salute, di tutela del patrimonio artistico o di ossequio ai trattati internazionali, palesemente pensano subito alle ripercussioni remote che l’articolo potrà avere per gl’interessi ecclesiastici.
    L’esistenza, la molteplicità di tali uomini, è un dato. Pensare di convertirli con gli articoli dei liberali, che probabilmente neppure leggeranno, sarebbe del tutto vano.
    Certamente Morghen ha ragione allorché scrive che si può essere cattolici e laici.
    Quando lo si è?
    Escludo che l’essere cattolico non laico o l’essere cattolico laico (nell’accezione convenzionale di questo secondo termine) sia connesso ad una intensità maggiore o minore della fede religiosa.
    Ci sono cattolici tiepidi, materiali, peccatori, i cui interessi per la vita associata si esauriscono però per intero entro l’ambito della Chiesa e mai si rivolgono allo Stato; e ci sono cattolici fervidi, che conoscono la comunione quotidiana e l’adorazione notturna, che credono fermamente nei miracoli, e che invece sono del «laici».
    Giacché l’essere «laico» significa semplicemente questo: accettare il presupposto di uno Stato che debba accogliere credenti e non credenti e riconoscere a tutti eguali diritti ed eguale dignità.
    La legge della confessione religiosa può ben essere per questi «laici» quella che più li interessa, che più preme su loro. Possono, in un paese che ammetta il divorzio ed il matrimonio civile, non considerare neppure la possibilità che l’istituto del divorzio si applichi nella loro famiglia, non pensare neppure a matrimoni non benedetti dalla Chiesa; possono non leggere i libri all’Indice se non abbiano il permesso del Vescovo; possono osservare, nelle piccole e nelle grandi cose, tutti i precetti della Chiesa. Ma hanno però accettato una premessa: che quei precetti non debbano avere altra sanzione all’infuori di quella ecclesiastica, le censure, le scomuniche; siano obbligatori soltanto per chi appartenga al corpo dei fedeli, sicché il vedersene escluso rappresenti per lui una mutilazione; che mai invece si possa pretendere dallo Stato un qualsiasi appoggio a quelle prescrizioni; che la legge dello Stato debba essere tale da potersi imporre a credenti e non credenti, senza offenderne i sentimenti né degli uni né degli altri: liberale, in quanto non possa mai imporre ad alcuno di operare od agire contro le sue convinzioni, sotto la pressione, anche indiretta, della perdita di una utilità.
    Questo è veramente il punto decisivo; l’aver posto come pietra angolare nella propria coscienza politica l’idea di uno Stato, o di una società, che sia cosa non solo distinta dalla Chiesa e dalla società religiosa, ma indipendente: che cioè accolga chi della società religiosa non fa parte, e per quanto possibile ignori i convincimenti religiosi dei cittadini, guardando solo a ciò, ch’essi siano buoni cittadini.
    Può quindi ben dirsi che sono al di fuori della coscienza laica quanti, credenti o meno, considerano tollerabile l’art. 5 del Concordato, che al sacerdote che perda la fede impone o la simulazione od il divenire un pària nella società civile, ed altresì quanti ritengono accettabile la prassi per cui negli alti uffici – ad es. Sindaco di una grande città – debba darsi l’ostracismo ai non cattolici (ma è di questi mesi la decisione della IV Sezione del Consiglio di Stato che avalla la negata rafferma ad un modesto agente di pubblica sicurezza, colpevole di avere aderito ai testimoni di Jeova).
    Se in questi sensi la distinzione tra partecipi ed estranei ad una coscienza laica mi pare facile e piana, restano, prima ancora degl’infiniti problemi contingenti, due problemi d’impostazione.
    Chi accetta questa idea dello Stato e della società laica, può vederli in due modi diversi.
    Come una comunità con compiti determinati e limitati, che si riferiscano soprattutto alle funzioni inseparabili dallo Stato (relazioni con l’estero, difesa, amministrazione della giustizia, polizia, punti fondamentali della vita economica, così regolamentazione delle banche e della moneta), lasciandosi fuori dal novero di questi compiti tutto ciò che tocca la vita dello spirito, la formazione dell’uomo interiore (la scuola anzitutto), ma anche quanto concerne la beneficenza, la tutela della salute, la previdenza, ed ancora l’organizzazione di ogni forma associativa. Tutto questo, compito delle confessioni religiose o dei partiti.
    Od, invece, chi accetta quella separazione tra le due società può concepire lo Stato come siamo soliti vederlo noi latini o germani, con mansioni che si riferiscono ad ogni aspetto della vita, che toccano la formazione dei cittadini.
    Il primo tipo di Stato molto grosso modo si può riferire alla concezione ed alla pratica anglosassone, dove la congregazione, la comunità, in America il gruppo etnico degl’immigrati, tiene fortemente avvinto l’individuo. Nel continente europeo lo Stato nato dalla rivoluzione francese ha sempre paventato questa pratica, come quella che incrina l’unità nazionale. Nelle famose polemiche dell’Ottocento francese intorno alla scuola libera, mi è sempre sembrata efficace la battuta liberale: di non poter accettare che ci fossero due France, quella dei figli di San Luigi e quella dei figli della rivoluzione, che non solo rifiutassero i contatti, ma ove i membri dell’una detestassero tutto ciò che i membri dell’altra amavano, considerassero delitti od onte quelle che per gli altri erano glorie. Non si può tuttavia negare che i paesi che hanno praticato lo Stato con mansioni ridotte, l’assenza o quasi di scuole statali, l’assenza completa di assistenza, previdenza e beneficenza statale, come gli Stati Uniti e, grosso modo, la Gran Bretagna, hanno mostrato nelle vicende degli ultimi centocinquant’anni profondo senso di coesione nazionale. Direi che il pericolo che uno Stato ridotto a mansioni giuridico-economiche divenga un meccanismo senz’anima, e dia vita allo scindersi della nazione in tanti gruppi separati, sia più o meno reale, più o meno grave, a seconda non solo delle tradizioni, ma delle condizioni di vita, del grado di ricchezza e di cultura, e soprattutto del divario maggiore o minore tra le idee che si rinvengono nel paese. Stati Uniti ed Inghilterra non hanno mai conosciuto nel loro seno fazioni che si detestassero così profondamente e che fossero su ogni punto così lontane come i «figli di San Luigi» ed i «figli della rivoluzione», come oggi, in Francia ed in Italia, comunisti ed estrema destra.
    Come italiano penserei con seria preoccupazione a generazioni che crescessero separate, leggendo libri diversi, sentendo magari radio diverse, trascorrendo la domenica in diversi campi sportivi, o cinema o teatri, non incontrandosi che all’officina (dove però apparterrebbero a sindacati ed a dopolavori separati) od all’ufficio o nella caserma.
    L’altro problema d’impostazione, che è poi il vero «ponte dell’asino» di un incontro tra coscienza cattolica e coscienza laica, è quello dei princìpi che abbiano ad ispirare un’attività, sia pure limitata, dello Stato. Che evidentemente non può dettare nemmeno un codice civile od un codice penale senza rifarsi a certi princìpi etici. Ora l’ammissione di una separazione tra società religiosa e società civile può divenire sterile se il credente ritenga poi che la società civile debba essere retta secondo dati princìpi, chiamati magari di diritto naturale, che però coincidano con quelli di una confessione o di un gruppo di confessioni, ma non siano affatto universalmente accolti. Mentre sarebbe facile al cattolico – od al protestante – rispondere ch’egli non può concepire il bene del suo Stato al di fuori di quelli che sono i princìpi morali, le concezioni universalistiche, entro cui s’inquadra la sua idea di bene e di male, sicché non è possibile chiedergli altro comportamento.
    Come tutti i «ponti dell’asino», neppure questo è facilmente superabile, e sarebbe proprio illusione credere di aver effettuato il superamento per aver trovato una formula. Può tuttavia dirsi che la vera coscienza laica si ha nel credente solo allorché egli accetta lo stato di fatto della diversità di concezioni che si riscontrano in un dato momento, e che ritiene lo Stato debba ispirare le sue leggi e le sue opere a quelle visuali di bene che sono comuni a tutte le concezioni (e che è dato riscontrare in realtà; se scorriamo codice penale e regolamenti di polizia, vediamo che sono eccezionali le norme intorno a cui possono darsi contrasti, ma che sulla quasi totalità tutti, a lasciare lo sparuto gruppetto degli anarchici, consentono); e che lo Stato debba pertanto ammettere nella sua legislazione, consentire attraverso la sua legislazione, quello che per lui credente è peccato, e la propaganda di ciò che per lui è tale: lasciando alla libera gara, tra uomini religiosi ed uomini non tali, il compito di fugare il peccato, di fare sì che il peccato, pur consentito dalla norma di legge, non abbia mai a venire commesso.
    Questa, della tolleranza legale del male ed ancor più della difesa e della propaganda del male, è, di fatto, la riluttanza più grave a superarsi per i credenti. Qui è la prova del fuoco che fuga molte illusioni, o che, meglio, porta molte chiarificazioni (come quella tra apertura sociale ed apertura liberale; è a ricordare il caso recente di quel parroco della zona padana, molto noto per le sue prediche sui diritti dei poveri, sospetto anzi di filocomunismo, che ha denunciato con una lettera al Prefetto, e provocato così la condanna per vilipendio della religione di un medico il quale avrebbe poi pronunciato, non davanti al parroco ma secondo relazione fatta a questi da terzi, parole suscettibili di rientrare in quella figura di reato).
    Se veramente la coscienza laica postula questo, di accettare una legislazione ed una pratica statale aconfessionali, che s’ispirino solo a quei princìpi morali patrimonio di credenti e non credenti, una tale coscienza è assai meno diffusa di quanto si potrebbe credere alla lettura di articoli o di discorsi parlamentari.

    Arturo Carlo Jemolo

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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    3. Elogio del piccolo borghese

    Le pagine sul Mondo di Luigi Salvatorelli ispirarono a Arturo Carlo Jemolo, nell’agosto scorso, questa stupenda pagina di Elogio del piccolo borghese che, uscita sulla «Stampa» del 24 agosto, è stata poi definitivamente ordinata nel testo destinato a questo numero della rivista volto a onorare i novant’anni dell’amico e del maestro carissimo.

    Se dovrò avere una lapide funebre (non lo desidero; amerei essere sepolto nella nuda terra, e che poi un albero fosse nutrito dei resti del mio corpo) ho disposto si faccia come per i miei genitori e per i miei figli premorti; solo nome e date, nessuna parola di affetto o rimpianto. Ma se poi mi si dovesse imporre una qualifica, la sola che accetterei sarebbe quella di «piccolo borghese»; perché tale profondamente mi sento e mi sono sempre sentito per tutta la mia vita, e se avessi ancora la forza di scrivere un lungo libro, l’intitolerei Apologia dei piccolo borghesi.
    Che furono poi, quando si va a vedere, i propugnatori di tutte le riforme durature, di tutte le liberazioni dell’uomo da superstizioni o da spirito di casta, di tutti i progressi che durarono per un ciclo di civiltà (ché non esistono conquiste definitive).
    Non importa che le condizioni dei tempi li costringessero talora a coprirsi col nome di principi o di cardinali, ad uscire dal loro ceto, a fare apparire benevolenza di principi quel ch’era il pensiero ch’essi avevano loro insufflato; né che alcuno rinnegasse le proprie origini per coprirle di un titolo. Colbert poté divenire marchese, ma era figlio di un mercante di panni; Voltaire poté accettare un titolo di nobiltà, ma restò sempre un borghese; borghese Locke, Lessing, Kant, Goethe; così i grandi geni dell’arte, Beethoven, Verdi, Wagner; i grandi maestri della pittura e della scultura; ed altresì i grandi rivoluzionari: Cromwell, Robespierre, Lenin; borghese Marx, borghese Mazzini, borghese Togliatti.
    Nel fascicolo di aprile-giugno della «Nuova Antologia» Spadolini dedica molte pagine a Salvatorelli, al settimanale «La nuova Europa», al «fondo» di Salvatorelli sul «partito della democrazia»; e per questo, scrive Salvatorelli, «dobbiamo pensare alla piccola e media borghesia e (almeno virtualmente) ai gruppi più qualificati del proletariato, con netta prevalenza tuttavia delle due prime categorie sociali»; e ciò perché, spiegava Salvatorelli, il mondo del lavoro è ben più ampio del proletariato; e non solo è più ampio, ma è un concetto diverso: al posto della classe come puro elemento di distinzione e di lotta, subentra la funzione e la pienezza della vita sociale; i partiti proletari se non siano componenti, e minoranza di un unico partito democratico, debbono far prevalere su ogni altra considerazione d’interesse generale, la preservazione e lo sviluppo degli interessi classistici del proletariato.
    Il partito di masse più vero e maggiore, ma di masse non coagulate, non politicamente mature e organizzate, è questo – continua Salvatorelli – degl’italiani che non si considerano liberali, non democristiani, non socialisti né comunisti; e se questa riunione in un unico partito democratico non si realizzi, gl’italiani devieranno in gran parte verso il conservatorismo politico o la democrazia confessionale o, in misura minore, verso i partiti marxisti, apportando a questi ultimi un torbido e inconcludente intellettualismo o anche un meschino spirito di categoria.
    Salvatorelli visse abbastanza per vedere che la sua aspirazione al grande partito democratico non si realizzava, che non sorgeva un partito conservatore, che l’Italia paolotta avrebbe avuto una breve fioritura, lasciando gl’italiani scettici in materia religiosa più di quanto fossero mai stati, e preponderare invece gl’interessi di singoli gruppi, pensosi sol di se stessi.
    Purtroppo c’erano state cose più grandi di noi, e soprattutto c’era stato l’errore dei primi governi succedutisi alla occupazione tedesca, di lasciar sfogare, anche nel senso materiale, la reazione alle privazioni ed alla fame, il sospiro di sollievo degli italiani; non ho mai perdonato a De Gasperi di aver parlato come di un vanto che l’Italia fosse stato il primo paese a togliere il tesseramento.
    Anche la piccola borghesia, quella da me prediletta, aveva bisogno di uno sprone, continuare la vita modesta, discendere di un gradino, anzi, la soglia che aveva raggiunto nel 1939, perché anche le sventure nazionali ed i relativi debiti si debbono pagare, per poi iniziare una lenta risalita. Ma lenta e con dei limiti: guai ai paesi che vivono nell’opulenza, che non accumulano, che ignorano ciò che rappresentano le grandi riserve; la possibilità di affrontare i grossi problemi dei diseredati, degl’inetti al lavoro, degli ospedali, dei ricoveri dei vecchi, senza che per questo i bilanci degli enti pubblici si chiudano in attivo, senza che il risparmio – in moneta buona – cresca ogni anno.
    Libertà politica, di parole, di diffusione d’idee, illimitata, ma una classe dominante, quella su cui fondarsi una maggioranza parlamentare – od un capo di Stato tipo De Gaulle -, che abbia questo convincimento; che la politica ha i piedi di gesso se non si rende conto della economia, e che questa va imposta (con l’arma della tassazione differenziata). Si chiudano pure le imprese destinate a produrre solo articoli di lusso: sarà danaro che verrà molto meglio impiegato.
    Ora la piccola borghesia aveva come sua connotazione questo senso del risparmio, e questa saggezza. Così sorsero le grandi imprese; ed era anche saggio il piccolo borghese che affidava il suo risparmio allo Stato, libretti di risparmio, buoni postali, titoli del debito pubblico; chi aveva investito così nel 1880-95, non era pentito nel 1910.
    Ma, economia a parte, la piccola borghesia era in diretta comunicazione con la classe operaia; sapeva che si poteva anche discendere; il modesto impiegato spesso era il solo di più fratelli di una famiglia operaia che aveva saputo salire uno scalino (socialmente; spesso i fratelli rimasti operai guadagnavano più di lui), ed i rapporti tra i congiunti di una stessa famiglia, parte assunti a borghesi, parte rimasti operai o contadini, erano cordiali; le esperienze di vita si mettevano in comune; la visione un po’ più ampia dei problemi politici che si acquistava lavorando in un Ministero od in una banca, si comunicava ai congiunti operai e contadini, e questi alla loro volta indicavano esperienze di vita politica, quotidiana, altrettanto utili. Si sapeva distinguere gli uni e gli altri tra le cose serie e le cose futili.
    Il mondo che rievocava or non è molto Firpo era un mondo duro, con durezze che si andavano ogni anno eliminando, ché la macchina, la chimica, toglievano certe fatiche (il gas e l’elettricità al posto della faticosa accensione dei fornelli tre volte a giorno; più tardi, la lavatrice al posto del massacrante bucato in casa). Ma era un mondo serio: poteva divertirsi al teatro dialettale senza ricorrere alle parole sconce, aveva le sue canzonette non prive di fascino, c’era il gioco del pallone cui anche De Amicis destinò un libro, c’erano le corse dei cavalli: ma nessuno era così stolto da pensare che il suo paese fosse salito di un centimetro per un successo di una squadra sportiva, o in una regata.
    Media e piccola borghesia, diceva Salvatorelli; questione d’intendersi; resta sicuramente fuori l’alta burocrazia statale e bancaria od industriale: per chiarire, quella che ha un alto tenore di vita, palazzina od almeno un intero piano in un palazzo cittadino, almeno una residenza al mare od in montagna, almeno una coppia di persone a servizio fisso, con aiuti di servizio ad ore, che dà ricevimenti, non conosce che i locali di lusso, l’estate manda i figli all’estero a frequentare i migliori corsi secondari od universitari; due o tre automobili, la «barca» completano il quadro.
    Ma cosa deve intendersi per media o piccola borghesia? Salvatorelli aveva pochi anni più di me, ed avevamo avuto le stesse esperienze burocratiche nella Roma dei primi venti anni del secolo, ed i ricordi d’infanzia che risalivano alla fine dell’Ottocento; e le mie simpatie vanno tutte alla piccola borghesia d’allora, quella il cui reddito, in moneta buona del tempo, andava dalle duecento alle seicento lire mensili. Era una borghesia in cammino.
    E poi quella piccola borghesia, come quel proletariato, avevano il culto del dovere, ereditato dai loro genitori, che sapevano come ogni negligenza si paghi; l’artigiano manteneva la parola data. L’intelligenza, la buona volontà, l’accettare le molte ore di lavoro, ottenevano il loro premio; il ragazzo che aveva cominciato a portare a spalla la calcina, diventava muratore, poi capomastro, non di rado costruttore di case (le solidissime case del periodo umbertino, quando non occorreva la firma di un ingegnere per costruire); la donnetta intelligente, che con le poche centinaia di lire accumulate come fantesca e con qualche debituccio aveva aperto un «buco» di negozio, di merceria, o, se aveva parenti in campagna, di verdura e frutta, poteva vederlo ingrandirsi ogni giorno, se vigile, attenta, lavorando con le braccia proprie e dei figli, essendo cortese con i clienti anche i più modesti, avendo la grande arte del saper costringere chi è entrato nel negozio a comprare e ad uscire soddisfatto di avere comprato.
    L’ignavo decadeva: ho visto famiglie dove il figlio del medico non era più che costruttore di dentiere, ed il nipote operaio in un officina; il figlio dell’alto funzionario impiegato d’ordine (come si diceva allora) ed il nipote semplice usciere. Ed i dissipatori; i proprietari di campagne che non sapevano contentarsi del reddito di queste, volevano passare l’inverno in città, ed ogni anno vendevano un podere, e giù giù, fino a morire ospiti di un antico mezzadro dal cuore pietoso: la patetica figura del «cavaliere» di Pavese, che porta ancora il bastone col pomo d’argento, figura ancora proprietario di una cascina, ed offre la bottiglia ai rari visitatori, ma di fatto è il mantenuto del suo antico colono, padrone di tutto e cui deve rimborsare le due lire della bottiglia che ha offerto.
    E questa piccola borghesia aveva anche ereditato il senso della disciplina, della obbedienza ai superiori, della coscienza che non ci può essere un lavoro organizzato se non ci sia chi ordina e chi obbedisce; ereditato non solo il rispetto, ma l’affetto verso i genitori: di suo aveva messo, attraverso la lettura dei giornali, la frequenza alle Università popolari, la lettura di libri divulgativi, una visione generale del mondo, e la sensazione che le sorti del singolo non sono separabili da quelle del paese, che la disgrazia collettiva è anche la disgrazia di ciascuno; ed un qualche senso del gusto, del decoro, nei modi, negli abiti; gli uomini non tenevano più il cappello in testa anche in casa, s’infilavano una giacca per venire a tavola.
    L’aver lasciato questa piccola borghesia pervertirsi è la vera ragione del crollo di un paese, di una civiltà. Per questo, chi per ragione di nascita ha potuto ancora appartenervi quando era quale fu per secoli, rivendica come unico titolo quello di piccolo borghese.

    Arturo Carlo Jemolo


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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    Un maestro e un amico (1981)

    di Norberto Bobbio – In «Nuova Antologia», fasc. 2137, gennaio-marzo 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 60-64.


    1. Il maestro

    Jemolo maestro. Una parola, lo so, che probabilmente non gli piace e non piace neanche a me. Ma prendiamola nel suo significato più umile, con la m minuscola, tanto per intenderci, di colui che insegna l’abbecedario, le nozioni che tutti dovrebbero sapere e sono poi la base di tutte le altre più complicate, più astruse, e non sempre necessarie, o a ogni modo non necessarie per tutti. In questo senso anche Jemolo può accettarla. La sua vita è stata un insegnamento continuo, dalla cattedra, dai giornali, nei tribunali.
    Tanto per cominciare, una miriade di scritti: uso intenzionalmente una parola così indeterminata come «miriade», perché nessuno sa esattamente quanti siano stati e quanti, ce lo auguriamo, saranno ancora. Non se so qualcuno abbia intrapreso la compilazione di una bibliografia delle sue opere: un’impresa disperata, anche se meritoria.
    Chi ha consuetudine con «La Stampa» di questi tre decenni, ha provato chi sa quante volte stupore, come l’ho provato io, per la tempestività con cui gli articoli appaiono, la varietà degli argomenti, la rapidità con cui sono concepiti, il timbro personale inconfondibile che essi rivelano nello stile, nella scelta delle argomentazioni, nella qualità del giudizio.
    A chi poi ha consuetudine con altri giornali e riviste – e parlo sempre di giornali e riviste di cultura militante, non storiche, non giuridiche, non accademiche – accade di leggere pagine di Jemolo anche altrove: penso ad esempio alla sua assidua collaborazione a «Il Ponte» di Piero Calamandrei, o alla «Nuova Antologia», dove, due anni fa, ho letto una rievocazione scritta con tratti essenziali, di Pio IX, intitolata Il ‘mio’ Pio IX, dove in quel «mio» vedo lo storico che non rinuncia ad esprimere il proprio punto di vista e insieme ci vuol far capire che quel tema gli è familiare, quasi gli appartiene, e fa parte oltre che della storia universale anche della propria storia.
    Ma non entro neppure nella selva della sua opera di storico e di giurista, perché pur avendo letto molte sue pagine, a cominciare dall’opera fondamentale sul giansenismo che è del 1928 (dunque antica di mezzo secolo!), quando ero ancora studente, non ho vergogna di confessare che ne ho letta un’infinitesima parte. Voglio dire soltanto che è tanto difficile essere insieme storici e giuristi che è quasi un luogo comune il dire a proposito di chi scrive di storia e di diritto che gli storici lo considerano un buon giurista e i giuristi un ottimo storico.
    Per gli storici Jemolo è proprio uno storico, per i giuristi proprio un giurista. Per coloro che non sono del mestiere mi sia lecito ricordare come una curiosità, che in una delle maggiori riviste giuridiche, la «Rivista di diritto civile», fondata un quarto di secolo fa dal comune amico Walter Bigiavi, immaturamente scomparso, Jemolo tiene una rubrica intitolata Gli occhiali del giurista, dove presenta interessanti casi legali che gli sono passati sotto gli occhi (e gli occhiali) nell’esercizio dell’attività professionale. Quanti sono ormai questi casi? Pur non avendoli contati, sono sicuro che raccolti formerebbero da soli un grosso volume. E non sono che le briciole, o le schegge, come si diceva un tempo, dell’opera intera.
    Ma torno al maestro, sempre con la m minuscola. Maestro, perché scrive in maniera semplice di cose elementari che toccano tutti. Nel modo che egli ha di stabilire un contatto con il pubblico, nulla gli è più estraneo che la «boria dei dotti». I suoi articoli sono costellati nei punti scabrosi di «direi», «credo», «non credo». Suggerisce, propone, invita a consentire o a dissentire, sollecita, mette una pulce nell’orecchio, discute, interroga, ma non fa mai cadere le parole dall’alto.
    In tempi di forsennate e spesso arbitrarie diatribe ideologiche non «ideologizza», rifugge dalle astrazioni puramente dottrinali, dal filosofeggiamento fine a se stesso. Ama richiamarsi ai fatti: rievoca eventi del passato, rammemora casi personali, un ricordo della propria adolescenza, una lettura che si è impressa nella memoria (tenacissima e propendo a credere prodigiosa), cita tanto il detto di una persona autorevole come la conversazione con l’uomo della strada, adduce episodi realmente accaduti e trame di romanzi, narra, da storico, i fatti che contano, e non disdegna, da giurista, i piccoli drammi quotidiani che l’uomo di legge è chiamato a sciogliere.
    Oltre che lo storico e giurista, osservatore attento, com’era Luigi Einaudi, un autore che gli è caro e che cita sempre con onore, di quegli eventi minimi che gli storici di mestiere chiamano a ragione storicamente irrilevanti, i fatti di cui dispone per tessere la sua trama sono innumerevoli, e tratti dai campi più diversi, dalle epoche più lontane: costituiscono un inesauribile repertorio di occasioni per esprimere un giudizio, di spunti per una riflessione, di esempi per trarne una morale.
    Non ideologizza perché non crede che le ideologie politiche siano destinate a salvare il mondo, non crede che le ideologie che dominano la scena siano dottrine di salvezza. Per lui la dottrina di salvezza è una sola. Se da questa decadenza – e che nei suoi scritti ci sia il senso della decadenza mi pare indubbio – l’uomo è destinato a salvarsi non dipenderà dal trionfo di questa ideologia piuttosto che di quest’altra.
    Dipenderà da un rinnovamento morale che nessuno può prevedere e tanto meno provocare con una ricetta più o meno confezionata di trasformazione sociale. I disegni della Provvidenza sono imperscrutabili, e dalla stirpe di Caino, egli ha scritto recentemente, sono pur nati i profeti, i santi, uomini di carità e di sapienza. Perché non dovrebbero rinascere? Ma quando e come non è dato sapere.
    Ho sempre pensato che la differenza essenziale fra una concezione religiosa e una concezione esclusivamente politica della storia e quindi anche del destino individuale e collettivo dell’umanità, stia in ciò, che il riformatore politico crede che le istituzioni, la società, cambieranno quando sarà cambiato l’uomo, quando sarà nato o rinato l’uomo nuovo. Ma rinascerà? C’è in Jemolo una vena pessimistica, come del resto in tutti gli scrittori che hanno la vocazione del moralista. Ma non è un pessimismo senza speranza. Il pessimismo, il pessimismo cristiano intendo, non è nichilismo.
    Non so se debbo giustificare anche questa parola «moralista». Certo è, come maestro, una parola a sentir la quale molti fanno una smorfia. Soprattutto in un’età come la nostra in cui anche forme più disgustose di degradazione morale – e ne abbiamo tutti i giorni esempi sotto gli occhi – vengono giustificate e talora esaltate come salutare liberazione da inconfessabili (e finalmente confessati) tabù. Eppure c’è un senso in cui «moralista» ha diritto di sopravvivere nel suo significato più alto.
    Rifacendomi alla distinzione per me fondamentale, e che tra l’altro serve a distinguere la pura azione morale dalla pura azione politica, fra etica dei principi ed etica delle responsabilità, chiamo «moralista» colui che giudica l’azione propria e altrui non in base al risultato, al successo, cioè a quello che segue all’azione, ma in base al principio che l’ha ispirata e che viene necessariamente prima.
    La massima che esprime meglio di ogni ragionamento e fa capire meglio di qualsiasi spiegazione il nucleo essenziale di questa etica è la seguente: «Fa quel che devi e avvenga quel che può». È una massima che ci è accaduto spesso di leggere negli scritti di Jemolo. Del resto, solo chi ha fatto sua l’etica dei princìpi e non quella dei risultati può avere scritto, come egli ha scritto nelle giornate angosciose culminate nell’assassinio di Aldo Moro, di appartenere alla schiera di coloro che preferiscono morire come Abele che vivere come Caino.

    (...)
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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    2. Il «piccolo borghese»

    Tra la «miriade» di libri scritti da Jemolo ce n’è uno che mi è particolarmente caro e ho letto e riletto: Gli anni di prova (Neri Pozza, 1969). Un libro autobiografico, passato, mi pare, quasi inosservato.
    Questo libro mi ha fatto capire fra l’altro in che senso Jemolo sia solito definirsi un piccolo borghese. Per chi lo conosce bene, una definizione inaccettabile, un autoritratto che pare riflesso da uno specchio deformante. Non basta dire che egli è sempre severo verso se stesso. E tende a vedere più i lati negativi che quelli positivi della sua opera. E per non abbandonarsi anche al più piccolo moto d’orgoglio si paragona a coloro che ritiene migliori di lui: Croce, un «faro della mia generazione», di cui non ha saputo conquistare la stima («uno dei miei fallimenti»); Einaudi, di cui ammira la saggezza nutrita di competenza. E sottolineando i fallimenti sminuisce i successi: commenta il premio Viareggio che gli fu assegnato nel 1949 per il libro Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni osservando che la giuria non riuscendo a mettersi d’accordo finì per dare il premio a lui come «soluzione pacificatrice».
    Non basta, perché, per quanto sia difficile, come ben sanno i sociologi, fissare i caratteri di una classe sociale, tanto più poi di una classe dai contorni così mal definiti come la piccola borghesia, sono state ad essa attribuite nella storia italiana recente due colpe storiche (peraltro contraddittorie): di aver costituito, allora, il nerbo del fascismo, poi, caduto il fascismo, della democrazia cristiana.
    Nulla di più repugnante allo spirito di Jemolo che il fascismo, cui anche in questo libro, ma in tanti altri (vorrei ricordare almeno Italia tormentata, 1951), dedica alcune pagine insistendo in modo particolare sull’opera di «pervertimento» compiuta dal regime anche sulle persone più stimate per la loro dittatura. E nulla di più contrario alla sua ansia di rinnovamento dopo la catastrofe che la politica restauratrice del partito destinato a diventare il partito dominante dell’Italia repubblicana, e del suo capo, De Gasperi, cui muove il rimprovero di aver spento il «roveto ardente», uno dei rari momenti in cui gli parve di poter guardare con fiducia all’avvenire (l’altro sarà il pontificato di Giovanni XXIII).
    Ma anche per chi metta in discussione e rifiuti le colpe storiche della piccola borghesia, la mentalità che si attribuisce al piccolo borghese è pur sempre quella del conformista, di colui che si piega al potente per amore del quieto vivere, che accetta l’ordine costituito e guarda con sospetto il ribelle. Anche da questo punto di vista, l’unico del resto che abbia una rilevanza storica, Jemolo è al polo opposto.
    Quante volte egli parla di sé come di un «malpensante», di un «bastian contrari»! Di fatto ha sempre combattuto dalla parte destinata a perdere: neutralista durante la guerra, dopo la guerra si schiera con la terza forza fra i grandi schieramenti che dominano la scena durante la guerra fredda, una forza che non esisterà mai. L’unico gruppo politico cui parteciperà attivamente è il movimento effimero di Unità Popolare che si raccoglie intorno a Calamandrei nel 1953 per impedire lo scatto del premio di maggioranza che instaurerebbe in Italia un regime.
    E allora perché piccolo borghese? Forse soltanto leggendo le sue note autobiografiche si riesce a dare una risposta. Piccolo borghese è il mondo della Roma degli ultimi anni del secolo e della «Torino gozzaniana» in cui crebbe e fu educato, «in cui è trascorsa tutta la mia infanzia». Un mondo di non larghi orizzonti ma austero, severo, di gente ligia al dovere, amante dell’ordine ma insieme rispettosa della libertà individuale, parsimoniosa non solo per necessità ma convinzione, laboriosa, solida negli affetti; un mondo dove si prendono sul serio le cose serie, e non ci si abbandona a stravaganze, a progetti irrealizzabili, e non hanno forza i grandi ideali ma si praticano le piccole virtù, e l’amore di patria non è un nome vano, il senso dello Stato non è ancora venuto meno, il presente è segnato dalla «monotonia di giorni tutti eguali» ma il futuro non appare come un incubo, poiché «nessuno pensava che sarebbe stato combattente in una lunga durissima guerra o cospiratore o perseguitato politico».
    Il considerarsi un piccolo borghese è per Jemolo, credo, un modo per mostrarsi fedele alle proprie origini, un atto di omaggio a quel «mondo scomparso», i cui insegnamenti vorrebbe ancora oggi non fossero dimenticati.

    Norberto Bobbio


    https://www.facebook.com/notes/norbe...1262725250455/
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    Predefinito Re: Per Arturo Carlo Jemolo (1981)

    Jemolo: un profeta dello Stato liberale (1981)


    di Gianni Baget Bozzo - «Mondoperaio», giugno 1981, pp. 111-114.


    Certamente Arturo Carlo Jemolo non è stato un caposcuola. Non voglio con questo dire che non abbia discepoli in cattedra, non alludo alla sua influenza come professore di diritto ecclesiastico. Alludo invece al non avere un consenso che induca ad imitazione, che tenda, in qualche modo, a considerare colui di cui si riconosce il valore come un uomo che indica una strada. Jemolo è stato oggetto di una commemorazione nazionale tanto unanime, quanto superficiale. Un uomo che aveva stima, amicizie, che suscitava venerazione: ma infine un uomo isolato che ha portato con sé il suo segreto. Il segreto che gli aveva consentito a un tempo di essere così presente e così diverso.


    Un compromesso con la gerarchia


    I suoi rapporti con al Chiesa sono certamente singolari. Basterebbe considerare quelli politici: un professore di diritto ecclesiastico separatista in linea di principio: un cattolico antifascista negli anni dei Patti lateranensi, antidemocristiano negli anni della DC come partito canonico, anti-Patto atlantico negli anni della crociata pro-occidentale, capace di valutare umanamente e politicamente i comunisti negli anni della scomunica. Se Jemolo fosse stato un prete, sarebbe stato sospeso a divinis: se fosse stato un laico militante nell’Azione cattolica, sarebbe stato escluso da ogni carica.
    Alla base di questi atteggiamenti autonomi stava una non formalizzata affermazione dell’autonomia della coscienza del credente che stabiliva, essa, la «competenza delle competenze» e distingueva, negli atti della gerarchia, ciò che rispondeva al carisma dell’insegnamento, tutelato nei suoi punti nodali dall’infallibilità, da ciò che era opinione, storicamente condizionata e condizionatamente mutabile: disciplina, anche se espressa in forma di dottrina. Se le posizioni di Jemolo fossero state formalizzate, sarebbe apparsa la loro capacità di conflitto con il sistema cattolico stabilito: un conflitto potenziale che percorre tutti gli anni della sua vita, e che nell’ultima fase si è rilassato, ma non è sostanzialmente mutato.
    Ma tra la gerarchia e il professore vi fu un compromesso tacito. Lo potremmo esporre in questo modo: Jemolo accettò che la sua posizione di cattolico fosse infine un fatto, sì, riconosciuto, ma personale e in certo modo privato. Egli era un professore, un intellettuale laico, personalmente credente, ma che non pretendeva di dare alla sua figura di credente un risalto pubblico: non intendeva, cioè, formalizzarla come un modo di essere di Chiesa. Egli si definì, in contrappunto a La Pira, non un cattolico liberale, ma un liberale cattolico: un uomo cioè che ammetteva molte influenze nel suo spirito, quella della Chiesa, ma anche quella di Ruffini, di Croce, di Martinetti. La Chiesa, negli «anni ruggenti», lo considerò più come un «laico» che come un cattolico. E Jemolo accettò questa situazione singolare che gli era fatta; e che era eccezione solo perché confermava la regola. E, in certo modo, la ricambiò. Perché finì, lui storico, per considerare la Chiesa, proprio in quanto istituzione, un soggetto storicamente eccezionale, capace di domandare ai propri membri un sacrificium intellectus, e conseguentemente voluntatis, che non era consentito alle potenze laiche, allo Stato, ai partiti domandare. Jemolo si rallegrava certamente del fatto che, con Giovanni XXIII e Paolo VI, l’istituzione ecclesiastica diventasse più liberale, ma sarebbe stato probabilmente il primo a insorgere se essa lo fosse diventata troppo. Infine, per Jemolo, la Chiesa è stata sempre soprattutto quello che essa dice di essere nel diritto canonico: e se, in questi limiti, ha amato una Chiesa dal volto più umano e materno, l’ha sempre però considerata come istituzione diversa, eccezionale, sostanzialmente non liberale, un’istituzione, quindi, in cui egli poteva rimanere soltanto con una parte di sé. Questo, mi sembra, il «compromesso» pratico di Jemolo con la Chiesa e della Chiesa con Jemolo. Rimase cattolico, per la gerarchia, solo perché non espresse il modo in cui lo era.


    La Chiesa come istituzione


    La fede di Jemolo è stata sempre anche la fede di un canonista. La Chiesa «formalizzata» era quella del Codex: poteva anche crescere in tolleranza, in longanimità, in intelligenza storica, ma il suo principio fondante era sempre l’autorità. La libertà rimaneva sempre una concessione, una tolleranza. Inevitabile, certamente, ma sempre concessione. Una Chiesa liberale era una contradictio in terminis per questo liberale cattolico: una Chiesa autoritaria poteva commettere errori storici, anche gravi; ma infine sempre Chiesa era. La Chiesa di Jemolo non è metastorica, essa è così pienamente istituzionale da essere partie prenante, eccome, di ogni vicenda storica. E tuttavia essa non sembra mai giocata nella vicenda storica. Jemolo non si domanda mai, ad esempio, perché i numerosi errori storici che egli riconosce commessi dalla Chiesa non tocchino mai la sua infallibilità. E un problema che oggi i teologi sentono fortemente. Jemolo su questo non si è mai attardato. Mi sembra che egli concepisca l’infallibilità della Chiesa in modo analogo a quello in cui si concepisce la validità di una forma giuridica, che rimane intatta anche se socialmente dannosa e quindi erronea, ed intatta rimane anche se di fatto è disattesa: purché essa sia in linea di principio legalmente stabilita e protetta, le sue conseguenze sociali sono irrilevanti rispetto alla sua validità. Jemolo ha sempre fatto una rigorosa economia della teologia in quanto tale, anche là dove essa era implicata nei problemi che egli di fatto trattava. Nella sua Chiesa, fatta di devozione, di bontà, di vero amor dell’uomo e di diritto, la teologia aveva poco spazio.
    Jemolo dunque aveva della Chiesa una concezione tradizionale. Il prete che egli poteva scegliere a modello era, infine, non il suo maestro Buonaiuti, ma un prete sul tipo di don Orione: un prete totalmente incluso nella devozione, nella filantropia e nel diritto.
    Jemolo dunque rimase cattolico a prezzo di una separazione ideale tra la sfera della Chiesa e non solo quella dello Stato, ma quella della cultura, della politica, dell’humanitas. Non che in lui personalmente le due sfere non comunicassero e che l’una non nutrisse abbondantemente l’altra. Ma il paradosso sta qui: Jemolo fu un uomo di un solo volto, una figura di esemplare coerenza, ma questa coerenza fu ottenuta mediante una separazione assoluta tra Chiesa da un lato, storia e cultura dall’altro. A lui la Chiesa come cultura interessava poco, o meglio, per essa non si appassionava: e combatteva duramente invece ogni forma totalizzante della cultura, della politica e dello Stato.
    Jemolo fu un coerente separatista; e proprio in questa separazione trovò la sua unità di pensatore e di uomo. Per questo, l’istituzione ecclesiastica poteva «compromettere» con lui tanto facilmente: per quanto diverse fossero le posizioni politiche del pontificato pacelliano e quelle del professore, la differenza era e rimaneva sempre esclusivamente contenuta sul piano politico. La figura di prete amata da papa Pacelli e da Arturo Carlo Jemolo era fondamentalmente la stessa. Ed è sull’immagine, il modello del prete, che la Chiesa romana gioca tutta la sua storia, tutta se stessa. Jemolo poteva, sì, lamentare la condanna del modernismo, ma riducendo questo a un problema di non grande rilievo. La Pascendi aveva indebolito, a suo giudizio, la cultura del clero: ma Jemolo avrebbe temuto certamente di più una Chiesa che avesse veramente accolto il messaggio di Buonaiuti. Per questo, il compromesso tra l’istituzione e il professore non era un compromesso vacuo: si fondava su una precisa convergenza.


    Il rapporto con Buonaiuti


    Appare qui quello che certamente fu il problema e il rapporto fondamentale della vita di Jemolo: il rapporto con Buonaiuti.
    Nella prefazione al Pellegrino di Roma, Jemolo scrive: «la dottrina dei modernisti veniva a scavare uno iato più grande che mai tra la religione degli intellettuali e quella degli umili… affermazioni come quella che ‘per Paolo c’è un parallelismo perfetto, meglio un’identificazione paradossalmente sublime fra il corpo del Signore consumato nel pasto agapico e il corpo mistico del Signore medesimo rappresentato nella comunità dei fratelli…’ non potevano non apparire in contrasto con insegnamenti millenari, radicati nella coscienza dei fedeli ed insinuare dubbi tormentosi» (op. cit. p. XXIV). Ebbene, è il contrario che qui è vero. Era quello che Buonaiuti affermava l’«insegnamento millenario»: ed era una novità dei manuali post-tridentini la semplice riduzione dell’Eucarestia alla transustanziazione intesa come miracolo. L’autoritarismo della Chiesa post-tridentina aveva finito con l’imbarbarire la complessità e la ricchezza dell’insegnamento tradizionale. Come la «nuova teologia» degli anni cinquanta, Buonaiuti chiedeva soprattutto un ritorno alla tradizione come norma dell’istituzione. «Novità» era invece la riduzione della complessità della fede alla semplicità unilaterale della monarchia papale. Oggi, dopo il Vaticano secondo, nessun teologo ortodosso metterebbe in dubbio la validità delle formule buonaiutiane che Jemolo vede come capaci di «insinuare tormentosi dubbi» nella coscienza dei fedeli.
    Jemolo, nella sua semplice riduzione della Chiesa all’istituzione che parla di sé attraverso il Codex e vive nella devozione semplice e beneoperante dei fedeli, eliminava la ricerca intellettuale quale elemento costitutivo dell’ecclesialità della Chiesa. Questo doveva essere infine il suo dissenso da Buonaiuti: un uomo di ingegno, di fede, di carità, ma la cui strada conduceva a trasformare la Chiesa in un gruppo di intellettuali e le toglieva la capacità di condurre in forme semplici le masse verso il bene.
    In realtà questa concezione «corale» della Chiesa, questa visione della Chiesa in primo luogo come grande comunità popolare, che parla attraverso i simboli, era presente anche in Buoaniuti, nel quale si avverte molto di più questa passione per la Chiesa che non la stessa passione per il Mistero divino. Buonaiuti e Jemolo avevano in comune la passione per la Chiesa e la passione per la storia. Non si trovano vere pagine mistiche in Buonaiuti e nemmeno in Jemolo. Ma Buonaiuti aveva il senso della storicità della Chiesa, sentiva come il suo permanere fosse tale attraverso il suo variare. E domandava quindi un riconoscimento delle variazioni, e quindi, in qualche modo, uno statuto di libertà nella Chiesa stessa. Afferrava come la Chiesa non potesse ridursi a gerarchia, ma che la gerarchia stessa dovesse essere molto più «normata», sia nella dottrina che nella prassi, dalla Scrittura e dalla Tradizione da cui essa sgorgava.
    Comprendeva, infine, che una Chiesa autentica non poteva non porsi come l’anima di una trasformazione della storia, pur senza partecipare al potere, ma anzi escludendosi da questo, appunto in quanto forza di trasformazione. Il Vangelo era una forza di cambiamento della società e non poteva perciò non entrare in conflitto con i poteri di questo mondo. Buonaiuti è dunque presente nell’autocomprensione comune della teologia e della spiritualità postconciliare, che è penetrata, pur tra grandi difficoltà e con vaste reazioni, persino nel linguaggio del papato.
    Jemolo da tutto questo era lontano. Egli non vedeva un cristianesimo conflittuale con i poteri di questo mondo. E questo, soprattutto, perché egli, che aveva un concetto così pessimistico dell’evoluzione storica e della società, aveva invece un concetto sostanzialmente ottimistico dello Stato. Lo Stato e il diritto erano per lui fondamentalmente gli organi dell’incivilimento: ed era appunto perché li vedeva scadere che egli si sentiva così pessimista circa il futuro della nostra società e dell’umanità intera.


    Il linguaggio della gente comune


    Jemolo affermava di essere un «malpensante» e di non essere un conservatore. Certo egli scriveva in un tempo in cui il termine «conservatore» non aveva in sé un senso buono. Ma conservatore di quello che di vivo e di universale c’era stato nell’esperienza liberale, nel sorgere dell’Italia a Stato unitario, Jemolo certamente fu. E se dovessimo ora valutare unitariamente sotto il profilo politico il messaggio che Jemolo trasmise per più di un trentennio agli italiani dalle colonne della Stampa(un giornale del suo Piemonte, della matrice politica dello Stato), troveremmo che forse nessun predicato gli si addice meglio che quello di essere un conservatore aperto, autentico e creativo. Jemolo scrisse collocandosi sempre nel luogo ideale di uno Stato liberale, di un pensiero politico liberale. E questo nella forma storica in cui lo Stato liberale era sorto in Italia, cioè come Stato nazionale. Ciò spiega la sua avversione al Patto atlantico e i suoi rilievi critici sull’Italia divenuta provincia dell’impero americano. Ma spiega soprattutto l’attualità che ebbero i commenti di Jemolo. La cultura italiana degli anni cinquanta è dominata dall’ideologia, quella degli anni sessanta dalla sociologia, quella degli anni settanta dalla loro combinazione. Il commento politico diviene perciò tendenzialmente empirico, si attacca alla cronaca, non le dà respiro, prospettiva. Jemolo sapeva guardare alla più minuta cronaca, non solo ovviamente a quella partitica ed interpartitica, e la faceva salire ai problemi dimenticati del diritto e dello Stato, considerati come realtà umane e morali. Il modo in cui Jemolo poneva questi problemi era attuale, perché corrispondeva a una problematica culturalmente e politicamente reale, e tuttavia dimenticata. Lo Stato e il diritto erano considerati da lui non sotto il loro aspetto tecnico, ma sotto il loro aspetto etico: che è esattamente il modo in cui sono comunemente considerati dalla gente.
    L’età sociologica ha lasciato a chi scrive sui giornali, e vuol sembrare in primo luogo uomo di cultura, l’obbligo di parlare in gergo. Il modello di scrittura oscilla tra la «presa diretta» della cronaca teletrasmessa e il discorso in un qualche «ese», accessibile solo agli iniziati. Un giornalista parla concitato o parla alla classe politica e giornalistica, o infine preseleziona un pubblico di iniziati. Jemolo invece aveva la grande dote, che gli veniva non dalla natura ma dal suo tipo di cultura, di toccare il nesso universale del problema politico, quello che lo risolve nel grande linguaggio comune, il linguaggio che accomuna élites e masse, il linguaggio morale.
    Questo spiega bene perché un democratico come Jemolo non poteva stare nei partiti. Il partito è sempre produttore di gergo. Molte volte, ascoltando oratori dei diversi partiti, si ha il senso che non è l’uomo che parla il linguaggio, ma il linguaggio che parla l’uomo. Ossia che non c’è veramente parola. I partiti sono chiusi non solo dal punto di vista delle tessere e del potere, ma, in primo luogo, proprio come universo linguistico. Non ci sono nei partiti creatori di parole, ma al massimo di slogan, cioè di parole che traggono senso solo dal luogo in cui sono dette e per il fatto che debbono essere ripetute. In sé, non significano nulla. Che cosa significa in sé, poniamo, uno slogan di per sé efficace come quello che campeggiava nell’ultimo congresso della UIL: «dall’antagonismo al protagonismo»?
    Come concetto, nulla.


    Un conservatore di modelli e di valori


    Come parola d’ordine, molto. Jemolo era un uomo tutto parola, perché si collocava certo in uno spazio sociale molto complesso, definito e articolato come quello dello Stato liberale e il suo diritto, ma ci si collocava da solo. E appunto perché si collocava in uno spazio preesistente, egli non aveva bisogno di definirlo. Non produceva discorsi ideologici, perché i discorsi ideologici sono sempre programmatici, sono rivolti a una realtà da prodursi. Ma il diritto, lo Stato, il liberalismo erano per Jemolo realtà vigenti, esperienze quotidiane, che occorreva illuminare e con ciò preservare, ma non costruire, fondare. Conservare, insomma. Il caso di Jemolo dimostra come un’intelligenza conservatrice possa essere tutt’altro che serva del potere, ma anzi sistematicamente critica di esso.
    Vien qui da domandarsi se in questa capacità di occupare uno spazio reale come spazio ideale, in questo essere, per parlare assai impropriamente, un «profeta» del diritto e dello Stato di diritto, non ci sia appunto il «nutrimento» che la fede cristiana di Jemolo offriva alla sua vocazione politica. Mi pare di poter rispondere affermativamente, proprio perché Jemolo non si preoccupò mai di essere militante, proprio perché fu così esemplarmente distaccato dalla realtà che egli così intensamente amava. Quest’uomo così profondamente appassionato e impegnato non fu mai veramente un partigiano: non dico del cattolicesimo, il che è impensabile, ma nemmeno del liberalismo e dello Stato di diritto. Forse a ciò lo conduceva il pessimismo, cioè il riscontrare quanto poco gli italiani amassero il liberalismo, il diritto e lo Stato, ma forse anche perché egli pensava che queste realtà fossero, nonostante tutto, incancellabili. Come egli vedeva la Chiesa quale realtà metatemporale, così vedeva diritto e Stato come realtà metatemporali. Se egli concepiva la Chiesa come diritto, concepiva anche il diritto come Chiesa.
    Questo storico dell’empirico e del quotidiano era, in ultima analisi, un uomo che aveva il senso delle forme intellettuali e delle differenze che queste conservano rispetto agli avvenimenti in cui si incarnano. Uomini a lui affini come Ernesto Rossi e Mario Pannunzio cercarono la militanza, appunto perché, di altra cultura, avvertivano maggiormente la densità della vicenda empirica, sentivano più forte il bisogno di causare. Jemolo non si lasciò mai andare molto oltre la sua vocazione di grande giornalista, di uomo capace di situarsi al livello dei problemi di tutti e di offrire a questi problemi la qualità del suo linguaggio e della sua cultura.
    Conservatore, dunque: ma non di poteri, bensì di modelli e di valori. Come non ritrovare in ciò qualcosa di simile a Buonaiuti, per cui la Chiesa era un ideale e un valore in cui egli si collocava al massimo stesso della sua conflittualità con essa? Il separatismo tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e cultura conduceva il credente Jemolo a lasciar penetrare qualcosa del calore della sua fede in questa sua passione pura per il diritto e per lo Stato liberale.


    Il nodo del Concordato


    Non possiamo ora dire quello che rimane del messaggio e dell’opera di Jemolo. La storia è divenuta così travolgente che non può quasi più avere memoria. E un pensiero esposto per frammenti, così calato nel quotidiano, non si presta a memorizzazioni. Forse qualche lettore de La Stampa sentirà ancora a lungo la mancanza del suo commento. Il dramma di Vermicino, ad esempio, non avrebbe offerto una drammatica materia a uno scrittore in quella terza pagina de La Stampa che aveva dato ai suoi articoli una così degna cornice? E i giorni di grande crisi politica in cui stiamo entrando non avrebbero ridato occasione alla sua penna di ritrovare i temi più forti sulla figura del diritto e dello Stato?
    Ma Jemolo certo non affidava all’opinione il giudizio e la continuità della sua vita e della sua opera. Era su un’altra roccia che egli aveva costruito la sua casa. Ma credo che la nostra cultura non dovrebbe perdere di vista il tipo di attenzione storico-politica propria della nostra tradizione storicista e liberale. Infine, i problemi cui essa diede nome e forma sono ancora tra noi. Non diciamo ora solo il diritto costituzionale o penale o processuale o amministrativo dei cui travagli è ormai intessuta la nostra cronaca politica. Pensiamo proprio al diritto ecclesiastico. Jemolo non vide giungere in porto la riforma del Concordato del ’29 cui egli, separatista in linea di principio, aveva pur lavorato negli ultimi anni. Questo problema, di cui egli era certamente un grande esperto, lo ha lasciato ora in mano a generazioni che per esso hanno solo diffidenza e antipatia, il che conduce al paradossale risultato dell’attuale vigenza del Concordato di Mussolini. Il pensiero e la prassi politica dei partiti laici e di sinistra mirano soprattutto a non prendere in mano quella che è una patata ancora bollente. Ma proprio per questo è possibile che nel prossimo futuro del nostro paese si riproponga, a un certo punto, inevitabile il problema della scelta tra sistema separatista e sistema concordatario, per l’impossibilità di giungere ad una vera riforma del Concordato.
    Jemolo lascia dunque aperto innanzi al paese il problema su cui egli si era tanto affaticato: il problema dei rapporti tra Chiesa e Stato. Il suo problema rimane, e con ciò anche la sua testimonianza. I problemi di «conservazione», cioè i problemi del diritto e dello Stato, tornano a imporsi alle generazioni nutrite di sociologia e di ideologia. Non è possibile dinamica politica senza un quadro istituzionale che la sostenga. Le più forti spinte dinamiche possono intristire e perire se il diritto non offre loro uno sbocco civile. La sofferenza, la frustrazione delle generazioni oggi giovani non nasce proprio dalla constatazione dell’impossibilità della politica, della politica resa impossibile dall’assenza di vere istituzioni e, perciò, dall’ingombro reale di poteri senza leggi? Forse presto comprenderemo meglio cosa vuol dire un pensiero «conservatore». Soprattutto quando viene espresso da uno come Jemolo che non volle mai dirsi conservatore di poteri e di privilegi; e che fu conservatore soltanto del diritto e della libertà.
    Non mi risulta che la Chiesa italiana, nei suoi organi di stampa ufficiale, abbia offerto al trapasso di Jemolo più di un qualche commento di stima, legato ai suoi ultimi anni e non all’insieme della sua opera. Ma il pensiero politico deve forse a Jemolo quello che egli rifiutò sempre di offrire a se stesso: cioè un profilo sistematico, un’analisi globale di questa complessa e singolare figura, che ha manifestato la sua coerenza facendo convivere in sé pensieri diversi. Forse un esempio anche in questo: quello di non soffocare mai quello che non si può unificare, di non appiattire mai nell’uniformità e nel conformismo, in nome della coerenza, la varietà e la ricchezza dell’esperienza.

    Gianni Baget Bozzo
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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