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    Predefinito Crisi morale e crisi delle istituzioni (1981)

    In «Nuova Antologia», fasc. 2137, gennaio-marzo 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 3-19.


    La crisi morale è in primo luogo crisi delle istituzioni, e viceversa. Abbiamo riunito in questa ideale tavola rotonda tre delle più alte conoscenze civili e morali del nostro paese, Norberto Bobbio, Arturo Carlo Jemolo, Alessandro Galante Garrone, proprio nel fascicolo della «Nuova Antologia» che in larga parte è destinato a festeggiare i novant’anni di Jemolo.
    Attraverso le tre testimonianze degli amici – riassuntive di posizioni già assunte sulla stampa, anzi, specificamente, sulla «Stampa» di Torino – si leva netto il grido di allarme per la salvezza della Repubblica attraverso la sua rigenerazione: grido di allarme che unisce tutti i credenti nel sistema democratico e nel sistema dei partiti, sottoposti ad attacchi convergenti in cui si uniscono fermenti qualunquisti e fremiti eversivi, strettamente intrecciati e quasi inseparabili.


    Norberto Bobbio

    1. Fisiologia e patologia del potere: il suo «sottobosco»

    Da qualche tempo si è scoperto e si è cominciato ad analizzare il fenomeno del potere diffuso (mi riferisco in particolare alla micro-fisica del potere di Foucault). L’idea tradizionale che il Potere risieda in una persona, in una ristretta classe politica, in determinate istituzioni poste al centro del sistema sociale, è ingannevole. Il potere è dappertutto, come l’aria che si respira. Non si capisce nulla della struttura e del movimento di un sistema sociale se non ci si rende conto che esso è costituito da una fitta e intricatissima (e perciò difficile da districare) interrelazione di poteri. Ma il potere non è soltanto diffuso. È anche disposto a strati, che si distinguono l’uno dall’altro per il diverso grado di «visibilità». Voglio dire che un’analisi completa del potere sociale non deve limitarsi a esplorarlo nella sua ampiezza, ma deve cercare anche di scandagliarlo nella sua profondità.
    La distinzione delle diverse forme del potere in base al criterio della loro diversa visibilità acquista una particolare rilevanza in un sistema democratico perché la democrazia è idealmente il governo del potere visibile, cioè del potere che si esercita o si dovrebbe esercitare sempre in pubblico, come se si trattasse di uno spettacolo cui sono chiamati ad assistere, per acclamare o zittire, tutti i cittadini. Più di duemila anni fa Platone, per designare, se pure con una connotazione nelle sue intenzioni negativa, il governo democratico, aveva coniato il termine «teatrocrazia».
    Il sistema politico italiano si presta benissimo a questo scandaglio. Rispetto agli strati che lo compongono e nei quali può essere utilmente scomposto per un’analisi in profondità, esso può essere distinto, in base al criterio del diverso grado di visibilità, in tre fasce che chiamerò del potere emergente o pubblico, che è quello del governo propriamente detto, del potere semi-sommerso o semi-pubblico, che è quello del sottogoverno, e del potere sommerso o occulto o invisibile, per il quale non c’è ancora il nome (ma c’è, e come!, la cosa), e si potrebbe adottare il nome di cripto-governo. Rinviando il tema di questo terzo stato a un prossimo articolo, mi occupo in questo del secondo: il sottogoverno.
    Con «sottogoverno» s’intende designare il vastissimo spazio occupato dagli enti pubblici o d’interesse pubblico attraverso cui passa gran parte della politica economica o del governo dell’economia, uno spazio che si è andato smisuratamente dilatando in questi ultimi trent’anni via via che sono state attribuite allo Stato sempre nuove funzioni sociali estranee allo Stato liberale classico.
    Che per designare quest’area e le azioni che vi si riferiscono sia stato adottato il termine «sottogoverno» e già di per se stesso significativo. Significa che l’azione che vi si svolge è strettamente connessa con quella del vero e proprio governo. Il legame è duplice perché passa sia attraverso il personale dirigente di questi enti, designato o direttamente nominato dai partiti di governo col sistema della lottizzazione, sia attraverso la funzione «latente» che a esso viene attribuita di provvedere al finanziamento «occulto» dei partiti, ovvero di procurare ai partiti le risorse finanziarie di cui hanno bisogno per provvedere al proprio sostentamento e per acquistare consensi (anche il consenso è una merce che si compra come tutte le altre).
    La formazione di una parola col prefisso sotto- può suggerire due idee diverse: l’idea della dipendenza come nelle parole «sottocommissione» o «sottospecie»: o quella del sostegno, come nelle parole «sottofondo» o «sottocoppa». Mi pare che il termine «sottogoverno» contenga entrambi i suggerimenti: gli enti del sottogoverno dipendono dal governo e insieme lo sostengono. Ne sono insieme una sottospecie e il sottofondo. Arrischierei anche l’ipotesi che col passar degli anni il secondo significato sia andato prevalendo sul primo, corrispondentemente all’aumento del numero, della dimensione e conseguentemente del peso politico, di questi enti. Tanto che oggi nessuna descrizione del sistema politico italiano può fare a meno di tener conto di questo duplice strato di cui è composto (prescindendo per ora dal terzo strato, quello del potere occulto, per il quale il secondo costituisce talora una via d’accesso, come lo scandalo dei petroli rivela).
    Solo tenendone conto si riesce a svelare il segreto della cosiddetta governabilità (della governabilità italiana, ben s’intende). Oggi non c’è più nessuno che creda risolto il problema della governabilità per il solo fatto che una coalizione di governo succeda a un’altra, al posto di una coalizione di due partiti ce ne sia una di tre o quattro o cinque, il ministro di una corrente venga sostituito dal ministro di un’altra. Il segreto della governabilità sta nell’esistenza e nella robusta vitalità del sottogoverno. Il bosco muore senza il sottobosco.
    È solo un paradosso. Ma si potrebbe dire che il nostro paese non ha bisogno di essere governato perché è sottogovernato, perché è governato di sotto, perché esiste un governo sottostante al governo sovrastante, una solida sottostruttura che sorregge una struttura labile, fragile, soggetta a rapidi, apparentemente capricciosi, mutamenti. I governi passano, il sottogoverno resta. Per questo le crisi di governo, tanto frequenti quanto apparentemente inconcludenti, tanto più lunghe quanto più dànno vita a governi di breve durata, non hanno ancora ammazzato il sistema. Il sottogoverno non è mai in crisi, anzi le crisi di governo lo fanno diventare sempre più rigoglioso. Il sottogoverno costituisce una struttura di potere stabile, permanente, con un personale meno soggetto a cambiamenti, meno controllabile, e anche meno controllato (specie da parte della pubblica opinione al cui sguardo si sottrae molto più facilmente), e rappresenta la continuità del potere, specie del potere democristiano, assai più che gli effimeri governi succedutisi in questi trent’anni.
    Qualche cifra che traggo dalla ricerca, a cura di Franco Cazzola, Anatomia del potere DC (De Donato, 1979), un libro da tenere sempre alla portata di mano. Negli enti di previdenza e assistenza su poco più di ottomila «posti annui» (intendendosi per «posto annuo» il posto occupato da un singolo soggetto in un singolo ente per un anno), di cui si è riusciti a individuare l’appartenenza al partito, circa cinquemila appartengono alla DC, seguita a grande distanza dal PSDI con 784. Limitatamente ai presidenti la cui appartenenza partitica è stata individuata, su 853 sono democristiani 603, anche in questo caso seguiti a distanza dai socialdemocratici, che sono 103. Com’era prevedibile, il grande «balzo in avanti» è avvenuto nel periodo 1948-1954 (da 28 a 105) e nel periodo successivo dei governi centristi (da 105 a 170), con una diminuzione leggera negli anni del centro-sinistra (da 170 a 166) e una più sensibile nel quinquennio 1970-1975 (da 166 a 134).
    Che cosa significhino queste cifre per una valutazione del potere democristiano, è evidente. Ma si tratta di andare al di là di questa semplice constatazione e riconoscere che, se il nostro sistema politico dura oltre ogni ragionevole previsione nonostante i governi traballanti, gli irresponsabili scioglimenti anticipati delle Camere, l’inefficienza catastrofica degli organi di governo, dipende dal consolidamento progressivo di un sistema di sottopoteri che le crisi ricorrenti non scalfiscono, gli scioglimenti non turbano, l’inefficienza dei governanti non indebolisce, anzi rende più robusto, esigente e minaccioso.

    (...)
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  2. #2
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    Predefinito Re: Crisi morale e crisi delle istituzioni (1981)

    2. Potere visibile e potere invisibile

    La democrazia è idealmente il governo del potere visibile, cioè del governo i cui atti si svolgono in pubblico, sotto il controllo della pubblica opinione. Le istituzioni di un paese libero non possono durare a lungo, scrisse nel secolo scorso Maurice Joly nel suo Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu, se non agiscono au grand jour (alla luce del sole).
    Come ideale del governo visibile la democrazia è stata sempre contrapposta a ogni forma di autocrazia, a tutte quelle forme di governo in cui il sommo potere viene esercitato in modo da essere il più possibile sottratto agli occhi del suddito. Il padrone che comanda gli schiavi, il monarca di diritto divino, non hanno alcun obbligo di rivelare ai loro soggetti il segreto delle loro decisioni; Tasso fa dire a Torrismondo che «i segreti di Stato al folle volgo / ben commessi non sono». A immagine e somiglianza del «Dio nascosto» il sovrano assoluto, l’autocrate, è tanto più potente quanto meglio riesce a vedere quello che fanno i suoi sudditi senza farsi vedere. L’ideale del sovrano equiparato a Dio in terra è quello di essere, al pari del Dio celeste, l’onniveggente invisibile.
    Tema ricorrente della dottrina dello Stato assoluto è quello degli arcana imperii. Uno dei più noti scrittori machiavellici, Gabriel Naudé, ha sentenziato: «Non vi è nessun principe così debole e privo di senno da essere scriteriato al punto da rimettere al giudizio del pubblico ciò che a mala pena rimane segreto se confidato all’orecchio di un ministro o di un favorito». Il potere autocratico si sottrae al controllo del pubblico in due modi: occultandosi, cioè prendendo le proprie decisioni nel «consiglio segreto» e occultando, cioè attraverso l’esercizio della simulazione o della menzogna considerata come lecito strumento di governo.
    All’arcanum del potere autocratico la dottrina democratica contrappone l’esigenza della pubblicità, di cui la giustificazione più coerente e convincente è stata data da Kant, con questo celebre detto: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste». Qual è il significato pratico di questo principio? Una massima non suscettibile di diventare pubblica è una massima che qualora fosse resa pubblica susciterebbe una tale reazione da rendere impossibile la sua attuazione. Chiarisco questo principio con un esempio tratto dalla nostra grama vita quotidiana. Che un uomo politico si appropri di denaro pubblico è un atto che può essere compiuto soltanto nel più assoluto segreto, solo se non diventa pubblico. E infatti quale uomo politico potrebbe erigere a pubblica massima, e quindi dichiarare pubblicamente, che nel momento di prendere possesso della propria carica si approprierà di denaro pubblico?
    Una simile dichiarazione renderebbe di per se stessa impossibile l’azione dichiarata, perché scatterebbe immediatamente la reazione del pubblico e credibilmente anche delle autorità preposte alla tutela del pubblico interesse. Prova ne sia che l’appropriazione di pubblico denaro da parte di un uomo politico suscita scandalo. In che cosa consiste lo scandalo se non nel fatto che viene reso pubblico un atto che sino allora era rimasto segreto ed era stato mantenuto segreto perché, una volta reso pubblico, non avrebbe potuto essere compiuto, e pertanto la segretezza era la condizione necessaria del suo compimento?
    La democrazia, considerata, almeno idealmente, come la migliore forma di governo, viene spesso accusata di non aver mantenuto le sue promesse. Non ha mantenuto la promessa d’eliminare le élites al potere. Non ha mantenuto la promessa dell’autogoverno. Non ha mantenuto la promessa d’integrare l’eguaglianza formale con quella sostanziale. Stranamente viene di rado accusata di non essere riuscita a debellare il potere invisibile. Eppure il potere invisibile continua ad esistere. Esiste più che mai nel nostro paese: non si capisce nulla del nostro sistema di potere se non si è disposti ad ammettere che al di sotto del governo visibile c’è un governo che agisce nelle penombra (il cosiddetto «sottogoverno») e ancora più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità, e che possiamo permetterci di chiamare «criptogoverno».
    Il potere invisibile può assumere varie forme, che in una prima approssimazione possono essere distinte rispetto al diverso rapporto che ciascuna di esse ha verso il potere pubblico, cioè verso il potere visibile. In base a questo criterio si possono distinguere tre forme di potere invisibile.
    Vi è prima di tutto un potere invisibile diretto contro lo Stato, un potere che si costituisce nel più assoluto segreto per contrastare lo Stato. Vi rientrano le associazioni a delinquere, le grandi organizzazioni criminali, come la mafia, di cui il nostro paese ha un invidiabile primato, e le sette politiche segrete, che oggi si presentano come gruppi terroristici, e la cui proliferazione in questi ultimi dieci anni è un fenomeno, anch’esso, tutto italiano. Le sette segrete si differenziano dalle associazioni a delinquere rispetto ai fini, non ai mezzi che impiegano, ma spesso l’uso degli stessi mezzi, come furti, rapine, sequestri di persone, omicidi, le fa convergere le une nelle altre.
    In secondo luogo il potere invisibile si forma e si organizza non soltanto per combattere il potere pubblico, ma anche per trarne benefici illeciti, per ricavarne dei vantaggi che un’azione alla luce del sole non consentirebbe. Di questo secondo tipo di potere invisibile sono esempi le «associazioni segrete», che, pur essendo vietate dall’art. 18 della nostra Costituzione, esistono, e da quel che è apparso in questi ultimi giorni attraverso le rivelazioni sull’esistenza di una loggia massonica coinvolta negli scandali del petrolio godono di ottima salute. Peraltro, siccome il segreto si mantiene, come ho già detto, non solo sprofondando nel sottosuolo, cioè agendo clandestinamente, ma anche nascondendosi, mettendosi la maschera, possono essere tranquillamente considerate come forme di potere invisibile l’uso dei prestanome, di società fittizie o di comodo, dietro le quali si nascondono, proprio come dietro la maschera, volti che non vogliono farsi riconoscere per poter compiere azioni che non protette dalla maschera sarebbero considerate vergognose.
    Vi è infine il potere invisibile come istituzione dello Stato: i servizi segreti, la cui degenerazione può dare vita a una vera e propria forma di governo occulto. Che ogni Stato abbia servizi segreti è un male, si dice, necessario. Nessuno osa mettere in dubbio la compatibilità dello Stato democratico con l’uso dei servizi segreti. Ma questi sono compatibili con la democrazia a una sola condizione: che siano controllati dal governo, dal potere visibile a sua volta controllato dai cittadini, in modo che la loro azione sia indirizzata sempre e soltanto alla difesa della democrazia. Purtroppo, dalla strage di piazza Fontana in poi, l’atmosfera della nostra vita pubblica è stata intossicata da sospetti di connivenza del potere invisibile dello Stato con il potere invisibile dell’anti-Stato. Nonostante interminabili (e non terminati) processi le tenebre non sono state diradate. Noi, popolo sovrano secondo la Costituzione, non sappiamo ancora nulla, assolutamente nulla, di quello che è veramente successo. Ciò vuol dire che il potere è opaco. Ma l’opacità del potere è la negazione della democrazia.

    (...)
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    Predefinito Re: Crisi morale e crisi delle istituzioni (1981)

    3. Non basta il governo degli onesti

    Da quando è scoppiata la “questione morale” non si parla d’altro. E giustamente ne ha parlato il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine d’anno. Ma non mi pare si siano fatti grandi sforzi per capire di che si tratta. A giudicare dall’occasione da cui è nata (lo scandalo del petrolio e l’affare Pecorelli) sembra si voglia intendere che gli uomini politici debbono essere persone oneste nel senso comune della parola, persone cioè che non rubano, non mentono, non commettono nessuno di quei reati che sono puniti dal codice penale in quanto giudicati azioni che le persone perbene non dovrebbero compiere. Questa interpretazione è tanto diffusa che il partito comunista ha ritenuto di dover proporre come una svolta nella storia delle nostre istituzioni un governo degli onesti.
    Che la questione morale debba essere interpretata anche in questo modo, è fuori discussione. Fuori discussione perché ovvio. Non si vede infatti perché chi fa politica debba essere sottratto agli obblighi cui è sottoposto l’uomo comune. Non esiste una morale pubblica distinta dalla morale privata. Se mai, l’uomo pubblico dovrebbe essere più scrupoloso nel rispetto degli obblighi morali e di quelli giuridici (ma questi sono generalmente obblighi morali sanzionati dallo Stato) per la semplice ragione che le sue infrazioni sono più dannose alla collettività di quelle dell’uomo comune.
    Non ignoro che il problema dei rapporti fra politica e morale è molto più intricato, che in politica vale il principio che il fine giustifica i mezzi, che gli Stati non si governano coi pater noster, e via discorrendo. Ma, girata e rigirata da tutte le parti, la famigerata dottrina della ragion di Stato significa soltanto questo: che l’uomo di Stato si viene a trovare talora in circostanze eccezionali (si badi “eccezionali”) a dover prendere decisioni riguardanti il bene comune (si badi “il bene comune”) che non possono essere prese se non violando regole della morale corrente. Ciò che giustifica un mezzo moralmente discutibile è soltanto la grandezza del fine, e la sua eccezionalità. Il che poi non è neppure una condizione particolare dell’uomo politico perché lo stato di necessità vale come giustificazione anche per l’uomo comune. Che l’essenza del problema stia nella grandezza del fine lo ha detto molto bene Ceronetti in un articolo di “Tuttolibri” di due settimane fa. Che il fine giustifichi i mezzi non vuol dire che i mezzi siano giustificati da qualsiasi fine. La stessa celebre frase di Machiavelli dice che “i mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati” quando il principe riesce a “vincere” e a “mantenere lo Stato”.
    Quale sia la grandezza del fine per cui alcuni dei nostri uomini politici commettono atti disonesti e offendono la morale comune, non è dato capire. C’è il sospetto che il dilagare della corruzione sia dovuto prevalentemente al bisogno di denaro per sostenere una campagna elettorale o per mantenere in vita una corrente di partito. Non che grandi, alcuni di questi fini sono politicamente tutt’altro che corretti. Si tratta, sì, di vincere, ma non una guerra, bensì le elezioni. Si tratta di conservare, sì, ma non lo Stato, bensì il proprio potere personale.
    La massima che il fine giustifica i mezzi è di per se stessa discutibile. È non solo discutibile ma insostenibile quando il fine che dovrebbe giustificare i mezzi è esso stesso ingiustificabile.
    Tutto questo, come ho detto, è ovvio, ma non esaurisce il problema. Qualsiasi trattato di morale distingue la morale generale che regola l’azione di tutti gli uomini, e al cui rispetto quindi tutti sono tenuti, dalle morali speciali cui sono sottoposti gl’individui in quanto appartengono a una determinata classe o gruppo o categoria o professione. Accanto alla morale comune ci sono le etiche del medico e del sacerdote, del giudice e del commerciante, dell’insegnante e del giornalista. In ognuna di queste valgono obblighi specifici, e anche specifiche esenzioni di obblighi. Un medico ha l’obbligo di accorrere alla chiamata di un malato grave anche fuori dalla sua ora d’ufficio ma è esentato dall’obbligo di dire allo stesso malato la verità sulla gravità della malattia. Ogni professione ha il suo codice morale, che con parola dotta e pretenziosa si chiama “deontologia”.
    Tra le morali speciali vi è anche la morale dell’uomo politico. Tanto più poi quando anche la politica è diventata una professione. Per capire la specificità dei diversi codici morali occorre aver di mira la funzione sociale delle diverse categorie cui si riferiscono. Dalla considerazione che la funzione sociale del medico è quella di provvedere alla guarigione degli infermi nascono tutti quei problemi delicatissimi di etica medica che vanno dall’eutanasia al prolungamento artificiale di una vita condannata.
    La funzione sociale dell’attività politica è quella di perseguire e possibilmente conseguire l’interesse pubblico. Di qua deriva l’etica specifica di chi si dedica all’attività politica, il suo codice morale. C’è una distinzione che corre lungo tutta la storia del pensiero politico, la distinzione fra buon governo e malgoverno fondata sulla distinzione fra il governante che persegue il bene comune e quello che persegue il bene proprio. L’etica specifica dell’uomo pubblico è quella in cui la distinzione fra l’azione buona e l’azione cattiva corre parallelamente alla distinzione fra l’azione volta al bene comune e quella volta al bene individuale.
    Ne deriva che l’uomo politico ha oltre ai doveri di tutti anche i doveri che gli spettano in quanto uomo politico. Questi ultimi sono strettamente connessi alla funzione specifica della sua attività. La funzione specifica dell’attività politica è il buon governo come la funzione specifica del medico è quella di ben curare, quella del giudice di ben giudicare, dell’insegnante di ben insegnare ecc. No, quando si pone la questione morale con riferimento all’azione del politico, non si tratta soltanto del governo degli onesti nel senso generico della parola. Si tratta del governo di uomini che antepongano l’interesse dello Stato al proprio, a quello del proprio partito, della propria corrente, del proprio clan, di uomini che rispettino non solo le regole della morale comune ma anche quelle della propria morale professionale.
    Uno dei maggiori rimproveri che oggi l’uomo della strada, l’uomo della morale comune, muove alla nostra classe politica nel suo insieme è di subordinare l’interesse pubblico che è il fine specifico della sua azione specifica all’interesse privato, di approfittare del potere pubblico che deve essere esercitato solo in vista del bene comune per accrescere il proprio potere personale. Una volta si diceva che cattivo governante è colui che mira a soddisfare il bene proprio anziché mirare al bene comune. Oggi si dice che il malgoverno consiste nel consolidare gli affari di Stato come affari privati. Le parole cambiano ma la sostanza è la stessa.
    In questo senso, e solo in questo senso, la questione morale è anche una questione politica. Una questione politica che nessun ritocco della Costituzione potrà mai risolvere. Dai buoni costumi possono nascere buone leggi. Ma non bastano le buone leggi a produrre buoni costumi.

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    Predefinito Re: Crisi morale e crisi delle istituzioni (1981)

    Arturo Carlo Jemolo

    1. Un Paese straziato

    Sappiamo tutti che da anni l’Italia naviga sotto una cattiva stella: fin troppo si è scritto per analizzare ogni lato del nostro malessere se non è troppo ottimistico chiamarlo tale. Speravamo tuttavia che, come nelle più gravi malattie, ci fossero pure dei momenti di remissione, la possibilità di tirare un respiro.
    Un disastro ferroviario, in parte inspiegabile per i profani (può uno conducente di un convoglio perdere la metà del suo carico senz’accorgersene?). Ma sul disastro ferroviario occorre lasciare il giudizio ai competenti; e probabilmente si parlerà ancora di povertà di mezzi e di scarsità di personale (questo bilancio sempre in deficit non può far luogo a tutte le spese che occorrerebbero per mutare ed innovare, e purtroppo da noi in ogni ramo si economizza troppo nella manutenzione, che passa inavvertita, non permette a partiti ed uomini politici locali il vanto di avere ottenuto qualcosa di visibile).
    E poi un terremoto. Qui la causa prima non è imputabile agli uomini; ci si può però domandare se sia esatta e completa la delimitazione delle zone sismiche, e se sia osservata nelle costruzioni la legislazione speciale per queste zone; temo proprio che no, in uno Stato in cui sorgono intere borgate senza licenze edilizie, e col «cosa fatta capo ha» e la riluttanza a demolire dove c’è tanto bisogno di nuove case, tutto finisce di comporsi, magari con ammende pagate poi lentamente in moneta sempre più svalutata.
    Non si scorgono barlumi di speranza. Scandali e scandali: cose impensabili un tempo, colonnelli e generali ammanettati o datisi alla latitanza. Non c’è quasi un uomo di governo di qualche rilievo che non venga accusato, quanto meno non sospettato. Persino sui morti più illustri e compianti, elevato il dubbio che, pur onesti personalmente, abbiano chiuso gli occhi o non vegliato, perché chi avevano più vicino e su cui più confidavano non si lasciasse corrompere. E non indignazione – all’inizio del secolo uno solo di questi scandali avrebbe sommerso per sempre il più popolare uomo di Stato, il più insegne oratore del Parlamento – ma abitudine, un certo compiacimento, quasi, dei lettori di cronache, l’accettare come regola che non ci si dà alla cosa pubblica, alla politica, senza trarne profitto, o l’odiosa frase che non c’è autorità che s’imponga senza qualche abuso.
    La mancanza d’indignazione, l’adattarsi dell’opinione pubblica a questi scandali, sono il sintomo più grave del male del paese. Il terremoto che ha colpito regioni povere, vacillanti anche quando nel resto d’Italia tutto procedeva a ritmo normale, valga a richiamarci tutti, e specialmente chi ci rappresenta e governa, a un più alto senso di responsabilità.

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    Predefinito Re: Crisi morale e crisi delle istituzioni (1981)

    2. Ancora Moro fra due leggende

    Seguo le vane polemiche sul caso Moro.
    Ricordo i vari detti sui morti: «Vive nelle opere, vive nel ricordo, il cristiano ‘vive sempre in Dio’»; e pur quello feroce attribuito al burocrate ed all’ufficiale tedesco che sfoglia l’annuario in vista della desiderata promozione: «Il cadavere del superiore ha buon odore». Ma c’è pur l’altro, meno comune, ma vero: il morto può essere ottima arma di combattimento per i vivi. E temo sia il caso nostro.
    Rievoco, ed ancora ne soffro, i giorni che seguirono il sequestro di Moro; le fotografie e le lettere che pubblicavano i giornali. Vorrebbe ancora vivere, rivedere la moglie, i figli, tornare al lavoro per cooperare alla salvezza dell’Italia, tornare alla scuola, alla vita di ieri, che nello squallore della prigionia appare più bella che forse non fosse: si tratti, ma si salvi.
    E c’è di fronte l’inesorabile ragione di Stato; non tanto l’umiliazione di questo – i politici vi sono avvezzi -, ma la creazione del precedente. Domani sarà sequestrato un altro uomo politico, forse lo stesso Capo dello Stato; come si potrà rispondere alla famiglia: «Per il vostro caro non trattiamo»? O si dovranno rimettere in libertà (ché la delinquenza comune profitterà della lezione) i più feroci assassini, condannati da tutti i giudici?
    Nell’attuale polemica (lasciando da parte le pesanti accuse che toccano alcuni suoi collaboratori) si comincia con l’esaltazione di Moro: ottimo politico, che forse avrebbe composto dissensi tra i gruppi, trovato compromessi per maggioranze parlamentari; ma non taumaturgo che risanasse l’Italia, le desse materie prime, ridestasse l’amore per il lavoro, l’accettazione della fatica, facesse sparire la disoccupazione, l’assenteismo, l’avversione a coltivare la terra, il culto del nuovo dio, il benessere. Non il taumaturgo per la cui salvezza occorre sacrificare la legge, creare il precedente.
    Nella polemica si dimentica che c’erano i cinque morti della scorta, le loro vedove, i figli; dalle lettere pubblicate non consta Moro sapesse della loro uccisione. Con loro si era in certo modo giù ucciso Moro; liberato con uno scambio, avrebbe più potuto incontrare queste vedove, questi figli (la famiglia dell’autista era quasi famiglia amica), senza sentirsi mancare? E quanto si sarebbe accresciuto il già vivo disprezzo del popolo per la classe politica se fosse divenuta comune la convinzione che ogni legge può venire infranta per salvare i grandi della terra, ma gli umili devono rassegnarsi e avere le loro vittime.
    Quei cinque morti vorrei fossero sempre presenti ai politici che dissertano inutilmente sulla possibilità che c’era di salvare Moro; forse la loro evocazione li indurrebbe a far cessare l’inutile polemica.

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    Predefinito Re: Crisi morale e crisi delle istituzioni (1981)

    Alessandro Galante Garrone

    1. Dalla parte degli onesti

    La «questione morale» era stata sollevata e dibattuta con veemenza nelle settimane – ottobre-novembre 1980 – che precedettero il terremoto, in coincidenza con gli scandali del petrolio e le gravissime complicità che tutti sanno; e se ne sarebbe dovuto parlare martedì scorso, in un apposito incontro dei partiti della maggioranza. Il problema è tornato alla ribalta, dopo la catastrofe, ancora più acuto e urgente, alimentato dalla commozione che ha scosso nel profondo il paese.
    E il pensiero non può non tornare a un’altra, lontana «questione morale», la prima, e passata alla storia: quella del 1894-95, scatenata da Cavallotti contro Crispi, allora presidente del Consiglio. Non ne ricorderemo qui le burrascose vicende. Rileveremo soltanto il significativo riapparire di formule e accenti che risuonarono anche allora. Alla invocazione di Cavallotti per una «insurrezione delle coscienze», alla sua famosa Lettera agli onesti di tutti i partiti, che sollevò un immenso clamore, sembrano fare oggi puntuale riscontro gli appelli di un leader dell’opposizione alla «rivolta degli onesti», e il discorso di Forlani al Senato che, nel porre al centro del suo intervento la questione morale, si è rivolto anche lui a «tutti gli onesti», e ha insistito sulla necessità di «diradare le nebbie che deprimono la coscienza morale del paese», di «estirpare la corruzione dallo Stato», di «fare presto a circoscrivere il marcio».
    Ma fra la questione morale del 1895 e quella di oggi, c’è una differenza di fondo da rilevare. La prima era diretta contro un uomo solo, Crispi. Si puntava sulle innegabili colpe della sua condotta privata per travolgerlo politicamente. Oggi, la questione investe tutto un sistema di governo, sottogoverno, criptogoverno. (Rimando per questo ai due articoli di Bobbio). Altissimi ufficiali della Guardia di Finanza che coprono immondi traffici di petrolieri; magistrati che insabbiano o bloccano inchieste; capi dei servizi segreti che si fanno complici di criminali politici; istituzioni pubbliche in sfacelo, o diventate (come qualcuno ha scritto) «accampamento di tribù tra loro ostili soltanto nella spartizione del bottino»; partiti o correnti di partito che per sostenersi e rafforzarsi allacciano o tollerano equivoci rapporti con affaristi e finanzieri spericolati. Il quadro complessivo, dobbiamo ammetterlo, è più oscuro di quello di 85 anni fa.
    Sappiamo benissimo che anche allora, sotto la campagna di moralizzazione, si annidavano intenti e piani politici. Dietro la foga (e anche gli eccessi, e la «caccia all’uomo») dell’assalto di Cavallotti, c’era una precisa intenzione, sua e di altri come Romussi: lo scopo di raccogliere a unità le sparse correnti democratiche, di «rifondare» il partito, di dislocare la maggioranza governativa, di contrastare la concorrenza sempre più temibile dei socialisti. E così oggi è naturale, logico, direi fisiologico, che sotto gli sdegni di certi Catoni ci siano precisi disegni politici. Ognuno fa il suo mestiere.
    Ma non si può trascurare che l’odierna «questione morale» nasce da un sincerissimo disgusto, una protesta, una indignazione che sale dal paese. Pertini se ne è fatto interprete. Guai se, di fronte a tanti scandali, prossimi e remoti, non ci si indignasse. La mancanza d’indignazione è il sintomo più grave del male del paese: lo dice Jemolo in queste stesse pagine. Già Colajanni, quando attaccava la politica crispina, deplorava l’atteggiamento «apatico, indifferente, corrotto» di tanta parte del paese. Non ci si dica che questo sdegno incontenibile può turbare precari equilibri politici. Tale rischio è preferibile alla indifferenza e all’inerzia.
    Corruzione e terrorismo sono oggi i due grandi mali di questa nostra Repubblica. Non c’è più tempo da perdere. Ci aspetta una prova decisiva: o restituire un volto pulito e serio e forte al nuovo Stato, o assistere al suo inabissarsi. Qualcuno, in questi giorni, ci ha riferito versi di Montale destinati ad apparire nell’«opera omnia» di Einaudi «Pare / non debba dirsi Italia / ma lo Sfascio». Ma c’è, per fortuna, un’altra Italia, che proprio in queste ore tragiche si sta prodigando nel Sud in uno slancio di meravigliosa solidarietà. È l’ora di scegliere.
    Giunti a questo bivio, nel momento in cui la «questione morale» ritorna al centro del dibattito politico, ricordiamo alcuni doveri che si impongono a tutti noi. Non generalizzare, coinvolgendo interi partiti, o ceti sociali, nella condanna; ma additare, sempre, uomini singoli, situazioni specifiche. All’opposto, non fingere che la questione morale sia soltanto un polverone ad arte creato per silurare questo o quel personaggio, o indirizzo. E neanche «fare quadrato» contro ogni accusa, col pretesto di tutelare il buon nome di un partito; e non ripetere: «Noi non ci lasciamo processare».
    E soprattutto, non limitarsi alle generiche giaculatorie sulla necessità nella moralizzazione, o abbandonarsi alle infiammate catilinarie; ma proporre rimedi idonei. C’è stato chi, giustamente, ha richiamato l’esempio di un Ernesto Rossi. I problemi concreti da affrontare sono molti. Per esempio: il finanziamento pubblico dei partiti – da abolire, o da sottoporre a rigorosi controlli come in altri paesi -; l’anagrafe tributaria dei politici; la revisione della immunità parlamentare; un sistema di nomine a enti, direzioni di banche, RAI che elimini almeno i più gravi effetti delle lottizzazioni, e imponga, per ogni nomina, la pubblicazione di relazioni giustificative, con indicazioni della eventuale appartenenza a un partito; un più adeguato regolamento dei casi di incompatibilità (vedi Bisaglia).
    Per finire, due citazioni. Una di Cavallotti, capo dell’estrema sinistra (1895): «La libertà di un popolo è nulla dove la corruzione si infiltri nella vita pubblica». L’altra è di uno dei migliori uomini della destra. Massimo D’Azeglio (1865): «Si possono e si debbono allontanare dalla fortuna pubblica gli uccelli di rapina».

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  7. #7
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    Predefinito Re: Crisi morale e crisi delle istituzioni (1981)

    2. Alle radici del terrorismo

    Apro la «Rivista storica italiana» e leggo il discorso che Angelo Ventura ha tenuto all’Università di Padova, alla presenza di Pertini.
    È uno studio che dovrebbe fugare le troppo facili e spensierate illusioni sul prossimo disfacimento del terrorismo italiano. Il caso altoatesino, che ha sembrato conoscere una sua reviviscenza, sta a sé. Giù una volta è stato debellato; e potrà esserlo presto. Esso non ha né le dimensioni né le radici di quello basco o di quello irlandese. Naturalmente, è un problema che deve essere risolto non solo con misure di polizia, ma politicamente. Bisogna applicare con lealtà gli accordi sanciti, e superare le meschine rivalità nazionalistiche, da una parte e dall’altra, in una visione europea.
    Ben altrimenti grave è il terrorismo nostrano: il quale va esaminato, come Ventura ha fatto, con metodo storico, nella sua specificità, lasciando da parte certe analisi sociologiche sui «meccanismi di emarginazione» che caratterizzerebbero la società italiana. Diciamo piuttosto che l’essenziale connotato di questo terrorismo made in Italy è la sua base ampia e fluttuante, quel serbatoio a cui i terroristi che hanno già imboccato la strada senza ritorno del «partito armato» attingono le loro reclute: una base dai contorni non ben definiti, al limite fra la legalità e l’illegalismo, fra l’associazione aperta e i nuclei clandestini, fra la propaganda, o la teorizzazione estremistica, e le azioni già sconfinati nell’illecito penale.
    Questo magma indistinto è costituito, quasi per intero, non da emarginati sociali, ma da intellettuali, tecnici, operai «garantiti» dei grandi complessi industriali, studenti quasi sempre di estrazione borghese. Il colore, rosso o nero, di cui si ammantano questi gruppi, è solo una verniciatura d’accatto, una rimasticatura ideologica, disancorata dalle grandi forze sociali a cui pretendono di richiamarsi.
    È qui, in questa fascia, che il «partito armato» raccoglie i suoi adepti, e il terrorismo germina. Ed è qui, in questa zona di confine tra il lecito e l’illecito, che è maturata l’abitudine alla violenza, anticamera del terrorismo. Come osservava di recente Jemolo, molti di questi giovani hanno cominciato con violenze minori, sia pure la distruzione di un furgone per il trasporto di quotidiani. E via via, si è passati agli «espropri proletari», alle scritte minatorie sui muri, ai pestaggi, ai lanci di bombe molotov. Dall’allegro slogan «prendiamoci la città» si è trascesi ai soprusi e alle intimidazioni, dalle intemperanze goliardiche a veri e propri reati. Ed è questo il campo nel quale per troppo tempo si sono avute le più pericolose tolleranze e indulgenze, se non addirittura compiacenze.
    Ed è a costoro, infine, che si sono rivolti i farneticanti e gelidi teorizzatori, con le loro ciniche parole d’ordine, gli insulti sprezzanti. Lo studio di Ventura ce ne offre un campionario impressionante. È proprio vero quel che diceva un grande storico inglese, Lewis Namier: che per quel che riguarda la storia contemporanea, anche la più recente, i segreti sono stampati, basta saperli cercare, e volerli leggere. Un editoriale di «Autonomia» del 15 febbraio 1979, nel commentare le «dipartite di un lavoratore qualificato del PCI (Guido Rossa) e di un amministratore ‘equo’ della giustizia capitalistica (Emilio Alessandrini)», giudicava criticabili queste «azioni di combattimento contro esponenti del revisionismo»: «non tanto per la fine di due impiegati della macchina statale di controllo antiproletario», ma perché «azzoppare e giustiziare un nemico di classe» può esser fatto solo a condizione che si lavori «dentro l’esperienza dell’illegalità di massa e dello sviluppo del movimento comunista organizzato». E c’è chi (Franco Piperno), in «Preprint» del dicembre 1978, si è commosso per quel «coniugare insieme la terribile bellezza di quel 12 marzo del ’77 per le strade di Roma (il corteo di massa armato) con la geometrica potenza dispiegata in via Fani»! Anche nelle connivenze e suggestioni e mascherature ideologiche deve ficcare lo sguardo il giudice, o lo storico, per capire, nelle sue origini più o meno remote, lo specifico terrorismo del nostro paese.
    Naturalmente, resta intatto il problema giudiziario delle responsabilità individuali rispetto ai delitti che vengono commessi. Su questa necessità di distinguere la responsabilità penale da quella politica o culturale, abbiamo più volte insistito. Ma qui c’è, per noi, un’altra grave ragione d’inquietudine. Molti processi sembrano colpiti da paralisi. Scorrono anni e anni, prima di giungere alla fine. Catanzaro insegni, Forlani ha annunciato, per l’aprile del 1982, la riforma del codice di procedura penale (e se ne parla da più di trent’anni!). Nell’attesa, si dovrebbero varare alcuni provvedimenti urgenti, e già maturi, per sveltire i processi e avviarli a conclusione.
    Un altro motivo di allarme ci indica Ventura. Anche la più prudente valutazione storica deve riconoscere che «forze potenti e occulte agiscono quanto meno per coprire e utilizzare il partito armato». Da tanti indizi affiora un torbido retroscena di intrighi, ad alto livello, negli apparati dello Stato, nel mondo della politica, della finanza, della mafia. Inquietante, ma ineccepibile è la conclusione dell’analisi storica di Ventura: «Nessuna organizzazione terroristica, che non affondi le radici in tensioni etniche o in una disgregazione generale del sistema quale certo non si dà in Italia, può svilupparsi e operare intensamente per così lungo periodo senza coperture e appoggi ad alto livello, nazionali o esteri».
    Altro che terrorismo in via di liquidazione! Ancora una volta, dopo la sequela di sequestri di magistrati e uomini politici, culminata nella tragica vicenda di Aldo Modo, il rapimento del giudice Giovanni D’Urso, il 1° dicembre 1980, si è rivelato per quello che è: un ricatto, al quale non si può opporre che la necessità di rifiutare ogni trattativa, di tener duro con assoluta intransigenza. E non per un «ossequio cieco alla sacralità della legge o alla maestà dello Stato», ma perché il cedimento agli atti del terrorismo aggraverebbe a dismisura il male che un gesto di paura, o di malintesa pietà, vorrebbe scongiurare. La aveva già detto Carlo Casalegno, con sagace preveggenza.
    Che cosa vogliono, questi brigatisti? Mettere in ginocchio lo Stato, e ottenere per i loro compagni arrestati lo status dei prigionieri di guerra? O hanno di mira il trasferimento in altre carceri, da cui possano tranquillamente evadere? O, di fronte alla condanna del paese, vanno alla disperata ricerca di un motivo propagandistico che li tragga fuori dal loro isolamento morale? Forse, il loro vero obiettivo è un altro: spingere, con questi delitti, lo Stato a un reazione repressiva, a misure liberticide che farebbero il loro gioco.
    In ogni caso, sia ben chiaro che non è con questi atti infami che ci si può illudere di migliorare le condizioni di vita nelle supercarceri. Vogliamo essere sinceri fino in fondo. Più di una volta, in questi anni, ci ha assalito il dubbio che potessero esserci anche, all’Asinara o altrove, abusi, trattamenti poco umani, vessazioni non necessarie. E lo abbiamo anche scritto: non perché credessimo a certe denunce probabilmente interessate e partigiane; ma perché, cittadini di questa Repubblica, vorremmo vederci ben chiaro, in queste carceri e supercarceri.
    E invece, sappiamo (e c’è chi può dimostrarlo) che ostacoli sono stati frapposti, da chi era preposto alla custodia, a chi, con pieno diritto, voleva sapere e indagare. In questi anni più volte ci sono tornate alla mente le parole di Casalegno, in una Lettera al generale Dalla Chiesa, qui pubblicata pochi mesi prima di morire: «Le supercarceri debbono essere fortezze inespugnabili, ma anche case di vetro». Per riprendere l’immagine del nostro indimenticabile amico, abbiamo il diritto, anzi il dovere di pretendere che il vetro sia, sì, infrangibile, ma anche limpidissimo.
    E in questo discorso fra uomini liberi e civili, non possono inserirsi come interlocutori i criminali delle BR. Ai loro ricatti si deve rispondere con inesorabile fermezza.
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