Esiste un'unica forma di contagio che si trasmette più rapidamente di un virus.
Ed è la paura.
(Dan Brown, "Inferno")
Il coronavirus 2019-ncov al microscopio (Reuters)
L'immagine sopra - diventata ormai più famosa, a livello globale, persino della Gioconda - è diventata l'emblema della paura... la quale, da sempre, produce ottima letteratura. Da Tucidide a Boccaccio, da Manzoni a Camus, il contagio è propizio di storie e pensieri: rischiara il buio, trasforma in fiaba la malattia e il dolore. Quando abbiamo paura ci rifugiamo nell'immaginazione e ci stringiamo gli uni agli altri per darci conforto: fuori ci sono il male, il nemico, la minaccia; dentro ci sono la sicurezza, il bene, la salvezza. Sani contro appestati... proprio come i novellatori del "Decameron" asserragliati in una villa fuori Firenze, città in cui imperversa il morbo. E dove, per tenere a freno la paura, si raccontano storie d'amore.
Nelle nostre vite, in genere, la paura ha un ruolo marginale: viviamo in luoghi mediamente sicuri, dove non ci sono rischi rilevanti o minacce. Poi è arrivato lui che, come una scossa, ha sparigliato le carte, acceso le nostre giornate, focalizzato i nostri pensieri, cambiato il nostro modo di vivere in poche ore.
Ciascuno di noi reagisce in modo diverso, ma quasi nessuno resta indifferente. Nessuno dice «Corona che?», come si fa per ostentare superiorità rispetto agli accidenti del mondo che vengono a disturbare il nostro olimpico distacco dalla volgare quotidianità. I depressi cronici, come ci ha mostrato Lars Von Trier in "Melancholia", sono quelli che reagiscono meglio: per loro la fine è sempre un sollievo. I razionalisti vacillano e si appellano a Burioni, lavandosi furiosamente le mani mille volte al giorno e dichiarando la propria fiducia nella scienza. E tutti gli altri?
Beh, per gli altri c'è - come si diceva all'inizio - la scappatoia dell'evasione-consolazione... perché, qualsiasi cosa ci accada intorno, anche la più temibile, la letteratura l'ha già raccontata. Prima e meglio.