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  1. #21
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da Doxa Visualizza Messaggio


    La colonna e la lapide che furono collocate nel 1630 a Milano all’angolo tra le attuali via Gian Giacomo Mora e Corso di Porta Ticinese in memoria del processo “all’untore” Gian Giacomo Mora.
    Visto che hai parlato della peste di Milano del 1630 e hai citato la colonna infame, ne approfitto per segnalare un paio di libri sull'argomento, per chi volesse approfondire.
    Il primo è naturalmente "Storia della colonna infame" di Alessandro Manzoni.
    Il secondo libro, temo introvabile, è decisamente più documentaristico: "La Peste Di Milano del 1630: Libri Cinque Cavati Dagli Annali Della Citta E Scritti Per Ordine Dei LX Decurioni Dal Canonico Della Scala Giuseppe Ripamonti".

    Invece, sulla peste di Venezia: Virgilio Boccardi, "La peste a Venezia"; inoltre, di Paolo Ulvioni: "Il gran castigo di Dio. Carestia ed epidemie a Venezia e nella terraferma (1628-1632)".
    Infine, per una panoramica più generale: Giovanni Baldinucci, "Quaderno. Peste, guerra e carestia nell'Italia del Seicento".

  2. #22
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Buonasera Blue. A quest'ora è meglio se ti auguro la buonanotte !

    Sul quotidiano "Il Sole 24 Ore" di oggi, 5 aprile, supplemento della "Domenica" c'è questo articolo dello storico Emilio Gentile titolato "Pandemiche superstizioni"

    "Per oltre un millennio la Chiesa di Roma ha presentato le catastrofi naturali, le epidemie, le guerre, come azioni punitive inflitte dalla volontà divina. Di questa interpretazione si avvalse nell’autunno del 1918 il vescovo di Zamora , quando in Spagna ci fu l’epidemia per “l’influenza spagnola”.

    Il vescovo disse ai suoi fedeli che l’epidemia era dovuta “ai nostri peccati e alla nostra ingratitudine, a causa dei quali si è abbattuto su di noi il braccio vendicativo della giustizia eterna”. E per indurre il suo gregge al pentimento, sfidò le autorità sanitarie che gli si opponevano, e ordinò una novena in onore di San Rocco, il santo protettore contro le pestilenze, dichiarando che di fronte all’impotenza della scienza a frenare l’epidemia, “gli uomini si allontanano, disillusi, e volgono lo sguardo verso il cielo”. E quando l’epidemia finì, il vescovo disse che erano state le preghiere a placare “la legittima rabbia di Dio”.

    Dopo il Concilio Vaticano II il convincimento della punizione divina fu sostituita dall’ammonizione divina.

    Di “ammonimento della Madonna” ha parlato nel febbraio scorso Radio Maria, un’emittente cattolica ascoltata da molti credenti. Nel commentare la comparsa in Cina del “Covid 19”, Radio Maria ha osservato che non è un caso se il virus ha avuto origine proprio nel Paese governato dal comunismo ateo, persecutore dei cristiani, così come la sua propagazione nel mondo è avvenuta perché l’umanità si è resa colpevole di fronte a Dio. La stessa denominazione del virus “corona”, ha spiegato l’emittente cattolica, corrisponde a un messaggio della Madonna di Medjugorie, che esorta alla conversione, annunciando “tempi terribili” per l’uomo, che ha abbandonato Dio per idolatrare se stesso.

    Alla millenaria interpretazione delle epidemie come punizione o ammonizione divina, presente anche nelle religioni precedenti il cristianesimo, si è affiancata nella superstizione popolare l’attribuzione delle epidemie a un complotto.

    Tucidide attribuì la peste, che fece strage di ateniesi nel 430 a. C., ai veleni gettati dai loro nemici nelle cisterne del Pireo. La diffusione di sostanze venefiche fu definita da Seneca “pestilenza manufatta”, e questa denominazione fu usata nel Medioevo e nell’epoca moderna.

    Per secoli la superstizione popolare ha attribuito la peste o il colera alla “presunta apparizione di esseri angelici, ministri di morte e strumenti di vendetta divina, oppure si individuano in determinati gruppi sociali i responsabili del contagio”.

    Paolo Preto nel suo libro titolato “Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna” (edit. Laterza), con dovizia di esempi, che vanno dalla peste del 1630 fino alla “spagnola”, l’autore documenta quanto fosse diffusa, radicata e persistente in Italia la credenza che vi erano “untori”, che usavano materie untuose , polveri e altri preparati venefici, per propagare la malattia. La superstizione popolare, spesso alimentata da chi se ne avvaleva per i propri interessi, attribuiva la “peste manufatta” a una potenza straniera, una classe sociale o una setta religiosa, che si servivano degli untori come manovalanza per diffondere il contagio.

    Alla credenza negli untori seguiva la paura popolare per la loro azione malefica, e alla paura seguivano inevitabilmente i massacri di individui e di gruppi identificati accusati di essere artefici o propagatori dell’epidemia: streghe, alchimisti, stranieri, eretici, ebrei vagabondi, pitocchi, “galantuomini”, farmacisti, e persino medici che curavano gli infettati.
    Credere nella volontà punitrice di Dio e nella “peste manufatta” hanno avuto una storia di lunga durata, attraversando, come un fiume carsico, le fasi di progresso e di secolarizzazione della scienza, per riemergere periodicamente in occasione di nuove epidemie, nel XIX e XX esecolo.

    In Italia, prima dell’unificazione, ci furono spesso azioni violente contro presunti untori, da parte di folle inferocite dalla superstizione, aizzate anche da spregiudicati agitatori, che se ne servivano per interesse personale o per scopi politici.
    La credenza nella “peste manufatta” assunse spesso motivazioni classiste fra le masse povere, che accusavano i “signori” e i “galantuomini” di volerle sterminare, diffondendo il morbo o proteggendosi dal morbo col privilegio di cure esclusive.

    Durante il Risorgimento, i reazionari del trono e dell’altare additarono alle plebi superstiziose i liberali e i patrioti come untori. Ma neppure i patrioti laici e razionalisti esitarono ad infiammare il popolino contro il governo borbonico, come artefice del contagio. Rivolte provocate dalla credenza nella “peste manufatta” fecero irruzione ancora nel 1910-1911, durante un’epidemia di colera, con folle inferocite che nel Sud Italia si scagliarono contro amministratori, medici, e persino il re Vittorio Emanuele III, accusati di voler sterminare la povera gente, diffondendo con una “polveretta” il morbo del colera.

    Nei giornali dell’Italia liberale, che celebrava i primi cinquant’anni di unità, apparvero “con ossessiva ripetitività” parole come: superstizione, untori, barbarie, medioevo. Pochi anni dopo, la “spagnola” fu attribuita, sia in Italia sia nei Paesi alleati, alla guerra batteriologica dei tedeschi: negli Stati Uniti furono fucilati ufficiali e infermieri della sanità, accusati di aver inoculato la malattia nelle truppe che si accingevano a partire per l’Europa.

    Con il progresso nella scienza medica, la lunga durata delle credenze superstiziose sull’origine divina o umana delle epidemie si è rarefatta. La maggioranza della popolazione sembra ormai incredula contro le false dicerie. Ma ci sono ancora teologi di varie religioni che attribuiscono l’attuale pandemia a punizioni o ammonizioni divine. Tuttora governanti e intellettuali laici affermano o insinuano che il Covid 19 sia stato confezionato da una grande potenza che aspira al dominio del mondo. E, forse, un inconscio residuo di antiche superstizioni echeggia ancora quando si sente dire che il coronavirus ha dichiarato guerra all’umanità.

    p.s. grazie per le informazioni sulla localizzazione del Gentilino. Andrò nei due bar che mi hai segnalato.

    Da piazza Duomo al Naviglio Grande sono poco più di 2 km all'andata ...

  3. #23
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Abito del medico della peste

    Nel XVII secolo era "l’abbigliamento" indossato dai medici per proteggersi dalle epidemie: una tunica nera idrorepellente in tela cerata e lunga fino alle caviglie, cappello nero a tesa larga, gorgiera, guanti, stecca lignea per esaminare i pazienti senza toccarli; ad ideare la maschera a forma di becco di pappagallo tucano, fu il medico francese Charles de L’Orme. Due lacci permettevano di legare dietro la nuca la maschera-respiratore: aveva due aperture per gli occhi coperte da lenti di vetro; la respirazione avveniva attraverso il grande becco ricurvo all’interno del quale venivano immesse essenze aromatiche: come rosmarino, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi garofano, aglio, a volte una piccola spugna imbevuta di aceto con funzione filtrante per non respirare l’aria malsana del Lazzaretto.

    Le cause della malattia e le modalità per il contagio erano ignote. Secondo la dottrina miasmatico–umorale elaborata dagli antichi medici greci come Ippocrate e Galeno, le malattie si trasmettevano sia per lo squilibrio fra i vari umori del corpo (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) sia per i miasmi che inquinavano l’aria.
    La maschera serviva al medico per evitare il fetore emanato dai corpi degli appestati.

    Non esisteva la cura efficiente per la peste, considerata lugubre mistero, perciò il clero ebbe facilità nel farla credere castigo di Dio per i peccati commessi.

    I medici cominciarono ad usare maschere a forma di becco nel XIV secolo, durante le epidemie che fra il 1347 e il 1353 sterminarono circa un terzo della popolazione europea.



    L'uso dell'abito del medico della peste cadde in disuso nel XVIII secolo.

  4. #24
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura



    Milano, Piazza San Babila durante la peste del 1630 (Melchiorre Gherardini)

  5. #25
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Ciao, Doxa, e grazie per l'articolo sulle "Pandemiche superstizioni", che ho letto con estremo interesse.
    Mi ha fatto un po' rabbrividire leggere i messaggi devianti lanciati da Radio Maria (che per mia fortuna non ascolto mai)... sembra che i circa quattrocento anni trascorsi dai tempi della peste del 1600, in questo caso siano passati invano.

    Anch'io ho letto da più parti la bufala del Covid 19 creato in laboratorio e diffuso a bella posta, per le ragioni più diverse (egemoniche, punitive, etc.): il fatto grave è che un bel mucchio di persone prende queste panzane per verità.
    Così come, in questo periodo cupo, è stata rispolverata la figura dell'untore, che pure mi ha strappato qualche sorriso. Dopo essere stati respinti per decenni dall'Occidente, Italia compresa, per gli africani è arrivato oggi il momento della rivincita:

    https://www.lastampa.it/topnews/prim...ori-1.38617726


    PS. Sicuro che da Duomo al Libraccio, a piedi, siano solo due chilometri? In bici (dribblando traffico, mezzi pubblici, rotaie del tram e folla) mi sembravano di più...
    Comunque, se fai quel percorso e poi torni anche indietro come hai scritto, fanno sempre un bel quattro chilometri netti. Che non sono pochissimi, in un centro città congestionato.

  6. #26
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    «Vedi Napoli e poi muori». La peste del 1656



    Domenico Gargiulo, "Largo Mercatello a Napoli durante la peste del 1656"
    Napoli, Museo Nazionale di San Martino



    Il famoso motto pronunciato da Goethe oltre cento anni dopo l'epidemia di peste che decimò Napoli, mi è tornato in mente a proposito della peste che fece moltissime vittime nella città partenopea a metà del Seicento.

    Non si trattò di un'ulteriore diffusione dell'epidemia che aveva colpito il nord e il centro Italia circa vent'anni prima: secondo alcune testimonianze, furono i soldati spagnoli provenienti dalla Sardegna a portare il morbo nella città ai primi di gennaio di quel terribile anno, il 1656. Un soldato spagnolo appena giunto in nave dalla sardegna, si ammalò e fu ricoverato all'ospedale dell'Annunziata, dove gli venne diagnosticata la peste dal medico Giuseppe Bozzuto. Ma quando lo scrupoloso medico diede l'allarme, fu messo a tacere per non agitare la popolazione e imprigionato col pretesto di aver diffuso notizie false. Proprio com'è successo ai giorni nostri al giovane medico cinese Li Wenliang, il primo a lanciare l'allarme sulla diffusione del Coronavirus: zittito, arrestato, poi riabilitato... e morto da eroe dopo aver contratto l'infezione. Il medico napoletano Giuseppe Bozzuto, invece, non fu riabilitato mai e morì in carcere dopo aver contratto la peste. I suoi colleghi, per evitare di finire anche loro in carcere, non denunciarono la malattia, né si premunirono di bruciare tutto ciò era appartenuto alle prime due vittime della peste. E così il morbo si diffuse rapidamente in città, insieme a varie credenze sulla sua origine: secondo alcuni erano stati gli spagnoli a portare la peste in città per punire i napoletani per la sommossa del '47 capeggiata da Masaniello; secondo altri la punizione era divina, ed a questa si aggiungeva la profezia di un nuovo diluvio universale e della fine del mondo, dopo il passaggio della cometa del 1653.

    A quel tempo Napoli era una città affollatissima, con una popolazione di quasi mezzo milione di persone: un numero esorbitante per l'epoca. La ragione era dovuta al fatto che nel 1631 si era verificata un'importante eruzione del Vesuvio che aveva investito molti paesi e casali fuori dalle mura della città. In seguito all'eruzione, buona parte della popolazione di quei paesi, rimasta senza casa e senza lavoro, si rifugiò nell'angusto perimetro cittadino, per via del vigente divieto da parte del governo spagnolo di edificare al di fuori delle mura, per poter meglio controllare le continue ribellioni del popolo. Così, circa 50.000 senzatetto si riversarono soprattutto in alcuni rioni storici di Napoli, già sovraffollati e con condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie, privi di un adeguato sistema fognario e di sufficienti riserve d'acqua, rendendoli perciò maggiormente esposti al rischio di malattie.

    La città attraversava in quegli anni uno dei periodi più tristi della sua storia: dominata dagli spagnoli, con il popolo schiacciato dal peso delle tasse e da una politica autoritaria e sanguinaria che portò con sé carestie, miserie, sopraffazione e inquisizione. Fu per questo che la ribellione popolare era sfociata nel 1647 nella rivolta capeggiata da Masaniello, con momenti drammatici che aveva mandato al patibolo centinaia e centinaia di ribelli o presunti tali.

    In questo clima già molto difficile, la diffusione della peste rappresentò il colpo di grazia: l'altra densità della popolazione, l'estrema povertà, le condizioni igienico-sanitarie pressoché inesistenti facilitarono enormemente la diffusione del contagio. Grave fu la colpa del viceré di Napoli di permettere un massiccio esodo della popolazione verso altre province: almeno un terzo degli abitanti fuggì dalla città, contribuendo al diffondersi dell'epidemia in tutti i territori del Regno. Un altro grave errore delle autorità fu quello di perdere mesi preziosi: l'epidemia venne riconosciuta ufficialmente soltanto a primavera inoltrata, nel maggio 1656, con l'istituzione di un cordone sanitario che proibiva a chiunque di entrare o uscire da Napoli senza il "bollettino di sanità", una sorta di certificato di buona salute. Come lazzaretto venne utilizzato l'ospedale di S. Gennaro, che si trovava nei pressi della chiesa della Sanità, facilmente raggiungibile da ogni quartiere e vicino a due grandi caverne dove venivano seppelliti i morti.

    Somme enormi vennero spese per comprare medicine e sostanze purificanti, come aceto e verderame, per disinfettare tutto ciò che era stato toccato dai malati. Intanto, la terribile epidemia non rese affatto più indulgente il viceré di Napoli: per i trasgressori c'era la pena di morte e, in quel terribile anno, moltissime persone finirono al patibolo per reati quasi sempre presunti e disperatamente confessati sotto tortura. Dai registri dei monaci della Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia emerge un panorama sociale cupo ed avvilente: in città le botteghe restarono chiuse per mesi, gli alimenti scarseggiavano, il porto era isolato e le campagne abbandonate.

    La peste provocò circa 250.000 morti in città, mentre nel resto del Regno il tasso di mortalità oscillava fra il 50 e il 60% della popolazione, con un numero di vittime stimato in circa 600.000 persone. Le vittime in città venivano quasi tutte seppellite nelle cave sotterranee; ma molti corpi finivano anche in mare per poi riemergere sulle spiaggia di Chiaia, ammorbando l'aria di un terribile tanfo, sotto il sole estivo, e diffondendo ulteriormente il contagio.

    Poi, accade un miracolo. In piena estate, il 14 agosto, un vero e proprio nubifragio fuori stagione si abbatté su Napoli e si rivelò decisivo perché spazzò via gli umori pestilenziali, purificando l'atmosfera. Fu da quel momento che il contagio cominciò a rallentare: i decessi diminuirono, i lazzaretti e gli ospedali a poco a poco si svuotarono finché, nel dicembre di quello stesso anno, Napoli venne dichiarata libera dalla peste. Ma le conseguenze dell'epidemia furono pesantissime: la città era quasi spopolata; molte famiglie furono completamente distrutte e interi rioni della città quasi estinti.

  7. #27
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Buonasera Blue, finora ci siamo soffermati sulla parte storico-artistica della peste. Ma in questi giorni di pandemia, di tempo quaresimale, di meditazioni spirituali sul significato della vita e della morte si potrebbe continuare questo tuo topic ampliandolo, se ti va, argomentando in particolare sul senso della vita dal punto di vista psicologico. Che ne pensi ?

    Lo so che prima di domandarsi il senso della vita bisogna chiedersi cos’è la vita, cos’è un essere vivente.

    Interrogarsi sul senso della vita significa indagare anche il significato della morte. Vita e morte sono in tandem.

    Per l’ateo la vita umana è come un arco, si nasce e quando si muore c’è il nulla. Invece per il cristiano la vita umana è come un cerchio, legandosi a Dio congiunge l’inizio con la fine nella vita eterna.

    Il biologo e genetista Edoardo Boncinelli nel suo saggio titolato “Vita” dice che un essere vivente è materia organizzata, limitata nel tempo e nello spazio, capace di metabolizzare, riprodursi ed evolvere.

    I costituenti sono cellule e macromolecole, ma è il possesso del genoma che fa l’essere vivente. Il DNA del genoma di un organismo ha la funzione dell’informazione genetica e quando inizia la sua vita è un “riassunto delle puntate precedenti”, di tutto ciò che è accaduto fino a quel momento.

    In un altro suo libro, titolato “Quel che resta dell’anima”, Boncinelli evidenzia che “… la consapevolezza di dover morire è un peso che accompagna l’uomo in ogni circostanza, per quanto si sforzi di vivere come se così non fosse. E proprio per sopportare questo pesante fardello, l’uomo ha inventato l’anima, affinché almeno una parte di sé potesse essere immortale e incorruttibile, non deperire col tempo e non essere annientata.” Questo genetista nel citato suo saggio sull’anima aggiunge: “… si potrebbe intendere come anima il genoma. Non c’è vita senza genoma. Se la vita ha un’anima, questa risiede nella vigile presenza del suo genoma.
    Tale anima si trasmette attraverso le generazioni e questo processo dura da quasi quattro miliardi di anni, rappresentando e garantendo l’unicità della vita.

    La biologia molecolare ha scoperto che l’essenza della vita è in due sue proprietà essenziali: il possesso di un genoma ed un assetto strutturale e funzionale che le permette di utilizzare l’energia e l’informazione prese dal mondo.

  8. #28
    Blue
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da Doxa Visualizza Messaggio
    Buonasera Blue, finora ci siamo soffermati sulla parte storico-artistica della peste. Ma in questi giorni di pandemia, di tempo quaresimale, di meditazioni spirituali sul significato della vita e della morte si potrebbe continuare questo tuo topic ampliandolo, se ti va, argomentando in particolare sul senso della vita dal punto di vista psicologico. Che ne pensi ?
    Penso sia meglio di no... non in questo topic, almeno, al quale ho voluto dare un taglio storico-letterario sulle principali epidemie dall'antichità ai giorni nostri. Il "tempo quaresimale" e le "meditazioni spirituali" ci porterebbero troppo lontano dal tema. Ma nessuno ti vieta di aprire un topic in altri spazi di questo forum: dove si parla di religione e spiritualità, per esempio.

    In effetti, mi rendo conto che questa tua richiesta possa essere scaturita anche dal titolo forse fuorviante che avevo dato a questo topic; ragion per cui, l'ho cambiato.
    Ultima modifica di Blue; 07-04-20 alle 20:56

  9. #29
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    Predefinito Re: Epidemie fra storia e letteratura

    Monatto: dal dialetto milanese “monatt”, di etimo incerto.

    Nei secoli XVI e XVII nei periodi di epidemia pestilenziale i monatti erano gli incaricati dai Comuni del trasporto degli appestati nel lazzaretto o nelle fosse comuni dei morti di peste. Eseguivano anche le sepolture e la distruzione degli oggetti dei defunti che potevano essere latori di contagio. Per la triste mansione venivano scelti condannati a morte, carcerati, o persone guarite dal morbo e così immuni da esso.

    Proprio per la loro origine spesso malavitosa, erano inizialmente sorvegliati da commissari e soggetti a regole e norme, ma, con il passare del tempo e il dilagare dell’epidemia, i monatti sfuggirono ad ogni forma di controllo: “…si fecero, i monatti, principalmente, arbitri d’ogni cosa […] Sono considerati un flagello nel flagello dell’epidemia. Indossano vestiti dai colori accesi, quali il rosso, con pennacchi e fiocchi di vari colori che quelli sciagurati portavano come segno di allegria, in tanto pubblico lutto” (cap. XXXII).

    Manzoni descrive i monatti nell’epidemia di peste a Milano nel 1630: “serventi pubblici ... addetti ai servizî più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta” (Promessi Sposi, cap. XXXII).

    Raramente i monatti mostrarono segni di compassione e di rispetto nei confronti dei morti e delle loro famiglie.

    Nell’episodio della madre di Cecilia (cap. XXXIV), il monatto pur definito inizialmente turpe, mostra invece un atteggiamento difforme a quello dei suoi compagni descritti in precedenza; la diversità dei modi della donna lo induce a un insolito rispetto e ad una esitazione involontaria, fino alla finale gentilezza nei confronti del corpo morto di Cecilia: “Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina”.


    Sull’uscio di casa la madre di Cecilia parla con il monatto mentre sorregge tra le braccia il corpo esanime della bambina.

    Altra dolorosa incombenza era quella degli “apparitori”: avevano l’incarico di annunciare il passaggio dei carri dei monatti e dei “commissari” incaricati di vigilare su queste attività. Per il loro annuncio gli apparitori usavano dei campanelli legati alle caviglie o alla cinta dei pantaloni, avvertivano “col suono d’un campanello, i passeggeri che si spostassero” (cap. XXXII).

    Nel capitolo XXXVI de “I Promessi Sposi” Renzo alla ricerca di Lucia a Milano, si "traveste" da apparitore per riuscire a introdursi indisturbato nelle corsie femminili del lazzaretto di Milano, indossando al piede un campanello; quando a un certo punto un commissario gli rivolge degli ordini, decide allora di sbarazzarsi del campanello, ritenendo di poter avere più problemi che vantaggi da quel travestimento.

    Manzoni dice che gli apparitori e i monatti venivano accusati di ruberie e “che lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza” (cap. XXXII).

    Nella bassa padana, al di là del fiume Po, nella città di Piacenza, nella grida “Regole et ordini”, i monatti venivano distinti tra “brutti” e “netti”. “…alla porta della casa che si dovrà espurgare, mandandosi dentro di quella solamente li monatti brutti, che entravano per primi nella case infette, facendo la prima purgazione, esponendosi fortemente al contagio”; i monatti netti ripetevano la disinfezione in condizioni igienico-sanitarie meno rischiose per distruggere ed eliminare potenziali microrganismi patogeni.

  10. #30
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    Predefinito Re: Epidemie fra storia e letteratura

    Il filosofo e sociologo francese Paul-Michel Foucault (1926 – 1984) scrisse il saggio titolato “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”. Nella terza parte del terzo capitolo dedicato al "panoptismo" argomenta anche sulla peste.

    “Panoptismo” è una parola di origine greca derivante da “panòpticon, lemma composto da “pan” (= tutto) + “opticon” (= visione completa). Fa riferimento al carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham per permettere ad unico sorvegliante di osservare (opticon) tutti (pan) i soggetti e le strutture dell’istituzione carceraria. E’ una costruzione ad anello al cui interno si trovano tante celle e al cui centro è posizionata una torre per mezzo della quale viene esercitato il controllo.

    Il nome panòpticon evoca il mito greco di “Argo Panòptes”: un gigante con un centinaio di occhi disposti in tutte le direzioni; dormiva chiudendone cinquanta per volta, perciò considerato un ottimo guardiano.

    Foucault usò il termine panòpticon come metafora del potere invisibile che ha la possibilità di spiare tutto e tutti.

    La descrizione dell'epidemia di peste riportata dall'autore è tratta dagli archivi militari di Vincennes (Francia) della fine del XVII secolo e somiglia in parte alle odierne pratiche di quarantena e misure di sicurezza messe in atto per contrastare il propagarsi del COVID 19.

    La città idealmente divisa in settori amministrativi e chiusa alla circolazione anche nel circostante territorio agricolo. Interdizione di uscirne, pena la vita. Tutti gli animali randagi venivano uccisi. Ogni strada era sottoposta all’autorità di un sindaco. Se la lasciava incontrollata veniva ucciso.

    In un giorno pre-determinato ogni famiglia doveva rimanere in casa. Il sindaco chiudeva dall’esterno le abitazioni e le chiavi le consegnava all’intendente di quartiere, che le conservava fino alla fine della quarantena.

    Ogni famiglia aveva le provviste, gli alimentari che non avevano venivano forniti e introdotti in casa tramite tubature in legno o ceste issate con le carrucole o le corde.
    Se era assolutamente necessario uscire di casa, poteva farlo uno alla volta. Nelle strade giravano soltanto il sorvegliante, l’intendente, i soldati di guardia e i cosiddetti “corvi”, “persone da poco che trasportano i malati, interrano i morti, puliscono e fanno molti servizi vili e abbietti”.

    Foucault dice che le ispezioni erano continue: ogni giorno il sindaco passava per la strada di cui era responsabile; si fermava davanti ad ogni casa; faceva mettere tutti gli abitanti alla finestra e chiamava ciascuno per nome; si informava sul loro stato di salute; erano obbligati a dire la verità per non rischiare la vita; se qualcuno non si presentava il sindaco chiedeva la motivazione: “In questo modo scoprirà facilmente se si dia ricetto a morti o ad ammalati”.

    Vigeva un sistema simile a quello carcerario, quando la guardia passava di cella in cella, batteva sulla porta e il prigioniero doveva presentarsi.

    La sorveglianza degli abitanti si basava su un sistema di registrazione permanente: rapporti dei sindaci agli intendenti, degli intendenti agli scabini o al sindaco della città.
    All’inizio della “reclusione” veniva stabilito il ruolo di tutti i cittadini. Sui registri venivano annotati “il nome, l’età, il sesso, senza eccezione di condizione”: una copia per l’intendente del quartiere, un’altra per l’ufficio comunale, ed ancora un’altra per il sindaco della strada, per poter fare l’appello giornaliero.

    Tutto ciò che veniva osservato nel corso delle visite (morti, malattie, reclami, irregolarità) veniva trascritto e trasmesso agli intendenti e ai magistrati. Questi sovrintendevano alle cure mediche, attribuivano un medico e nessun altro sanitario poteva curare l’infermo, nessun farmacista poteva preparare i medicamenti, nessun confessore poteva visitare un malato, senza aver ricevuto un’autorizzazione scritta “per evitare che si dia ricetto e si curino, all’insaputa del magistrato dei malati contagiosi”.

    Dopo cinque o sei giorni dall’inizio della quarantena si procedeva alla disinfezione delle case. Gli abitanti venivano fatti uscire all’esterno. In ogni stanza venivano spostati mobili e merci, chiuse le finestre e diffuse delle essenze. Al termine gli addetti alla disinfezione venivano controllati, per vedere se avevano rubato oggetti di valore nelle abitazioni. Dopo quattro ore gli abitanti potevano rientrare in casa.

    Alla peste si rispondeva con gli ordini da parte delle autorità costituite, per evitare le confusioni create dalla paura e dalla morte a seguito della malattia e del contagio che si diffondevano rapidamente quando i corpi delle persone erano ravvicinati.

    Foucault afferma che oltre alla paura della peste c’era il timore per le rivolte, i crimini, il vagabondaggio, lo sciacallaggio. L’epidemia suscita il desiderio dell’ordine, della disciplina, sorveglianze e controlli, intensificazione e ramificazione del potere.
    Ultima modifica di Blue; 08-04-20 alle 20:46

 

 
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