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  1. #11
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Buonasera Blue, mi permetti di allegare il mio post sul Lazzaretto di Milano ? Si, dai, grazie.

    Il Lazzaretto di Milano venne costruito tra la fine del ‘400 e l'inizio del ‘500 fuori da Porta Orientale, come ricovero per i malati durante le epidemie.
    Era costruito a forma di quadrilatero lungo 378 metri e largo 370 e occupava un'area delimitata dalle odierne via San Gregorio, via Lazzaretto, viale Vittorio Veneto e corso Buenos Aires.


    Il Lazzaretto negli anni 1880, attraversato dalla ferrovia

    Alessandro Manzoni “I promessi sposi”, capitolo XXXV):
    S'immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt'ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; [...] e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi”.

    La storia raccontata dalla parola lazzaretto

    Lorenzo Tomasin: “Non la chiamiamo più peste, forse perché il termine oggi tecnicamente più appropriato pandemia ce la fa apparire devastante, sì, ma anche più razionalmente descrivibile, riconducibile - con quel tipico grecismo - a una controllabile patologia.

    E non parliamo più di lazzaretti: «non abbiamo voluto creare un lazzaretto», ha detto qualche giorno fa un consulente della Regione Lombardia, chiarendo: «non abbiamo voluto creare capannoni con brandine per mettere lì chi non aveva più speranza».

    Tanto può, nell' immaginario generale, il topos romanzesco del lazzaretto come luogo caotico della incurabile disperazione. È un altro nome da non evocare, un' altra parola da evitare, in italiano almeno, perché ormai carica di un' inguaribile negatività. Ai lombardi di oggi, il nome ricorda il lazzeretto milanese descritto dal Manzoni dei Promessi sposi: luogo sciagurato in cui le duecento e ottantotto stanze previste «o giù di là» erano state stipate con diecimila accattoni raccolti spesso a forza dagli angoli delle strade.

    A dire il vero, il nome lazzaretto (oggi definitivamente impostosi in una forma diversa da quella toscaneggiante preferita da Manzoni) non viene dalla Milano di Renzo e fra' Cristoforo, bensì da una Venezia più antica, in cui i Lazzaretti - ce ne sono due: il Vecchio e il Nuovo - erano luoghi più ordinati ed efficienti.

    La storia dei lazzaretti inizia su un' isola della Laguna posta di fronte al Lido, sede dal tardo Medioevo di un monastero dedicato a Santa Maria di Nazareth, detto appunto popolarmente nazaret(o). Nella prima metà del Quattrocento il luogo fu scelto come ricovero per i malati, e qualche decennio più tardi un' altra isola poco lontana - che ospitava la vigna dei Benedettini di San Giorgio: oggi Lazzaretto nuovo - fu destinata alla pratica della contumacia per merci e marinai sani provenienti da porti infetti. È quella che chiamiamo oggi quarantena, termine quest' ultimo di origine religiosa (in origine indicava periodi di penitenza e preghiera) che però qui non era usato, sebbene oggi molti lo ritengano di origine veneziana: nel senso di 'isolamento sanitario' pare lo si sia introdotto per la prima volta in Lombardia, durante la cosiddetta peste di San Carlo (1566-1567: lo usa anche Torquato Tasso in una sua lettera di quegli anni).

    La denominazione dell' isoletta lagunare oscillava dunque tra nazareto e lazareto, e quest' ultima forma era certo influenzata dal nome del Lazzaro lebbroso menzionato nel Vangelo (per cui termini simili riferiti a persone indicavano già in generale i malati, i derelitti, gli emarginati: si pensi al fortunato lazzarone, di origine meridionale), oltre che dalla vicinanza di un' altra isola, dedicata appunto a San Lazzaro (oggi degli Armeni) e adibita da tempo ad analoghe funzioni. Nei decreti della Serenissima emanati durante il Quattrocento per fronteggiare le pestilenze si può osservare quasi in diretta l' evoluzione dell' uso dal Nazareth ancora impiegato nelle prime leggi in materia al Lazzareto invalso verso la fine del secolo.

    La parola veneziana vagò per l' Europa, andando a indicare in alcune lingue il ricovero per gli ammalati, senza un necessario nesso né con le pratiche di contumacia, né con le pestilenze: per questa via, ancora oggi in alcune lingue la parola corrispondente a 'lazzaretto' indica semplicemente l' ospedale, come càpita nei Paesi scandinavi: in svedese e norvegese, lasarett, in danese lazarett, che (come in tedesco e in inglese) è l' ospedale da campo, ciò che fa supporre una circolazione del termine in ambiente militare, lontano dalle pagine della letteratura”. (Il Sole 24 Ore, 29 – 3 - 2020)

  2. #12
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura


  3. #13
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Il secondo "lazzaretto al Gentilino" in quale zona di Milano corrisponde nel nostro tempo ?

    Grazie !

  4. #14
    Blue
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da Doxa Visualizza Messaggio
    Il secondo "lazzaretto al Gentilino" in quale zona di Milano corrisponde nel nostro tempo ?

    Grazie !
    Si trova sui Navigli, a due passi da casa mia... qui:

    https://gentilinoratorio.wordpress.c...del-gentilino/


    PS. Grazie per il tuo contributo sul Lazzaretto... l'ho trovato molto interessante.

    Alla luce di quello che ci sta accadendo intorno, non è senza fatica che proseguo a scrivere in questo topic.
    Infatti, mi ero interrotta perché scrivere di queste cose mi procurava sofferenza. Ho persino evitato di aprire questo sito per diverso tempo ed infatti ho visto il tuo post solo adesso... ecco perché ti rispondo con tanto ritardo, @Doxa.

    Tuttavia, poiché le cose iniziate vanno portate a termine, proseguirò nel topic... al massimo, quando mi darà malessere, smetterò di scrivere per qualche giorno.

  5. #15
    Blue
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    La "peste manzoniana" del 1630 non si limitò, purtroppo, a decimare soltanto la popolazione lombarda.
    Da qui passò in Piemonte, dove si concentrò dapprima a Torino, per poi estendersi in tutta la regione ed espandersi anche in Svizzera. Ma fu il capoluogo ad essere colpito più pesantemente: su una popolazione di 25.000 abitanti (nel 1630), Torino ne perse quasi un terzo: circa 8000 persone. L'epidemia fu debellata solo verso la fine dell'anno 1630, con il favore del freddo.

    Dall'Italia settentrionale, la peste avanzò gradualmente anche verso sud, portata dalle truppe asburgiche (che erano già passate da Milano durante la guerra di successione di Mantova e del Monferrato), approdando nella laguna di Venezia fra la primavera e l'estate del 1630. Le vittime furono tantissime: 150.000 persone, circa il 40% della popolazione.
    Testimonianza della peste nell'entroterra è il drammatico quadro di Giambattista Tiepolo conservato nella chiesa di Santa Tecla a Este (PD), dove la santa è raffigurata fuori delle mura della città, mentre prega Dio tra cadaveri abbandonati e scene di disperazione...


    Giambattista Tiepolo, Santa Tecla libera Este dalla pestilenza, 1759

    La peste in Veneto fu debellata dopo oltre un anno, verso la fine del 1631; come voto dopo la terribile epidemia, il governo di Venezia fece erigere la basilica di Santa Maria della Salute, terminata nel 1632.

    Ma la battaglia era tutt'altro che vinta, perché dal Veneto la peste si spostò in Toscana, dove, anzi, era già approdata nel 1629. Cominciò in modo lento, ma nel 1630 scoppiò l'epidemia vera e propria. Di fronte al diffondersi del male, le autorità delle varie città colpite emisero una serie di provvedimenti restrittivi validi pressoché ovunque: "guardie di sanità" appostate nei punti di snodo viario e sui passi montani; proibizione di fiere e mercati; forte vigilanza alle porte della città; nomina di commissari con incarichi vari di igiene pubblica; istituzione di lazzaretti dove isolare i malati; sepoltura dei morti in fosse comuni, coperte poi di calce; bruciatura delle cose infette (vestiti, biancheria, suppellettili, mobili); nomina di appositi medici, chirurghi e becchini ai quali affidare la cura dei malati; periodi di quarantena e, persino, soppressione dei cani randagi per cercare di debellare l’epidemia. Le persone con i sintomi del morbo venivano trasportate nei lazzaretti, che sorsero numerosi nei pressi dei centri abitati; i familiari dei contagiati venivano chiusi nelle case e nutriti passando loro il cibo attraverso le finestre.

    Nonostante le precauzioni, il contagio continuò ad espandersi per tutto il 1631, raggiungendo la maggior parte dei centri abitati lungo l'Arno e le città di Pisa e Livorno, a dispetto dei divieti di circolazione terrestre di uomini, merci ed animali. E' certo, comunque, che i traffici fluviali sull'asse Livorno-Pisa-Firenze non furono interrotti in quel periodo (almeno, non fino alla primavera del 1631) per portare rifornimenti a Firenze e nelle altre città. E' quindi possibile che questi traffici abbiano contribuito in buona misura alla diffusione del morbo nelle varie località poste lungo il fiume. Anche il fatto che, progressivamente allontanandosi dall'Arno, la peste abbia pian piano perso la sua virulenza (Arezzo, Grosseto e Siena non furono colpite dall'epidemia) può indicare che i traffici per via d'acqua siano stati un veicolo di diffusione del contagio.

    Nel'autunno 1631 la fase acuta dell'emergenza in Toscana era terminata e lentamente si cominciò a riattivare la rete dei commerci per tornare alla normalità. Ma ci vollero ancora due anni prima che la peste fosse definitivamente debellata in Toscana, anche se non raggiunse mai più i livelli di virulenza del 1630-31.
    E' pressoché impossibile stimare il numero dei morti nella regione, data l'assenza di rilevazioni; si è ipotizzato che il tasso di mortalità non fosse omogeneo nelle varie province, anche a causa di diversi fattori (densità di popolazione, mobilità delle persone, vicinanza alle vie di comunicazione, etc.). Si è stimato, comunque, che le percentuali dei morti variarono dal 10 al 40 per cento a seconda delle zone e che i ceti più poveri registrarono un maggior numero di vittime.

  6. #16
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Buonasera Blue. Comprendo la tua partecipazione emotiva e la preoccupazione per questo virus dilagante. Io cerco di rimanerne psicologicamente distaccato per quanto possibile.

    Ti ringrazio per la tua informazione sull’ex zona del Gentilino. Area della città che frequento spesso quando sono a Milano. Come Freud ho le mie abitudini.

    Prima tappa. in piazza Duomo, per andare in Galleria da Savini per il rito del caffè. Poi, sempre a piedi, mi dirigo verso via Torino, la percorro tutta fino a Porta Ticinese, raggiungo piazza XXIV Maggio, la darsena e il naviglio, entro nel negozio del “Libraccio” e torno indietro.

    Una domanda: dalla darsena, se guardo verso il Naviglio Grande, il Lazzaretto dei Gentilini era sulla destra o sulla sinistra ?

    Se clicchi su questo link ci sono notizie sul lazzaretto che era fuori Porta Orientale, poi chiamata Porta Venezia.

    https://www.cittanuova.it/milano-mor...?ms=005&se=003

    Questo edificio è ciò che rimane del lazzaretto fuori Porta Orientale



    “Questa fortezza sanitaria era piuttosto confortevole e dignitosa. Le camere/celle (in totale 288) si trovavano lungo il perimetro. erano tutte “singole”, di forma quadrata (metri 4,75 di lato), dotate di comignolo per le esalazioni e di un piccolo “servizio”, un sedile in mattoni, che scaricava nel fossato. Porte e finestre erano sbarrate”.

    Coraggio Blue, non ti far prendere dalla sconforto. Rifugiati nelle ricerche storiche e le giornate sembra che passino più velocemente.

  7. #17
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura



    La colonna e la lapide che furono collocate nel 1630 a Milano all’angolo tra le attuali via Gian Giacomo Mora e Corso di Porta Ticinese in memoria del processo “all’untore” Gian Giacomo Mora.

    La colonna fu voluta dal governo milanese durante la dominazione spagnola come marchio d’infamia nei confronti dei due untori.

    “La casa del Mora si spiani, et in quel largo si drizzi una Colonna, la quale si chiami Infame et in essa si scrivi il successo, né ad alcuno sia permesso mai più riedificare detta casa”.

    Quella colonna fu demolita nel 1778 quando Milano apparteneva all’impero austriaco. L’amministrazione comunale cercò di far demolire la colonna, approfittando di una norma che vietava il restauro dei monumenti d'infamia.

    Nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1778 gli abitanti nelle vicine abitazioni sentirono più volte colpire la base della colonna, che cadde. "La palla che la sormontava rotolò giù pel vicolo dei Vetraschi". Alla fine di agosto i resti furono smantellati completamente.

    Dopo l'eliminazione della colonna infame, il terreno venne acquistato e fu costruita un'abitazione.

    La “Storia della colonna infame”, simbolo della superstizione e dell’iniquità del sistema giudiziario spagnolo, divenne famosa con l’omonimo saggio di Alessandro Manzoni.

    Da Wikipedia: “Milano, allora amministrata dagli spagnoli, fu duramente colpita nel 1630 da una terribile peste diffusa in gran parte del nord della penisola italiana, nota anche come peste manzoniana e che uccise quasi la metà della popolazione provocando la morte di circa 60.000 milanesi: in un clima che vedeva la popolazione allo stremo, aggravato dalla ampia diffusione di superstizioni popolari, una donna del quartiere denunciò Guglielmo Pozza accusandolo di essere un untore intento a diffondere il morbo mediante particolari unguenti procuratigli dal barbiere Gian Giacomo Mora e che egli avrebbe applicato alle porte di alcune case. Venne quindi imbastito un processo in cui i due malcapitati vennero accusati di essere untori: il procedimento, condizionato da un uso disinvolto della tortura secondo gli usi dell'epoca, terminò con la condanna a morte dei due che confessarono la propria inesistente colpevolezza pur di porre fine alle atroci sofferenze a loro causate dalle torture, peraltro contraddicendo più volte le loro stesse dichiarazioni.

    La sentenza, oltre ad una condanna a morte da eseguirsi dopo vari supplizi da infliggere sfilando per le contrade della città, prevedeva l'abbattimento della casa-bottega di Gian Giacomo Mora; lo spazio vuoto venne occupato dalla colonna infame a memoria perpetua delle punizioni che sarebbero toccate a chi si fosse macchiato della colpa di essere un untore e come marchio di infamia indelebile per lo sventurato Mora.

    Nella prima metà del XVIII secolo l'avversione verso i presunti untori era ancora viva e diffusa tra la popolazione.

    Nel 1674 Carlo Torre nel suo “Ritratto di Milano” scrisse: “Ditemi che state voi osservando in quel lato sinistro, dove apresi ristretta aia, entro cui sorge colonna, e nel cui seno leggesi COLONNA INFAME? S'ella è cagione dei vostri fissi sguardi, dirovvi, essere stata tal colonna eretta nell'anno fatale 1630, allor quando in Milano fiero morbo di pestilenza, fece inenarrabile strazio de' cittadini, venendo accresciuta la di lui rabbia con avvelenate unzioni, anzi ammaliate, da perfidi animi somministrate, che pagarono alfine il fio de' loro tradimenti con gastighi atroci. [...] Vennevi mai all'orecchio più enorme scelleratezza? Fu ragione cancellare dal libro dei viventi chi desiderava estinti gli stessi viventi: spiantare le mura dell'abitazione di colui, che voleva dispopolata di cittadini la sua natia città e con unzioni rendeva più sdruccioloso il sentiere della morte”.

    L’abate e storico milanese Serviliano Latuada(1704 – 1764) nel 1738 scrisse: «Sopra la vasta strada, che guida verso il centro della Città, si ritrova a mano manca una Colonna piantata sopra picciola Piazza, che conduce entro un'altra Contrada, detta de' Cittadini [...]. Chiamasi Colonna Infame, sendo stata innalzata ad eterna memoria dell' empia scelleraggine commessa dal barbiere Giangiacopo Mora, che appunto in questo luogo abitava, la di cui Casa diroccata servì di piedistallo all'erezione di questa Colonna. Nell'anno 1630 faceva gran strage in questa Città la pestilenza, ed il mentovato Mora collegato Con Guglielmo Piazza e molt'altri accresceva con unguenti avvelenati a' nostri Cittadini il terrore. Preso pertanto, e condannato ad atrocissima morte, insieme degli altri Complici, gli fu ancora eretto quello perenne testimònio delle di lui scelleraggini»

    Della colonna non sono giunte descrizioni dettagliate, ma nelle stampe è raffigurata con una palla posta sulla sommità.
    La lapide che descrive gli avvenimenti e le pene inflitte ai colpevoli era originariamente posta su un muro a fianco della colonna ed è oggi conservata nei musei del castello sforzesco.


    = «Qui dov'è questa piazza sorgeva un tempo la barbieria di Gian Giacomo Mora il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri mentre la peste infieriva più atroce sparsi qua e là mortiferi unguenti molti trasse a cruda morte.

    Questi due adunque giudicati nemici della patria il senato comandò che sovra alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e tronca la mano destra si frangessero colla ruota e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati poscia abbruciati e perché nulla resti d'uomini così scellerati confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume.

    A memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto il Senato medesimo ordinò spianare e giammai rialzarsi in futuro ed erigere una colonna che si appelli infame.

    Lungi adunque lungi da qui buoni cittadini che voi l'infelice infame suolo non contamini.

    Il primo d'agosto MDCXXX.
    (Il presidente della Pubblica Sanità, Marco Antonio Monti senatore)
    (Il presidente dell'ecc. Senato, Giovanni Battista Trotti)
    (Il R. Capitano della Giustizia, Giovanni Battista Visconti)”

    Oggi all'angolo tra via Gian Giacomo Mora e corso di Porta Ticinese c’è una palazzina; nel 2005 in una rientranza vennero poste una scultura in bronzo e una targa a ricordo degli eventi:

    “QUI SORGEVA UN TEMPO LA CASA DI GIANGIACOMO MORA
    INGIUSTAMENTE TORTURATO E CONDANNATO A MORTE
    COME UNTORE DURANTE LA PESTILENZA DEL 1630.
    "... È UN SOLLIEVO PENSARE CHE SE NON SEPPERO QUELLO CHE FACEVANO,
    FU PER NON VOLERLO SAPERE, FU PER QUELL'IGNORANZA CHE L'UOMO
    ASSUME E PERDE A SUO PIACERE, E NON È UNA SCUSA MA UNA COLPA".
    (Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”).

  8. #18
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura



    Antica stampa: la chiesa di San Lorenzo alle colonne. Sul fondo l’arco di Porta Ticinese: In primo piano, sulla destra, la “colonna infame” con sopra la sfera.

  9. #19
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura



    altra antica stampa. In primo piano sulla destra la colonna infame. L'epigrafe marmorea è collocata sulla parete esterna della casa.

  10. #20
    Blue
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    Predefinito re: Epidemie fra storia e letteratura

    Citazione Originariamente Scritto da Doxa Visualizza Messaggio
    Buonasera Blue. Comprendo la tua partecipazione emotiva e la preoccupazione per questo virus dilagante. Io cerco di rimanerne psicologicamente distaccato per quanto possibile.

    Ti ringrazio per la tua informazione sull’ex zona del Gentilino. Area della città che frequento spesso quando sono a Milano. Come Freud ho le mie abitudini.

    Prima tappa. in piazza Duomo, per andare in Galleria da Savini per il rito del caffè. Poi, sempre a piedi, mi dirigo verso via Torino, la percorro tutta fino a Porta Ticinese, raggiungo piazza XXIV Maggio, la darsena e il naviglio, entro nel negozio del “Libraccio” e torno indietro.

    Una domanda: dalla darsena, se guardo verso il Naviglio Grande, il Lazzaretto dei Gentilini era sulla destra o sulla sinistra ?
    Grazie per l'incoraggiamento, cercherò di fare del mio meglio...

    Andare a piedi da Savini fino al Libraccio sui Navigli sono alcuni chilometri... ti piace camminare?
    Se vuoi un buon caffè, ti sconsiglio Savini (caro e molto turistico). Prova invece il bar Taveggia oppure Cucchi, il mio preferito; entrambi sono anche famose pasticcerie di antica tradizione (esistono, rispettivamente, dal 1909 e dal 1936) e fanno dolci deliziosi da gustare in loco o da asporto.

    Per quanto riguarda l'ex lazzaretto del Gentilino, se vai al Libraccio sei arrivato: si trova a circa 50 metri dalla libreria!
    Il Libraccio fa angolo con via Corsico ed è proprio qui (sul lato opposto della via) che si trova l'ex lazzaretto del Gentilino. Ora è un oratorio, credo della vicina chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio. Ma penso rimarrai deluso, perché dell'antico lazzaretto non è rimasto nulla: vedrai solo un edificio moderno, anonimo, delimitato da una cancellata.

 

 
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