Dover rifiutare un lavoro perché non ha “orari normali” e non ci sono mezzi per tornare a casa. Aver paura di raggiungere il parcheggio perché si trova in un luogo isolato. Non riuscire a raggiungere facilmente l’ospedale, la scuola o qualsiasi altro servizio pubblico. Madri single con difficoltà a trovare una casa a prezzi accessibili.

Questi e molti altri sono gli ostacoli in cui inciampa chi si muove in città, luogo-simbolo della disuguaglianza economica. Le donne sono fra i principali soggetti costretti a barcamenarsi fra la mancanza di sicurezza e la difficoltà per svolgere quei lavori di cura che continuano ancora a pesare sulle loro spalle. A far tremare le mura di questa immobile «casa delle bambole», dove le donne sono soggetti passivi, è l’urbanistica femminista che mette in evidenza le incoerenze della città e la relativa femminilizzazione della povertà.

In una realtà in cui le donne hanno più probabilità di essere disoccupate, di avere lavori part-time o mal pagati e di sbattere la testa al tetto di cristallo che impedisce di fare carriera, la città diventa un ulteriore intralcio. Tuttavia, da Vienna a Stoccolma, passando per Barcellona, sono le stesse donne a cercare soluzioni alternative per rendere le città a misura di persone in carne e ossa non di utenti.

QUALE È PROSPETTIVA DELL’URBANISTICA FEMMINISTA
Negli ultimi anni, tante professioniste hanno cercato di analizzare i problemi della città per trovare soluzioni personalizzate. Fra queste si trova Adriana Ciocoletto, architetta e urbanista argentina residente a Barcellona, componente del Col·lectiu Punt 6, una cooperativa di architette, sociologhe e urbaniste con sede nella città catalana. Per lei quanso si parla di urbanistica femminista (o urbanistica con prospettiva di genere) «significa un cambio di paradigma degli spazi. Vuol dire mettere la vita delle persone al centro, dando importanza ai lavori di cura e costruendo città, paesi e quartieri senza violenza contro le donne. L’urbanistica femminista offre un punto di vista critico da cui partire per migliorare la situazione».

Un lavoro corale a cui si aggiunge il contributo indispensabile di Teresa Boccia, docente di Urbanistica e membro Aggi di Un-Habitat: «Le città moderne rispondono alle logiche della produzione. Tutto ciò che non è produttivo, come il lavoro di cura, non ha valore. Per questo si sono sviluppate per zone: il posto in cui si lavora, quello in cui si produce, quello dedicato all’ozio. Per le donne che fanno un doppio lavoro ciò vuol dire anche una doppia distanza». L’urbanistica femminista non vuole mantenere intatti i ruoli di genere ma vuole partire dall’esperienza delle donne per trasformare la città in un luogo di «corresponsabilità» fra donne e uomini.

QUAL È LO SKYLINE DELLA CITTÀ A MISURA DI DONNA
Le città occidentali si muovono in sincrono. La città non ha un’anima neutra ma patriarcale: «La neutralità non è mai neutrale ma è sempre maschile. Lo spazio rappresenta chi ha avuto sempre la possibilità di avere voce in capitolo», ricorda Boccia. Il tempo è quello della produttività e del consumo. Senza pensare agli orari della donna delle pulizie che lavora mentre gli uffici sono chiusi. O alle necessità dell’anziano che ha bisogno di sedersi spesso quando passeggia. O della ragazza che ha paura di camminare sola di notte. «La mobilità degli uomini è stata sempre lineare, casa-lavoro. Quella delle donne è stata sempre “zigzagante”.

A causa della divisione sessuale del lavoro, le donne si dedicano anche al lavoro di cura: sono produttive e riproduttive. Questa situazione non è mai rientrata nella logica della progettazione. Se si pensa ai bisogni delle persone, invece, tante storture vengono a galla», spiega Boccia. Quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere una città femminista? Non esiste un decalogo ma ogni soluzione dovrebbe adattarsi ai luoghi e, soprattutto, alla gente che li abitano, prendendo in considerazione fattori solitamente messi in secondo piano come l’età o la disabilità.

La città deve trasformarsi anche in un luogo di relazioni e di libertà di movimento, dove è possibile prendersi cura gli uni degli altri. Secondo Ciocoletto «L’urbanistica femminista può contribuire al miglioramento di diversi ambiti della vita quotidiana: una città mista, diversa, dove possiamo disporre di servizi vicini a casa nostra, dove non ci siano spazi lontani e inaccessibili».

ALLA RICERCA DEGLI SPAZI PUBBLICI E DELLA SICUREZZA
Guardando i quartieri periferici ci si chiede dove siano finiti gli spazi pubblici in cui ritrovarsi. Eppure sono tante le soluzioni alla mancanza di luoghi di relazione, fra cui, come spiega Ciocoletto, «le panchine vicino ai parchi gioco, bagni pubblici, luoghi che aiutino a socializzare come le piazze, spazi pubblici non sessisti, senza barriere e in buone condizioni ambientali. Nella progettazione degli edifici, ad esempio, gli ingressi possono essere pensati in modo tale da permettere alle persone di riunirsi o di svolgere altre attività». Questi spazi pubblici, però, devono essere pensati in base alla gente che li usa. «Se ci troviamo in un quartiere con un’alta percentuale di anziani», continua, «saranno necessari luoghi in cui trascorrere le giornate e dove eseguire attività pensate per loro».

Anche gli orari e la mobilità devono adattarsi alla vita quotidiana. Le città, invece, hanno spesso «zone d’ombra» in cui non è possibile sposarsi a piedi in sicurezza e, in alcuni casi, nemmeno con i mezzi pubblici. La mobilità, infatti, solitamente si basa sugli spostamenti dei lavoratori e non su altre esigenze. Non sempre, per esempio, è facile raggiungere un ospedale. Tutti questi problemi portano anche alla mancanza di sicurezza, problema che colpisce soprattutto le donne. Strade mal illuminate, fermate dei mezzi pubblici lontane, luoghi abbandonati, sono tutti vuoti che vanno affrontati per creare una città più umana e alla portata di tutti.

PERIFERIE E PAESI PICCOLI, SPESSO LUOGHI ISOLATI
Quando si pensa alle difficoltà cittadine, si pensa spesso alle periferie, quelle che vengono denominate «città dormitorio». «Un modello che poco ha capito della vita quotidiana», conferma Ciocoletto: «Si fanno affari con lo spazio urbano: si divide in parcelle, si costruiscono case…ed ecco fatto!». Tuttavia, anche se possono sembrare, a livello teorico, quartieri dormitorio, Ciocoletto spiega che «nella pratica non sono solo questo. Quest’idea rende invisibile la loro attività quotidiana anche se i servizi sono inesistenti: piccoli negozi, attività economiche, lavori di cura. In qualsiasi parte del mondo, dal Sud America all’Europa, molta gente si arrangia in questi quartieri inizialmente senza vita».

Se questi luoghi possono essere un monito per il futuro come si migliorano quelli già esistenti? «In Catalogna stiamo lavorando in alcuni municipi per trasformare alcuni quartieri residenziali isolati. Ciò vuol dire selezionare una serie di spazi dove generare la quotidianità: uno spazio pubblico, una fermata d’autobus o un negozio che fornisca servizi o, perlomeno, uno spazio ben collegato per poter usufruire agilmente dei servizi».

Facendo un passo lungo qualche chilometro, questa volta arrivando ai paesi, le necessità della vita quotidiana sono simili a quelle di altre realtà, anche se le soluzioni possono essere diverse. Se il numero della popolazione diminuisce a causa della mancanza di lavoro, per esempio, i negozi e altri servizi devono chiudere i battenti. Secondo Ciocoletto, una delle chiavi di volta, proprio come avviene nelle periferie, è la mobilità. Nei paesi, però, oltre all’iniziativa pubblica è necessaria anche la partecipazione attiva degli stessi abitanti, ad esempio attraverso la condivisione dei mezzi di trasporto o dei lavori di cura. La risposta è più corresponsabilità e meno individualismo.

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