di Cosimo Ceccuti – In «Nuova Antologia», fasc. 2140, ottobre-dicembre 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 296-303.


«Una biografia di Mussolini non può che essere – a nostro avviso – ‘politica’. Dove, ben s’intende, per ‘politica’ non intendiamo ‘mussoliniana’ o ‘antimussoliniana’, ‘fascista’ o ‘antifascista’, che sarebbe un assurdo in sede storica… ma legata ad una valutazione della realtà italiana e delle forze sociali che hanno agito ed agiscono in essa». Con queste parole, limpide ed efficaci, Renzo De Felice presentava il primo volume della monumentale biografia einaudiana di Mussolini, nel 1965: Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920.
L’opera si è arricchita in queste settimane di un ulteriore volume, il secondo tomo de Il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940 (Einaudi, pp. 950, L. 35.000), penultimo dell’intera serie. Serie che si è sviluppata attraverso Il rivoluzionario, Il fascista, Il duce e che si concluderà con L’alleato, con gli anni del conflitto mondiale, fra 1940 e 1945.
Una scelta di titoli già di per sé eloquente, rivelatrice per chi è attento all’uso delle parole – osservava Delio Cantimori nella prefazione a quel primo volume del ’65 – della «tendenza ad una determinata terminologia politico-sociologica e psicosociologica, che si è tentati di definire mediante accostamenti a tendenze di riflessione filosofica e politica che si riconnettono in qualche modo al gruppo di Felice Balbo».
Nelle parole, nel programma di De Felice c’era intero il sapore della originalità rispetto ai precedenti tentativi di ricostruzione della vita politica del capo del fascismo: intanto, il rifiuto di ogni «partito preventivamente preso», di ogni schieramento a priori pro o contro Mussolini, e un analogo rifiuto per le impostazioni «emersoniane», incentrate sull’«eroe», oppure quelle «psicologiche», tese a ridurre l’azione politica di Mussolini «a una serie di risultanze, più o meno occasionali e opportunistiche, determinate da una psicologia elementare da una cultura rozza e superficiale».
Impostazioni, queste ultime, cui erano riconducibili le precedenti biografie, quando non affogate dalla apologia o dalla polemica.
Secondo aspetto originale, la radicata convinzione – determinante nella impostazione e sviluppo della ricerca – che il fascismo non si identifica né si esaurisce in Mussolini, ma va al di là della figura e dell’opera del duce. Su questo punto De Felice è perentorio: «Del fascismo Mussolini fa indubbiamente una componente importantissima; esaurire il fascismo in Mussolini sarebbe però assurdo, sarebbe una schematizzazione che falserebbe tutte le prospettive – annota l’autore già nella introduzione al primo volume -. Il fascismo, - cioè i fascismi, ché, nonostante la sua apparente monolicità e il suo spirito totalitario, il fascismo fu una serie di stratificazioni e nel suo seno, come Gramsci aveva chiaramente intuito, i conflitti di fondo della società italiana, che non potevano più manifestarsi per altre vie, tesero sempre a risorgere – il fascismo, dicevamo, fu molto più che il suo ‘duce’, il quale anzi ne fu molto spesso determinato e costretto in posizioni che forse non sarebbero state le sue». Per conoscere il fascismo non basta conoscere Mussolini, che non va mai isolato dalla realtà in cui opera nel ventennio.
Ecco dunque De Felice ricostruire criticamente una storia complessa, impervia e di difficile penetrazione, seguendone tutti gli aspetti significanti e le implicazioni. Nel rifiuto, tenace, di ogni interpretazione di comodo, che tenda a isolare il fascismo come parentesi, come «malattia morale», come un fenomeno estraneo alla natura stessa della società italiana. Non a caso De Felice chiudeva l’introduzione generale all’opera, nel volume d’apertura, con le parole di Casucci, facendole proprie: «Fu l’Italia, furono gli italiani che divennero ad un certo momento fascisti senza cessare mai di essere italiani, per poi diventare o tornare a diventare democratici: compito della storiografia è l’analisi di questo processo in tutta la sua incertezza, senza hiatus, senza ‘parentesi’, non separando mai le componenti di esso, ma distinguendola e riportandole costantemente all’unità della storia».
Un compito, che come storico, storico autentico, formatosi alla scuola di grandi maestri quali Delio Cantimori e Federico Chabod, Renzo De Felice svolge con assoluto rigore, nel deciso e coraggioso «no» a ogni dogmatismo, di qualunque colore, attraverso un’acquisizione e una revisione continua, suggerite e quasi imposte alla sua tensione morale, dalla conquista e dalla conoscenza di nuovi, emblematici documenti.
Il documento: ecco la grande forza del metodo storiografico di De Felice. Testimonianze, carteggi, diari di protagonisti o contemporanei, archivi pubblici e privati: in venti anni di appassionato lavoro di ricerca, il professore dell’ateneo romano è riuscito a concentrare nelle sue mani (o almeno consultare) un materiale prezioso e inedito sul periodo come nessun altro storico è riuscito a fare prima di lui. Si pensi, per fare un solo esempio relativo al più recente volume (Il duce, II), al diario di Giuseppe Bottai, visto dall’autore in originale e in stesura integrale, e alle «memorie» di Dino Grandi.
«Interpretare il fascismo vuol dire farne la storia. Facciamone prima la storia, dopo potremo tentare le interpretazioni». Sono parole dello stesso De Felice, apparse nella esplosiva Intervista sul fascismo di Laterza del 1975. «Certo – proseguiva in quelle pagine lo storico reatino, a colloquio con Michael Leeden – ognuno di noi si muove in una linea interpretativa; almeno per quanto riguarda me, e soprattutto gli altri, in particolare quelli che si collocano, nel campo degli studi sul fascismo, sul versante opposto al mio. La differenza sta nel fatto che questa linea interpretativa coloro che sono convinti che sia quella giusta, la scodellano in piazza e vogliono che sia accettata come indubbia. Io, la mia, mi limito a presentarla come un’acquisizione continua».
La conquista della verità, o meglio, il tendere verso la verità, è per De Felice una conquista lenta, laboriosa, graduale. Con il traguardo, o la tappa, raggiunta ieri, rimessa in discussione, magari, dal documento, dal frammento di documento rinvenuto oggi, che stimola a ripensamenti o apre nuove prospettive alla speculazione storiografica.
È con questo metodo – ineccepibile a giudizio di chi scrive questa nota, il solo valido in quanto fondato non sull’esigenza di dimostrare ad ogni costo verità precostituite ma su documenti autentici – che De Felice affronta la biografia di Mussolini e, in senso più ampio, la storia del fascismo: la stessa biografia, infatti, non può essere isolata dal complesso dei suoi studi sul ventennio, quali Le interpretazioni del fascismo (1969), Il fascismo. Le interpretazioni dei contemporanei e degli storici (1970), editi, come la già citata Intervista sul fascismo, da Laterza.
A questi volumi va aggiunta la Autobiografia del fascismo della Minerva italica e gli studi dedicati a problemi specifici, come la Storia degli ebrei sotto il fascismo (Einaudi, 1961), Mussolini e Hitler 1922-1933, compreso nella collana «Quaderni di storia» diretti da Giovanni Spadolini per l’editore Le Monnier (1975), o i carteggi emblematici e rivelatori fra Mussolini e De Ambris, fra D’Annunzio e Mussolini.
Col conforto del documento, De Felice non si astiene dalla formulazione di ipotesi interpretative, talora «sconvolgenti», tali da sollevare immediate e perfino esasperate polemiche: si pensi al dibattito condotto in toni aspri ed eccessivi che seguì l’uscita della Intervista, «condensato di una ricerca analitica, approfondita, capillare – la definiva Spadolini nell’Italia della ragione, stigmatizzando i toni della polemica (cfr. «De Felice e la polemica sul fascismo», op. cit., pp. 399-406) – quale quella condotta in tanti anni dallo storico dell’Università di Roma sul personaggio Mussolini: con un rigore eccezionale, con una capacità, rara nel nostro paese di interpretare il documento, di collocarlo al punto giusto».
Ricostruzione, interpretazione, ipotesi. De Felice non rifugge neppure da queste, ma lo fa preavvertendo correttamente il lettore, denunciando con chiarezza i limiti di certe deduzioni. Ne abbiamo un esempio eloquente proprio nel volume della biografia adesso in libreria, allorché l’autore si pone un preciso quesito, in merito all’azione diplomatica della Francia per evitare l’entrata in guerra dell’Italia mussoliniana: nel maggio 1940 le intenzioni del governo di Parigi erano solo quelle di evitare l’intervento militare italiano oppure andavano oltre, mirando a una mediazione «politica» di Mussolini, a una sua proposta di conferenza per negoziare la pace? E il duce come si sarebbe comportato di fronte alla richiesta? È evidente che De Felice ha in mano elementi sufficienti per legittimare il quesito, tali da consentirgli di «azzardare» una risposta probabile; ma vediamo con quali termini lo storico esce dalla «narrazione documentata» per passare al terreno delle ipotesi: «… Questo ci pare si possa dire ragionando sui fatti, sui documenti, sulla ricostruzione dello stato d’animo di Mussolini che siamo venuti via via facendo. Se si abbandona questo terreno solido e ci si avventura su quello molto più incerto delle ipotesi, ci si può porre però una domanda, priva di valore storico, ma di non trascurabile significato ai fini della comprensione della posizione di Mussolini…» (op. cit., p. 833).
Lo Stato totalitario. 1936-1940. C’è una significativa variante di natura temporale nell’arco cronologico coperto dal volume, come spiega l’autore nella scarna ed essenziale «Nota» di apertura. Nel piano originario dell’opera Il duce doveva concludersi con il 22 maggio 1939, la data della firma del «patto d’acciaio». Proprio il progredire delle ricerche hanno maturato in De Felice la convinzione che la firma del patto d’acciaio «ha significato per Mussolini e soprattutto per l’effettivo dispiegarsi della sua politica meno di quanto spesso si crede e noi stessi, appunto, inizialmente credevamo». Ferma restando la difficoltà di fissare in modo rigido uno «spartiacque», l’autore giudica, «in base alle nostre ricerche», la data del 10 giugno 1940 (entrata in guerra dell’Italia) «assai più significativa» di quella relativa al patto d’acciaio.
Alla politica estera è riservata la seconda parte del volume: dalla guerra di Spagna all’«asse», dal patto d’acciaio al conflitto mondiale. Le linee di fondo di questa politica, come ha sintetizzato De Felice nel corso di una recente intervista, sono ravvisabili nella ricerca di un equilibrio complesso fra le potenze, di «un Asse Roma-Berlino che convivesse con un Asse Roma-Londra in cui Roma teneva a freno Berlino, Londra teneva a freno Parigi, il tutto in una prospettiva revisionistica di cui, per quel che riguarda l’Italia, avrebbe fatto le spese soprattutto la Francia». Così almeno nella prima fase. Successivamente – è sempre il pensiero dell’autore – l’obiettivo da conseguire è il libero accesso dell’Italia, potenza mediterranea, all’oceano, vale a dire lo «smantellamento» di Gibilterra e di Suez come porte che chiudevano il mare nostrum.
Quanto alla Germania, si trattava di tutelare dal suo «inevitabile» espansionismo le zone d’influenza italiana danubiano-carpatiche. Berlino doveva fungere da deterrente per spingere Londra all’intesa con Roma, un’intesa che non poteva non consentire vantaggi dell’Italia a danno della Francia.
Un complicato intreccio, un giuoco di equilibri, nel quale gli errori di previsioni e di calcolo di Mussolini furono notevoli, ed emergono in tutta la loro portata dalle pagine del libro. In Spagna, per esempio, né Mussolini né Ciano seppero cogliere – ormai fallita l’impresa – il momento favorevole (cioè la «mano tesa» di Chamberlain nell’agosto 1938) per uscire da quelle che De Felice chiama giustamente le «sabbie mobili spagnole». Togliendo così alla politica fascista – conseguenza ben più grave del pur elevato costo di uomini e mezzi, su cui sempre si è insistito - «buona parte di quella agilità e spregiudicatezza di movimenti e autonomia» che altro non erano se non la riedizione-continuazione della logica cara a Mussolini del «peso determinante». Logica che riceveva allora il primo, grave colpo, proprio per la incapacità di Mussolini di trarsi fuori dalle «sabbie mobili spagnole», sia pure in extremis e senza gloria.

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