Un’epoca è finita. Ripensiamola. Perché se i miti della sinistra sono morti, la democrazia invece vive e deve ulteriormente vivere: come obiettivo, come norma, come tipologia della vita sociale. Come fantasia e come sperimentazione. Tutto è aperto perché nell’occhio del tifone che si addensa sulle libertà, le libertà crescano e maturino. Perché nel vivo di una crisi che minaccia di «sciogliere» lo Stato-Italia, quest’Italia si trovi e si definisca. Perché allo zenit dov’è attualmente ubicata la massima distanza tra le generazioni, le generazioni si riavvicinino e si confrontino. Perché da un collettivo «suicidio» dei valori, quale si è realizzato in questi ultimi anni, venga fuori una ricerca originale di etiche al passo col mondo moderno. Perché la politica, scendendo dalle colonne corinzie dove sta morendo assiderata, ritorni agli uomini che si associano e si danno delle leggi.
di Giampiero Mughini - «Mondoperaio», marzo 1979, pp. 103-109.
Compagni, e se la smettessimo di parlare dei rapporti di produzione? Perché, riconosciamolo lealmente, non è più pioggia, è diluvio. È diluvio sulle cattedrali di cemento erette sulla via percorsa, spesso per scorciatoie fantasmatiche, dalla sinistra. È diluvio sugli archetipi concettuali di cui abbiamo nutrito i nostri discorsi, le nostre speranze, i nostri progetti, il nostro modo di stare al mondo. È diluvio sulle mappe geopolitiche o sociopolitiche su cui commisuravamo la nostra rotta. A valanga si succedono i libri che non parlano più il linguaggio che fece santi i nostri avi[1]. Muoiono a migliaia i fanti del paese, la Cina, che Franco Fortini definì l’unico al mondo in cui non ci si vergognasse di essere uomini: muoiono combattendo contro i contadini dello «zio Ho», miraggio psicodrammatico di una generazione.
Muta, sta mutando nel concreto della dimensione e della pratica quotidiana degli uomini, il gusto e i modi vissuti della politica, tali da svolgersi sempre più addentro alla società civile, e invece sempre meno recepiti e adeguatamente interpretati da una società politica ormai quasi costantemente sotto accusa. I giovani, tra disperazione e impotenza, chiedono alla politica dei vertici statuali e partitici cose che essa non può dare, ma che non ha l’autorità morale per definire velleitarie o utopiche a paragone di altre, quelle sì realizzabili e realizzande, per forza e normalità di vita democratica. I nostri privati discorsi, da mesi ormai, mirano altre latitudini: ed è chiamato «riflusso», da schizofrenici o da bari, la ripresa del lavoro su se stessi, la decifrazione del tangibile quotidiano, le domande sulla vita e sulla morte. Ha chiesto un quindicenne, lettore di «Lotta continua»: perché non fare un’«assemblea nazionale» sul «cosa si è provato la prima volta che si è fatto l’amore».
La fine di un’epoca
Abbiamo abbondonato il «latinorum» delle grandi ascensioni ideologiche per toccare più da vicino i nostri segni e ferite di uomini segnati dal contraddittorio svolgimento di una società industriale a registri complessi. Avevamo recitato litanie sulla lotta di classe, «Agnelli e Pirelli ladri gemelli», e stiamo assistendo alla ridda sfrenata delle corporazioni, stiamo vivendo una lunga ondata inflattiva che ha spianato i redditi della «seconda società», allargando la forbice tra occupati e disoccupati. All’Alfa Sud la classe operaia ha tralasciato di raccogliere l’eredità della filosofia classica tedesca, di imporre l’esito ultimo e coeso alla società in sviluppo, e ha chiesto invece più cottimo, più soldi per più consumi.
Né la canzone cambia nel resto del pianeta. In Francia la sinistra pesta il mattone, con un PS straziato e immobilizzato dalla sua tentata alleanza con un PCF irreversibilmente staliniano e miserabilista[2]. In Iran è la religione – ma non doveva fungere da «oppio dei popoli»? – a lanciare gli uomini contro i tanks, non i quadri bolscevichi in giaccone di cuoio di un bellissimo romanzo di Pilniak. In Spagna, dopo trent’anni di dittatura sopravvenuta a una guerra civile prolungata e cruenta da entrambe le parti, si svolge un’«aspra campagna d’inverno della democrazia parlamentare», la gente va a votare e sceglie per chi, comunisti compresi. In Russia, primo paese «socialista» del mondo, il comunista Roy Medvedev non riesce a farsi candidare in una lista elettorale. Dubito che più di un manuale di storia e di sociologia politica non ne vengano lievemente stravolti.
Inutile continuare, per essere un diluvio credo basti. È finita un’epoca. Non c’è che prenderne atto. A differenza di Ruggero Guarini[3], noi non crediamo che le condizioni per «uscire dalla storia» siano agevoli e immediate, quasi soltanto una scelta della volontà e del criterio intellettuale. Ma è la storia stessa, per quel che di nuovo ha configurato e fondato nella società che stiamo vivendo, a imporci di uscire dalla storia precedente della sinistra, che non vuol dire cassarla con un arrogante colpo di penna, dimenticare i nostri morti, Giorgio Labò e Giacomo Matteotti, quelli di Guadalajara e quelli di Modena (1950).
La teoria, una sua originale ricostruzione, torna al primo posto, ben oltre le dispute scolastiche su quel che c’è di vivo o di morto nel «marxismo» o addirittura nel leninismo. Dov’è inaudito che qualche dirigente comunista sostenga essere illecito mettere Lenin ai voti, come se non ci fosse nulla da dire a proposito della miniera di Kolyma e di quei dieci milioni di assassinati, contraffatti – e per decenni – come il modello della società «migliore», come la garanzia che all’uomo fosse data salvezza in questa terra. Dov’è inaudito sostenere che si tratterebbe semplicemente di «aggiornare» Marx o Lenin, sommando magari, di quest’ultimo, quel che gli appartiene specificamente con quel che appartiene specificamente ai suoi contraddittori[4], ai «rinnegati» che osarono negare l’universale necessità della Rivoluzione d’Ottobre.
Un’epoca è finita. Ripensiamola. Perché se i miti della sinistra sono morti, la democrazia invece vive e deve ulteriormente vivere: come obiettivo, come norma, come tipologia della vita sociale. Come fantasia e come sperimentazione. Tutto è aperto perché nell’occhio del tifone che si addensa sulle libertà, le libertà crescano e maturino. Perché nel vivo di una crisi che minaccia di «sciogliere» lo Stato-Italia, quest’Italia si trovi e si definisca. Perché allo zenit dov’è attualmente ubicata la massima distanza tra le generazioni, le generazioni si avvicinino e si confrontino. Perché da un collettivo «suicidio»[5] dei valori, quale si è realizzato in questi ultimi anni, schizzi fuori una ricerca originale di etiche al passo col mondo moderno. Perché la politica, scendendo dalle colonne corinzie dove sta morendo assiderata, ritorni agli uomini che si associano e si danno delle leggi[6].
(...)
[1] Qualche citazione tra le tante. Il Saggio sui potenti di Piero Melograni (Laterza, 1977) che rovesciava, nei modi eleganti del pamphlet, il criterio secondo cui è la «politica» a comandare la «società». L’Autobiografia de Federico Sanchez di Jorge Semprun (1977), filippica veemente (e distacco psicologico) contro tutto ciò che fu proprio e caratteristico della storia del PCE. Il profeta muto di Joseph Roth, straordinaria antiveggenza (1927) di come la rivoluzione bolscevica avrebbe divorato i suoi figli. Riga su riga di quanto Lucio Colletti sta scrivendo da alcuni anni a questa parte. Fascismo controrivoluzione imperfetta di Domenico Settembrini, coraggioso tentativo di reinterpretazione delle origini del fascismo e di individuazione delle sue parentele con le correnti di sinistra del socialismo, bolscevismo innanzitutto. Singolare quanto ha scritto di recente Sergio Bertelli, a proposito dell’uscita di Cantimori dal PCI: «Fu proprio Cantimori a consigliare tutti noi ad uscire silenziosamente dal Partito, senza più rinnovare la tessera; tuttavia, ad anni di distanza dall’esperienza ungherese, egli amava dire che avrebbe sempre consigliato ai suoi studenti l’iscrizione al partito, perché il comunismo era come il morbillo: andava preso da giovani» (Due recensioni a Banfi e a Berti non ammesse in ‘Società’, «Belfagor» n. 1, gennaio 1979).
[2] Quest’estate, durante un breve soggiorno a Parigi, leggendo alcuni manifesti murali del PCF ho avuto l’impressione di essere nell’Italia dei primi anni ’50: vi si denunciava il capitalismo rapinatore, che chiude fabbriche e crea disoccupati perché questa è la sua irresistibile inclinazione. Vedi quanto scrive Jean-François Revel (L’honneur et l’argent, «L’Express», n. 1437, 1979) a proposito di una sortita di Georges Marchais che aveva accusato la «quasi totalità» della stampa francese di essere al soldo del governo.
[3] Se hai qualche problema te lo risolve l’intellettuale collettivo, intervista a Ruggero Guarini di Alberto Santacroce, «Avanti!» del 18 febbraio 1979.
[4] Rosa Luxemburg, Piero Gobetti, Max Weber, Filippo Turati, Otto Bauer, Gaetano Salvemini, ecc., ecc.
[5] Un termine che importiamo largamente da Augusto Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, 1978.
[6] Qui non è fuor di luogo una pagina del capolavoro di Tocqueville, a proposito dei legislatori della Confederazione degli Stati americani: «Erano stati allevati tutti nel mezzo di una crisi sociale, durante la quale lo spirito di libertà aveva dovuto continuamente lottare contro un’autorità forte e dominatrice. Una volta la lotta terminata, mentre, come d’abitudine, le eccitate passioni della folla si davano ancora a combattere pericolo che da lungo tempo non esistevano più, loro si erano fermati: avevano uno sguardo più tranquillo e più penetrante sulla loro patria; avevano visto che una rivoluzione definitiva si era compiuta, e che d’ora innanzi i pericoli che minacciavano il popolo non potevano nascere che dagli abusi della libertà. Quel che pensavano, ebbero il coraggio di dirlo, perché sentivano in fondo al cuore un amore sincero e ardente per questa stessa libertà; osarono parlare di restringerla, perché erano sicuri di non voler distruggerla» (Alexis de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, Librairie de Médicis, Paris, 1951, tome premier).