di Renzo De Felice – In «Avanti!», numero speciale per il 70° anniversario del giornale (senza data, ma 31 dicembre 1966).


Velleitarismo e confusione ideologica alla base dell’equivoco per cui il futuro “duce” apparve rivoluzionario


Verso il 1912, mentre maturava lentamente la crisi internazionale che avrebbe portato allo scoppio della guerra mondiale e l’Italia era impegnata nella conquista della Libia, il riformismo entrava decisamente in crisi. La sua crisi era strettamente connessa a quella del cosiddetto “sistema giolittiano”. La politica di Giovanni Giolitti aveva assicurato all’Italia un decennio di progresso civile, economico e sociale. Una delle sue componenti essenziali era stato il particolare modo di intendere i rapporti tra lo Stato e la classe lavoratrice e le sue organizzazioni favorendone l’elevazione e la pacifica e graduale inserzione nella vita sociale della Nazione. Ora però il limite di “compatibilità” tra le esigenze delle forze sociali e politiche che erano il nerbo del giolittismo e le esigenze del movimento dei lavoratori si avviava rapidamente ad essere raggiunto e superato.
La “neutralità dello Stato” nei conflitti di lavoro introdotta da Giolitti (e che tanto aveva contribuito allo sviluppo della società italiana) sino a quando il movimento socialista era stato ancora relativamente debole era stata accettata da gran parte dei giolittiani; ora però che il movimento socialista si era rafforzato e tendeva ad attirare anche i contadini e a porsi nuovi obbiettivi che precorrevano di molto i tempi dello sviluppo economico-sociale e politico del paese, alla borghesia produttiva (sia cittadina sia agraria) la “neutralità dello Stato” sembrava ogni giorno di più trasformarsi in una forma di debolezza e in una capitolazione dello Stato di fronte ad una sola parte. Di qui la richiesta di un atteggiamento più “fermo” da parte dello Stato e persino il delinearsi della convinzione in alcuni ambienti borghesi che, di fronte alla “passività” dello Stato, fosse necessario ricorrere a forme di “autodifesa” (le prime manifestazioni si ebbero nel 1908 in occasione dello sciopero del Parmense, altre si ebbero nel 1914 in occasione della Settimana rossa).
Da qui (oltre che da altri motivi) il pericoloso scricchiolare del sistema giolittiano e – ancora più evidente – la crisi del riformismo, alla base del quale era la necessità per il movimento socialista di poter svilupparsi armonicamente al resto della società. Da qui, ancora, il vieppiù accelerato svilupparsi tra i lavoratori prima di gruppi sovversivi “irregolari” (sindacalisti-rivoluzionari, anarco-sindacalisti, ecc.) e poi nello stesso partito socialista di tendenze estreme di tipo rivoluzionario, che trovavano nel deterioramento della situazione generale sempre nuova esca.
Né, per completare questo schematicissimo quadro, va dimenticato un altro elemento. Nel Partito socialista una sinistra intransigente era sempre esistita e sempre aveva combattuto la linea riformista. Un po’ per le sue origini operaiste, un po’ per il suo sostrato positivisticheggiante, essa non era però mai stata veramente rivoluzionaria, tanto è vero che solo alcune sue frange avevano subito la suggestione degli “irregolari”. Ora, entrato il partito in contatto con masse sempre più arretrate e depresse, per le quali il socialismo era soprattutto un no radicale a tutta una situazione e a tutta una società, questa sinistra intransigente da un lato non rispondeva che molto genericamente ai loro orientamenti e alle loro aspirazioni (sostanzialmente attivistiche) e da un altro lato non era in grado, oggettivamente e soggettivamente, di orientarle verso una politica veramente socialista, seppure marcatamente di sinistra.
In questa cornice si deve vedere il successo politico personale di Mussolini al congresso nazionale di Reggio Emilia del 1912, il suo diventare direttore, alla fine di quello stesso anno, dell’«Avanti!» e il suo affermarsi per circa un biennio come uno dei leaders del partito. Mussolini fu l’uomo che meglio sembrò impersonare questa situazione nuova. La impersonò per la base del Partito e non solo per essa: giustamente, Modigliani avrebbe ricordato parecchi anni più tardi («Avanti!», 10 marzo 1934) come i suoi «atteggiamenti piazzaioli» e la sua «prosa tutta scatti e niente profondità piacquero allora anche a chi non si sarebbe creduto», tanto che egli «divenne una specie di dittatore del partito» e – fatto ancora più sintomatico – la impersonò anche per gran parte del gruppo dirigente intransigente. Costantino Lazzari in testa, che credette di aver trovato in lui l’uomo adatto al momento. Come ha scritto giustamente G. Arfè[1], «la scelta [di Mussolini come direttore dell’«Avanti!»] è opera di Costantino Lazzari. A determinarla non sono le qualità intellettuali né il prestigio politico dell’ancora oscuro agitatore romagnolo, ma la foga giacobina della sua oratoria, la giovane età, la estrazione sociale semi-proletaria, l’alone di “umiliato e offeso” dalla società borghese col quale egli si presenta. A Lazzari egli appare quasi il simbolo del proletariato che alla oppressione di classe reagisce con uno sforzo eroico di ribellione non individualistica ma di classe, che carica la propria fede di passione violenta e ne fa una possente arma di liberazione per tutti gli oppressi. Intorno al giovane rivoluzionario con paterna sollecitudine e paterno orgoglio si sarebbero raccolti i vecchi capi della sinistra, commossi e lieti di aver trovato il continuatore e il superatore della loro esperienza, il simbolo vivente e ardente da contrapporre alle brillanti personalità della parte avversa».
Mussolini resse la direzione dell’«Avanti!» dal 1° dicembre 1912 al 20 ottobre 1914. In meno di due anni il giornale cambiò volto e attraverso di esso Mussolini riuscì ad incidere notevolmente nella realtà del Partito. I riformisti furono praticamente estromessi dalla redazione dell’«Avanti!» e al loro posto sulle colonne del giornale bene presto apparvero sempre più numerosi gli scritti di nuovi collaboratori accesi rivoluzionari (spesso vicini ai sindacalisti-rivoluzionari e ai libertari) o che provenivano da esperienze ideologico-culturali sostanzialmente estranee da quella che era stata sino allora la tradizione socialista italiana. Come ha scritto A. Gramsci nel suo saggio su La questione meridionale «“L’Avanti!” diretto dal Mussolini lentamente ma sicuramente si viene trasformando in una palestra per gli scrittori sindacalisti e meridionalisti. I Fancello, i Lanzillo, i Panunzio, i Ciccotti ne diventano assidui collaboratori: lo stesso Salvemini non nasconde le sue simpatie per Mussolini che diventa anche il beniamino de “La Voce” di Prezzolini»[2]. Questi innesti e lo spirito animatore della polemica mussoliniana (acre, violenta, volontaristicamente volta – per usare le sue parole – a conquistare, violentare e fecondare la realtà italiana attraverso il Partito socialista) non mancarono di suscitare le proteste e le preoccupazioni dei vecchi riformisti e persino di alcuni dei più politici degli esponenti della maggioranza intransigente (di un Serrati per esempio). Notissima è la critica che Filippo Turati ne fece sulla «Critica Sociale»: «Che è… questa voce e questa parola, che vorrebbe essere voce e parola di un partito d’avanguardia… Religione? Utopia? Sport? Letteratura? Romanzo? Nevrosi? Certo non è il socialismo – perché è la negazione del socialismo». Nel complesso però il “mussolinismo” fece nel partito ampia breccia, specialmente tra i giovani che si illusero di trovare in esso la via per un adeguamento del socialismo alla radicalizzazione in atto della situazione italiana e per fare del Partito socialista la forza egemone di tutto il “sovversivismo” di sinistra. Non a caso, A. Tasca, rievocando anni orsono quel periodo, ha scritto che se i «vecchi» diffidavano di Mussolini, «i giovani sono questi tutti con lui, su cui contano per un rinnovamento del partito».
Manifestazioni di questo rinnovamento apparvero a molti l’atteggiamento intransigente che l’«Avanti!» assunse in occasione dell’eccidio di Roccagorga e delle agitazioni milanesi promosse dalla Usi[3], le reiterate minacce di rispondere a nuovi eccidi con lo sciopero generale, il nuovo modo di Mussolini di impostare i rapporti con i “rivoluzionari”, i “sovversivi” al di fuori del Partito socialista: un modo ideologicamente confuso, ma che, al fondo, denotava la tendenza a creare l’unità del proletariato rivoluzionario attorno all’«Avanti!» e al suo direttore, facendo proprie (a scapito del socialismo) le peculiarità degli altri movimenti «rivoluzionari». Per misurare concretamente l’ampiezza del consenso suscitato attorno a Mussolini da questa politica i punti di riferimento non sono certo pochi, vi è notevole aumento della diffusione dell’«Avanti!», vi è l’aumento anche più notevole degli iscritti al Psi, vi è il successo socialista nelle elezioni politiche del novembre 1913, vi è infine, la strepitosa vittoria degli intransigenti e di Mussolini in particolare al XIV congresso nazionale del Psi, tenutosi ad Ancona nell’aprile del 1914.
Dopo il congresso di Ancona, Mussolini sembrò essere diventato il vero leader del Partito socialista e questo essersi ormai trasformato in un partito ormai pronto a passare all’azione rivoluzionaria. Nulla di più falso. Lo dimostrò di lì a poche settimane il clamoroso fallimento della settimana rossa (a proposito della quale si può vedere oggi il bello studio di L. Lotti che per primo ne ha ricostruito l’andamento e il concreto significato storico e generale e particolare, riguardo cioè alle forze politiche che ne furono protagoniste[4]). Con la settimana rossa il rivoluzionarismo mussoliniano denunciò clamorosamente il suo velleitarismo e la sua inconsistenza e in pratica – anche se subito non apparve – col suo fallimento ebbe inizio la crisi dei rapporti tra il vecchio gruppo dirigente intransigente e Mussolini.
Per quel che riguarda Mussolini, bene ha visto Arfè quando ha scritto «tra i rivoluzionari delusi, Mussolini è uno di quelli per i quali l’esperienza non è passata invano. Il movimento operaio non ha marcato, le forze dello Stato sono apparse lente e indecise, in campo borghese cominciano a risuonare voci a lui congeniali, che parlano di riscossa e violenza. Nel fondo della sua coscienza sorgono inquietanti interrogativi. Egli comincia a cercare la molla della rivoluzione fuori dagli schemi classici del socialismo, a prestare attenzione ad alcuni gruppi intellettuali d’élite e soprattutto a quei teorici del sindacalismo-rivoluzionario per i quali la molla della rivoluzione può essere costituita da un conflitto inter-europeo. Lo scoppio della guerra mondiale fa precipitare il processo. Per Mussolini certo la decisione non è facile. Incertezze, opportunismi, motivi di carattere, la rendono lenta e tortuosa ma il suo corso può oggi essere ricostruito con chiarezza. Deciso neutralista Mussolini non fu mai. L’«Avanti!» nelle prime settimane della guerra, specie i commenti sulla invasione tedesca del Belgio, ce lo mostrano molto più filo interventista che non su una posizione di equanime condanna di tutte e due le parti in lotta. E molto opportunamente Modigliani ripercorrendo nel 1934 quegli avvenimenti («Avanti!», 17 marzo) ricorderà come «egli votò contro una proposta di Modigliani secondo la quale l’Italia non doveva uscire dalla neutralità nemmeno se le avessero offerto dei compensi territoriali. E Mussolini votò contro insieme ai cinquanta che respinsero la proposta di Modigliani, contro i soli cinque che la approvarono». Sicché alla fine la parola d’ordine della “guerra rivoluzionaria” lanciata da una parta dei sindacalisti rivoluzionari, l’esempio di uomini come Hervé, Kropotkin e Cipriani e la suggestione della agitazione interventista condotta da Bissolati, dai repubblicani, da «La Voce» e da «L’Unità» lo indussero al grande passo, nel quale si illuse di trascinarsi dietro – col suo prestigio personale – anche il Partito socialista.
Contrariamente alle speranze di Mussolini, la grande massa dei militanti socialisti – come è noto – non seguì però l’ex direttore dell’«Avanti!», che anzi fu tosto espulso dal Partito e divenne da quel momento per i suoi ex compagni il traditore per antonomasia. Per colui che per oltre due anni era stato uno dei leaders più in vista e più amati del socialismo italiano e nel quale molti (e non solo semplici militanti di base) avevano sperato di aver trovato l’ “uomo nuovo” del socialismo italiano aveva così inizio una nuova fase politica. Pur dicendosi ancora per alcuni anni socialista, egli si sarebbe rapidamente allontanato dal socialismo e sarebbe anzi presto divenuto il più accanito avversario del Partito socialista, da lui identificato con l’anti-Italia e fatto oggetto delle più violente accuse prima e, del dopoguerra, dei colpi sterminatori dello squadrismo fascista, e, in fine, pervenuto al potere, reso illegale e perseguitato.
Nonostante la profonda impressione suscitata dalla “conversione” di Mussolini, il Partito socialista reagì però – a parte frange numericamente poco importanti – molto bene alla crisi. La decisione con la quale il gruppo dirigente intransigente reagì ad essa, il patriottismo di partito e la rabbia per la delusione subita, unita al naturale pacifismo delle masse proletarie, gli permisero infatti di fronteggiarla molto bene all’interno. Se un risultato Mussolini ottenne verso i suoi ex compagni fu quello di costituire per esse un diversivo e di radicalizzare l’opposizione di principio contro tutte le altre forze politiche – anche quelle che per un verso o per l’altro in quel momento sarebbero potute esser loro più vicine – sicché ci pare si possa ancora una volta concordare con Modigliani quando (quasi vent’anni dopo) egli osservò che nel 1915 «i socialisti, gruppo parlamentare compreso, si lasciarono sorprendere dalla preparazione segreta dell’entrata in guerra dell’Italia. Inutile domandarsi quello che sarebbe successo se. Certo è che la loro mancanza di contatti nelle forze effettivamente operanti, tolse all’Italia non che la loro possibilità e funzione, il proposito di spingere energicamente il loro paese a tentare un intervento per la pace» («Avanti!», 24 marzo 1934).

Renzo De Felice



[1] G. Arfè, Storia del socialismo italiano 1892-1926, Einaudi, Torino 1965, p. 165.

[2] A. Gramsci, La questione meridionale, in 2000 pagine di Gramsci, vol. I, Nel tempo della lotta (1914-1926), a cura di G. Ferrata, N. Gallo, Il Saggiatore, Verona 1965, p. 807.

[3] Il 6 gennaio 1913, a Roccagorga, nel basso Lazio, durante una manifestazione di protesta, la polizia e l’esercito spararono sulla folla provocando 7 morti e 23 feriti. L’Usi (Unione sindacale italiana) era di tendenza sindacalista rivoluzionaria.

[4] L. Lotti, La settimana rossa, Le Monnier, Firenze 1965.