di Andrea Devoto – in “Nuova Antologia”, fasc. 2148, ottobre-dicembre 1983, Le Monnier, Firenze, pp. 420-424.
Una caratteristica tipica di questa nostra epoca, almeno per certe situazioni, è quell’atteggiamento ambivalente verso il voler ricordare a tutti i costi, da un lato; e il voler dimenticare ad ogni modo, dall’altro. Forse è il ritmo stesso della nostra vita, così lontana da quelli lenti e pacati di una volta, prima dell’ultima guerra. Oggi tutto sembra avvenire molto più in fretta: ad ore fisse i mass media ci inondano di notizie che, appena lette, viste, ascoltate, sono finite, bruciate, consunte. Forse ci si appassiona ancora a determinate cose, ma tutto appare istituzionalizzato, (pre)stabilito, concesso più che non goduto, somministrato invece che assaporato per scelta volontaria e autonoma. Tutta quella parte della nostra vita che non si consuma nel lavoro, nella famiglia e nei rituali di massa tende a ridursi sempre di più. Col tempo ci dimentichiamo di essere degli individui e tendiamo invece ad appartenere a qualcosa o a qualcuno. È come se non sapessimo cosa farcene della libertà, sempre ricercando qualche schema di riferimento, qualche gabbia o limite o struttura che ci dia il senso dell’appartenenza a qualcosa di più grande di noi. Tutto considerato, questo stato d’animo ricorda i prodromi di una resa, di quelle senza condizioni.
Riflessioni del genere possono anche apparire gratuite e banali, ma le dobbiamo rapportare agli avvenimenti, agli stati d’animo che, in lento crescendo, si manifestano in questi anni. L’allarme – se così si può dire – viene dato da più parti, ma almeno due esempi sono degni di attenzione. Da un lato abbiamo Bruno Bettelheim[1], psichiatra e psicoanalista di chiara fama, già internato in un campo di concentramento nazista fra il 1938 e il 1939, poi emigrato in America, che ha scritto numerosi saggi e articoli sulle esperienze subìte, e sulle conclusioni che se ne possono trarre. Da un altro lato, nel maggio di quest’anno, Lance Morrow[2] ha scritto su «Time» un breve saggio sulla ‘morale del ricordo’. Da collocazioni e partenze molto diverse, questi due autori mettono in evidenza alcune cose su cui vale la pena riflettere, perché sono un tipico segno della nostra epoca. Esse si concretizzano in un duplice interrogativo: «Dobbiamo ricordare?», contrapposto all’altro: «Dobbiamo dimenticare?», cui va aggiunta l’ovvia specificazione: «e in che modo?». È in questa modalità attuale della rimembranza e dell’oblìo che si rispecchia la civiltà del nostro tempo e come essa si comporta verso gli ultimi barlumi di ciò che accadde nell’Europa di quarant’anni fa.
Cominciamo dal primo quesito, se dobbiamo ricordare e come. Va subito detto che vi è stata, negli anni, una fioritura di parole utilizzate in maniera sempre più sintetica e anonima per descrivere le grandi tragedie passate, fino a ridurle ad avvenimenti praticamente analoghi ed equivalenti ad altri che si sono verificati e continuano a verificarsi nella storia dell’uomo. Ecco perché Bettelheim, in uno dei suoi saggi, indugia a parlare dell’Olocausto. Con questo termine improprio[3] gli americani ritennero di poter condensare tutto il programma di sterminio elaborato dai nazisti nei confronti degli ebrei europei, che, alla fine, fu portato a termine uccidendo nella maniera più barbara e crudele che si potesse immaginare sei milioni di persone.
Bettelheim fa notare due cose: da un lato che «chiamare martiri o offerte sacrificali queste sventurate vittime di un delirio omicida, di pulsioni distruttive senza più freni, è una distorsione inventata per il nostro comodo, piccolo o grande» (p. 93), in quanto fa sembrare che le vittime avessero scelto di sacrificarsi per qualcosa, mentre in realtà furono brutalmente assassinate. Da un altro lato il termine ‘olocausto’ ci libera dalle pastoie di dover provare repulsione e disgusto per quello che hanno fatto i nazisti: «L’uso di locuzioni tecniche… al posto del nostro linguaggio comune, costituisce uno dei più noti e più diffusi sistemi per prendere le distanze, in quanto divide l’esperienza intellettuale da quella emotiva. Parlare dell’olocausto ci consente di padroneggiarlo intellettualmente, laddove i fatti nudi e crudi, se fossero chiamati col loro nome consueto, ci sopraffarebbero emotivamente» (p. 92).
Ed in effetti l’uso di un termine che, per la maggior parte delle persone, non ha un significato particolare rappresenta, quasi paradossalmente, un’applicazione postuma di quella prassi della Tarnung[4] o mimetizzazione «utilizzata dai nazisti per designare le varie modalità di intervento in tutte le fasi della persecuzione e della deportazione»[5] nonché dello sterminio. Fino all’ultimo, infatti, con un sapiente dosaggio dei termini, le vittime furono tenute all’oscuro di quella che sarebbe stata la vera ‘soluzione finale’, se mai qualcuno poteva immaginare una cosa del genere. Persecuzioni, sì; leggi vessatorie, anche; confische e limitazioni e soprusi, certo, ma sempre in maniera altalenante, di modo che le vittime potessero talvolta abbandonarsi alla speranza che, ormai, altro non si sarebbe preso da loro, non certo la vita di intere famiglie, di tutta una comunità.
Il termine Olocausto ebbe fortuna, e ben presto fu usato in altri contesti, fossero essi Hiroshima o il Vietnam, senza valutare che sul piano storico e programmatico non vi era alcun punto di contatto. Come osservò Elie Wiesel[6], che fu imprigionato ad Auschwitz a 13 anni, «una volta equiparato Harlem al ghetto di Varsavia e il Vietnam ad Auschwitz[7], eccoci ora al gradino successivo: gente che ha passato la guerra in un kibbutz o in qualche sofisticato appartamento di Manhattan si vanta ora di essere sopravvissuta all’Olocausto, presumibilmente per interposta persona».
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[1] B. BETTELHEIM, Sopravvivere, Feltrinelli, Milano, 1981. Cfr. L’Olocausto una generazione dopo, pp. 86-102.
[2] L. MORROW, The morals of remembering, «Time», 121/21, May 23, 1983, p. 55.
[3] «Olocausto. Nell’antica religione ebraica e greca, il sacrificio alla divinità, in cui la vittima veniva interamente arsa // fig. Sacrificio totale e supremo di se stesso: offrirsi in o. per la patria» (G. DEVOTO e G.C. OLI, Vocabolario della Lingua Italiana, Le Monnier, Firenze, 1979, p. 756).
[4] Cfr. A. ENZI, Il lessico della violenza nella Germania nazista, Pàtron, Bologna, 1971, alle pp. 17-23 («Eufemismo – Segretezza – Gestapo»).
[5] A. DEVOTO e M. MARTINI, La violenza nei lager. Analisi psicologica di uno strumento politico, Angeli, Milano, 1981. Cfr. nel Glossario la voce Tarnung, p. 167.
[6] E. WIESEL, For some measure of humility, «Sh’ma. A Journal of Jewish Responsability, 51, October 31, 1975, pp. 314-316.
[7] Cfr. anche P. CHODOFF, Psychiatric aspects of nazi persecutioin, in S. ARIETI (Ed.), American Handbook of Psychiatry, Basic Books, New York, 1976, vol. 6, pp. 932-946 (alle pp. 942-943 le equivalenze con Hiroshima e le aree povere e ghettizzate delle grandi città).