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Risultati da 1 a 8 di 8
  1. #1
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    Predefinito Le matrici politiche del partito d’azione (1984)



    di Leo Valiani – In “Nuova Antologia”, fasc. 2150, aprile-giugno 1984, Le Monnier, Firenze, pp. 93-115.

    Relazione svolta al convegno sul «Partito d’azione dalle origini alla Resistenza armata» indetto dalla FIAP e dall’Istituto di studi Ugo La Malfa, a Bologna, 23-25 marzo 1984.

    Sovente, negli anni ’60 e ’70, Ugo La Malfa mi confessava di desiderare che si riunisse un convegno di studi dedicato alla storia del partito d’azione. Egli era ormai il capo indiscusso del partito repubblicano ed era riuscito a fare di questo storico partito (uno dei primi partiti politici italiani se si guarda alla data della sua costituzione formale – 1895 – e di gran lunga il primo di tutti se lo si ricollega, come per certo va fatto, al movimento politico repubblicano creato da Mazzini ancora nella prima metà dell’’800 e da lui incessantemente ricostituito fino alla vigilia della sua morte) un partito di grande modernità di vedute.
    Di questa modernità La Malfa aveva già data sicura prova nell’attività da lui svolta nel promuovere, nel 1942, la nascita del partito d’azione (che non a caso aveva ripreso, su proposta di Mario Vinciguerra, insigne studioso di storia, oltre che militante antifascista reduce dalle carceri del Tribunale speciale, il nome che Mazzini aveva dato, dopo la sconfitta dei moti del 1848-49, al suo partito) e poi, nel 1943-44, alla testa del partito d’azione medesimo.
    A giudizio di La Malfa, il partito d’azione aveva avuto, al suo esordio, rapido e assai promettente successo politico, disperso poi a seguito della lotta di tendenze che l’introduzione in esso della proposta, formulata soprattutto da Emilio Lussu, ma non da lui soltanto, tant’è vero che alla fine risultò maggioritaria, di definirsi come partito socialista, aveva reso insanabile.
    Diversamente da come i fautori di questa definizione avevano dapprima creduto, il vecchio partito socialista si era già ricostituito, sin dal 1943, con un seguito popolare vastissimo e robustamente crescente, sicché, dichiarandosi socialista, il partito d’azione diventava un doppione d’esso, alienandosi il seguito che altrimenti, con la sua originalità e modernità, avrebbe potuto conquistarsi, soprattutto nei numerosissimi ceti intermedi della società italiana.

    (...)
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  2. #2
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    Predefinito Re: Le matrici politiche del partito d’azione (1984)

    Certo, questa conclusione di La Malfa va essa stessa riesaminata storicamente, criticamente, nel convegno che oggi inauguriamo.
    La Malfa non nascondeva che le matrici delle sue idee risalivano all’Unione democratica nazionale di Giovanni Amendola in cui – dopo essersi formato con docenti antifascisti come Silvio Trentin e Gino Luzzatto – aveva debuttato, giovanissimo, nel 1924-25. Egli mi avvertiva, tuttavia, di non essersi più considerato, quando partecipò alla costituzione del partito d’azione, o almeno non in senso stretto, amendoliano e non solo perché nel quindicennio trascorso dal sacrificio di Amendola aveva abbracciato la pregiudiziale istituzionale repubblicana, che il partito repubblicano aveva sempre tenuto in vita e che il movimento di «Giustizia e Libertà» aveva rimesso ini circolazione.
    Le matrici del partito d’azione, secondo quanto La Malfa mi precisava, andavano ricercate anche più indietro nel tempo, fino a Salvemini, il Salvemini dell’«Unità» - ma, aggiungo io, bisognerebbe forse risalire alla «Voce» di Prezzolini, sulla scorta di alcune indicazioni di Dino Cofrancesco – e comunque al Salvemini uscito dal partito socialista nel 1911, per la sua insoddisfazione sia del paternalismo giolittiano, e dalla adesione che ad esso avevano dato i riformisti del socialismo, sia dell’opposizione massimalista che il giolittismo aveva generato negli intransigenti dello stesso partito socialista.
    Giolitti aveva promosso ed attuato, col sostegno dei riformisti, una serie di riforme, utili, ma incapaci di ulteriori grandi sviluppi, perché meramente redistributive, non strutturali e propulsive, come quelle che Salvemini, invece, reclamava, nell’interesse del Meridione, anzitutto, ma altresì di tutta la società italiana. Gran parte di questa, delusa da un riformismo troppo spicciolo, settoriale, nell’insieme costoso, e minacciato dal massimalismo classista della sinistra socialista, fattasi pro-bolscevica dopo il 1917, finì con l’aderire al fascismo.
    La critica salveminiana si rivelava dunque assai pertinente, nel mentre erano discutibili le soluzioni salveminiane. Soluzioni più moderne offriva – Amendola l’aveva già percepito fra il 1919 e il 1925, con la richiesta di intervento nell’economia dello Stato che egli sperava democratico (ma che, in realtà, La Malfa lo riconosceva, in regime monarchico, in Italia, democratico non poteva essere) – l’Occidente industrialmente e politicamente progredito, quello esemplificato da Roosevelt.
    Paradossalmente, ma non a caso, La Malfa consigliava dunque di risalire, nella disamina storica, ma con vigile senso critico, a Salvemini, che pure, nel 1943-45, non credette alla validità del partito d’azione, reputandolo una giustapposizione inutile di socialisti e di repubblicani che sarebbero dovuti tornare (come infatti avvenne nel ’47) gli uni nel partito socialista, gli altri nel partito repubblicano.
    Salvemini non aveva creduto molto neppure (soprattutto non in politica internazionale) nella novità positiva dell’orientamento di Roosevelt, del quale scorgeva principalmente gli opportunismi tattici, che gli ricordavano, certo in circostanze tanto diverse da quelle italiane prebelliche, il paternalismo di Giolitti.
    Quel che in Salvemini affascinava La Malfa era in primo luogo la concezione – elaborata dieci o vent’anni prima di Amendola – del meridionalismo come problema nazionale e non solo locale, di democratizzazione di tutta l’Italia e poi, ancora più profondamente, il suo riallacciarsi al convincimento, derivato dal Cattaneo, che il Risorgimento, se aveva risolto il problema nazionale dell’Italia, non ne aveva risolto e anzi neppure concretamente impostato né i problemi politici, né i problemi economico-sociali.
    L’Italia unita era rimasta arretrata. Bisognava sprovincializzarla, europeizzarla, ammodernarla. Malgrado l’eredità di Cavour e l’insegnamento di Croce, o quello di Einaudi, a questo compito non poteva bastare il liberalismo tradizionale, agli sviluppi del quale la fedeltà all’istituto monarchico, quintessenza, in Italia, degli interessi retrivi, metteva dei limiti che si erano rivelati fatali allo stesso tentativo d’ammodernamento, per il rimanente assai meritorio, di Amendola.
    L’inserimento dei problemi politici e sociali italiani nei problemi di tutta la democrazia europea, nasceva dall’interventismo democratico, comune a Salvemini, ad Amendola, a Bissolati e a molti altri più giovani di loro che, con Silvio Trentin, Alberto Cianca, Carlo Rosselli, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Vincenzo Torraca (si pensi al suo giornale del 1918-22, «Volontà», su cui rimando ad un mio vecchio scritto, ristampato nel 1960 nel volume Dall’antifascismo alla Resistenza), Francesco Fancello, Giovanni Mira, Achille Battaglia, Mario Zino, Livio Pivano, Guido Dorso, Vincenzo Purpura, Tommaso Fiore, G. B. Boeri, Giulio Bergman, Federico Comandini, Mario Jacchia, Luigi Bertonelli, Cristoforo Astengo, Ettore Trombetti, Vittorio Pellizzi, e anche con Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, e naturalmente coi repubblicani – a cominciare da Egidio Reale, Umberto Ceva, Vincenzo Calace, Oddo Marinelli -, ritroveremo in «Giustizia e Libertà» o nel partito d’azione.
    Avverto subito che i nomi che faccio, li faccio a titolo d’esemplificazione dei vari filoni. Molti altri nomi andrebbero fatti, ma qui non è possibile elencare tutti i meritevoli. Se si guarda agli uomini più autorevoli del partito d’azione, da Trento e Trieste a Palermo, da Padova a Milano, da Roma a Napoli e a Bari, da Bologna a Genova, si scorgono, quasi dappertutto, dei reduci dal fronte che avevano simpatizzato con l’interventismo democratico e che cercarono di risuscitarne lo spirito, attraverso la loro partecipazione a «L’Italia libera» del 1924, l’organo della parte antifascista del movimento dei combattenti. Nel partito sardo d’azione di Emilio Lussu questo è particolarmente evidente, anche se Lussu stesso, nel corso della guerra, abbracciò gli ideali di un socialismo non marxista.
    I maggiori anelli intermedi sono, com’è noto, «Rivoluzione liberale» di Gobetti, l’Unione democratica nazionale di Amendola e, senza trascurare il «Caffè» di Bauer e Parri, il «Non mollare» di Salvemini, Ernesto Rossi, Carlo e Nello Rosselli, Piero Calamandrei, Nello Traquandi, Carlo Compolmi, Enrico Bocci, Nello Niccoli, per non parlare dei suoi socialisti veri e propri, fra i quali i due martiri Console e Pilati, e il «Quarto Stato» dello stesso Carlo Rosselli, che era, però, anche di Nenni - «Giustizia e Libertà» e, infine, al di là dell’apporto di singole personalità, fra le quali spiccano La Malfa e Ragghianti, il movimento liberal-socialista.

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    Predefinito Re: Le matrici politiche del partito d’azione (1984)

    Su questi movimenti abbiamo altri relatori o testimoni e segnatamente Aldo Garosci che fu, su sollecitazione di Riccardo Bauer, uno dei primi militanti di «Giustizia e Libertà». Tutti quegli uomini avevano in comune il convincimento che non per meri errori tattici, ma per ragioni profonde, la democrazia prefascista, tanto nella sua componente liberale, quanto nella sua componente socialista, si era rivelata inadeguata, sia a prevenire il fascismo, sia a contrastarne l’avvento al potere, sia infine (quest’ultima constatazione non vale per Giovanni Amendola, ma vale per tutti quei suoi seguaci – da Alberto Cianca a Silvio Trentin ed Alberto Tarchiani, da Luigi Salvatorelli a Guido De Ruggiero, da Piero Calamandrei a Nello Rosselli, da Mario Berlinguer ad Edoardo Volterra, da Cesare Spellanzon a Mario Bracci, da Ugo La Malfa a Sergio Fenoaltea, da Mario Vinciguerra ad Adolfo Tino, da Egidio Reale a Mario Paggi e Pasquale Schiano, che rivedremo nel partito d’azione) a tentar di rovesciare il governo fascista durante la crisi del 1924 aperta dall’assassinio di Matteotti, come già allora Carlo Sforza – altro amico di Amendola – aveva sostenuto, ma invano, che si dovesse fare. S’intende che, dovendo limitarmi al partito d’azione, sono costretto a prescindere qui da quei seguaci di Amendola che tornarono, invece, nel partito liberale o fondarono la «democrazia del lavoro».
    Quando si esagera si sbaglia regolarmente e sbagliava perciò, in perfetta buona fede, Ferruccio Parri, affermando nel 1945, da presidente del Consiglio, nel suo discorso all’Assemblea consultiva, che in Italia, prima dell’abbattimento del fascismo, non c’era mai stata democrazia.
    In realtà, c’era stata e la si può datare dalla svolta del 1900 o addirittura (questo era il parere di Marco Minghetti) dall’allargamento, nel 1882, del suffragio, sol che, come precisò Salvemini, difendendo Parri, era una democrazia zoppa. Che fosse zoppa, l’aveva riconosciuto, votando e in parte redigendo i documenti del CLN Alta Italia, nel 1944, anche il liberale Giustino Arpesani, memore della propria collaborazione con Gobetti e poi con Bauer e Parri.
    Dello stesso parere era Franco Antonicelli, allora rappresentante liberale nel CLN piemontese, che poi presiedette. Infatti, nel mentre certe limitazioni o tare oligarchiche della democrazia liberale prebellica erano sempre state messe in rilievo dai suoi oppositori, di sinistra e di destra, il problema, in un primo istante, era parso avviato a soluzione con la vittoria del 1918, riportata dalle nazioni democratiche, fra le quali l’Italia, e con la piena libertà che il democratico Nitti garantì alle elezioni generali del ’19, basate, per la prima volta, sulla rappresentanza proporzionale. Era parso così, ma accadde il contrario.
    La Camera dei deputati si rivelò paralitica proprio quando aveva allargato la sua sovranità, includendovi, di fatto, anche la sfera della politica estera. Il governo si rivelò impotente. Gravi violenze si scatenarono, dall’estrema destra e dall’estrema sinistra e lo Stato, invece di farle cessare, parteggiò per i violenti di destra e li protesse. Era facile dire che ciò rifletteva l’acuirsi delle lotte fra le classi sociali. La guerra, la rivoluzione sovietica, la crisi postbellica avevano acuito in tutta l’Europa le lotte sociali. Solo in Russia e, per pochi mesi in Ungheria, ne scaturì la dittatura bolscevica. Solo in Italia la dittatura fascista.
    Chi coglieva o sembrava cogliere meglio nel segno era un giovane: Piero Gobetti, formatosi a contatto con Einaudi, Gioele Solari, Francesco Ruffini e Croce, Salvemini e Prezzolini, oltre che con Gramsci. C’è anche Gentile nelle appassionate letture di Gobetti, ma poi vi sono tutti gli scrittori e pensatori italiani e non pochi stranieri. L’Italia non aveva avuto né col Risorgimento, né col riformismo giolittiano, una rivoluzione liberale. I secoli di servitù non erano stati superati in profondità e ciò spiegava il successo del fascismo. Gli ideali di libertà non erano ancora scesi, dalle leggi, dalle istituzioni politiche rappresentative, negli animi, né ai vertici dello Stato e della società, né – fuor che in una sottile avanguardia – fra le grandi masse. Per farli scendere ci voleva una rivoluzione intransigente: la rivoluzione antifascista. Ci voleva la riforma dei costumi, della vita politica, dell’economia, nello spirito della libertà come valore che ha carattere prioritario.
    L’idea della priorità d’una rivoluzione di libertà non esauriva la complessità della riflessione e degli interessi, assai vasti, di Gobetti. Egli guardava con illuminazione forse troppo precoce ai nuovi partiti di massa, espressioni di classi sociali in cammino.
    Ma, direttamente, indirettamente, o attraverso «Giustizia e Libertà», il partito d’azione prese da Gobetti quest’idea della priorità. Era mancata all’Italia una rivoluzione democratico-liberale; si doveva farla scaturire dalla lotta volta ad abbattere la dittatura fascista.
    Non si sarebbe potuto farlo senza il ripudio intransigente di quanto, in passato, aveva impedito all’Italia di conoscere una lotta politica e sociale intransigente, premessa della rivoluzione liberale medesima.
    La rivoluzione liberale doveva essere condotta dall’alto o scatenarsi spontaneamente dal basso? Gobetti valutava positivamente anche il secondo corno dei dilemma, pur sapendo che ci voleva un’organizzazione d’élite, d’avanguardia, e dunque una classe politica dirigente profondamente rinnovata, capace di creare un nuovo Stato.
    Amendola non era giunto fino all’adozione dell’esigenza d’una catarsi rivoluzionaria che provenisse dal basso. Era approdato alla rivendicazione d’una democratizzazione radicalmente liberale delle istituzioni, ma auspicava la via della riforma, non quella della rivoluzione. In un discorso del novembre 1919 Amendola aveva già dilucidato che «dopo circa 60 anni di predominio» il liberalismo doveva farsi integralmente democratico e «o realizzarsi completamente nello spirito, nelle istituzioni, dell’economia, nella cultura… o cedere la direzione dello Stato… ad altre concezioni politiche, ad altri metodi, ad altri uomini». La crisi era mondiale, e non soltanto italiana ed era una crisi morale ed una crisi sociale «prima ancora di essere una crisi politica… La vecchia società borghese, su cui cadde implacabile la sentenza della storia nell’agosto ’14, era fondata sul dogma individualista… e la conseguente anarchia degli interessi privati e dei rapporti internazionali. Riconosciamo oggi, ritornando ad un’idea madre di Giuseppe Mazzini, in quel dogma un errore; ed in quell’errore la causa prima del cataclisma storico. La guerra ci ha illuminato. L’individuo non ha diritto assoluto contro la tradizione e la società». La società «ha pieno diritto di controllare gli interessi privati del cui giuoco anarchico può essere travolta… di costringere individui, classi e ceti a tener conto, nella loro azione economica, dell’interesse sociale».
    Mazzini era stato l’apostolo, oltre che dell’unità nazionale, della rivoluzione democratica italiana ed europea. La preoccupazione di non lasciare scatenare i conflitti di classe, di trovare soluzioni pacificamente accettabili da tutte le classi socialmente necessarie, se nell’’800 era utopistica, nel ’900 puntava non più su una rivoluzione, ma su riforme. Il controllo di queste riforme doveva restare nelle mani dello Stato; altrimenti si andava a rivoluzioni di classe.
    Su questo, nel 1919, Amendola aveva ragione, anche se aveva torto nella fiducia che accordava allo Stato monarchico. Era coerente, perciò, se già nello stesso discorso, anticipando quello più celebre del ’22, mutuava, in parte, da Salvemini la insistenza sul «carattere nazionale» della questione meridionale, ma ne indicava la soluzione, oltre che nello spezzettamento dei latifondi fra una «democrazia contadina», nello stanziamento di grandi spese dello Stato per il risollevamento del Mezzogiorno. L’aumento della produzione doveva essere stimolato, osservava nel ’19 Amendola, sostenitore di Nitti, «con l’azione dello Stato in materia economica».
    Non occorre dire come Amendola, che veniva da vigorosi studi filosofici, conoscesse e sentisse, da sempre, i problemi spirituali, di cultura. Da essi, e dalla crisi sociale, che la guerra aveva fatto esplodere, vedeva nascere la crisi politica, ma per fronteggiare questa proponeva rimedi politici, con iniziative che si sarebbero potute prendere dall’alto, pur dovendosi poi consolidarle alla base con l’organizzazione politica e anche sociale, dei ceti medi, specie nel Mezzogiorno.
    Proponeva dunque, via via, la collaborazione dei socialisti riformisti al governo, la modifica della rappresentanza proporzionale, che rendeva impossibili maggioranze omogenee e governi durevoli, la resistenza, anche con lo stato d’assedio, alle squadre fasciste, l’orientamento dell’Italia verso le grandi democrazie europee occidentali, la lotta, dopo l’instaurazione della dittatura fascista, per il ritorno allo Stato di diritto e, nel 1925, una «nuova democrazia», con una Costituzione che non potesse essere violata, una Carta costituzionale posta a suo presidio, il consolidamento della preminente sovranità del parlamento, la certezza della funzionalità di un governo autorevole e stabile, la garanzia dei «diritti del lavoro», limitati, tuttavia, dalla legge.
    Lo Stato liberale italiano, concludeva, non era fallito perché troppo democratico, ma perché «fu nel passato imperfettamente organizzato e non sempre ben governato, e perché esso tollerò, in alto e in basso, larghe zone di arbitrio e di disordine».
    La battaglia antifascista di Amendola si imperniava, tuttavia, dopo l’assassinio di Matteotti, sulla «questione morale», sollecitata e tenuta in vita da lui, a parte l’adeguatezza (o meglio l’inadeguatezza) strategica e non solo tattica dell’Aventino, con un’intransigenza che escludeva ogni accomodamento ed era potenzialmente, implicitamente, anche se non esplicitamente rivoluzionaria.

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    Predefinito Re: Le matrici politiche del partito d’azione (1984)

    L’intransigenza moralmente rivoluzionaria del suo antifascismo fa di Giovanni Amendola uno dei precursori del partito d’azione, nel mentre le sue impostazioni specificamente politiche saranno portate avanti da alcuni soltanto degli esponenti del partito d’azione o della «democrazia del lavoro».
    La preminenza che l’ultimo Amendola dava all’intransigenza morale antifascista era condivisa da Salvemini e dai fondatori di «Giustizia e Libertà». Nel 1926 Carlo Rosselli pensava di rievocare su «Quarto Stato», in un articolo storico-politico, la Kuliscioff, Amendola e Gobetti come le grandi figure di tre tappe del movimento democratico italiano. L’occasione gli era naturalmente suggerita dal decesso, a poca distanza di tempo, di questi tre, ma la sostanza era che Rosselli sapeva di essersi maturato attraverso il riformismo socialista, che nella Kuliscioff era più aperto, che non in Turati, verso le critiche di Salvemini; attraverso la visione gobettiana della libertà come rivoluzione e attraverso l’antifascismo impostato come questione morale intransigente da Amendola. Dei tre a Rosselli il più congeniale, per temperamento ed egualmente per la fiducia che riponeva nell’iniziativa rivoluzionaria, era sicuramente Gobetti.
    Carlo Rosselli e, per esempio, Riccardo Bauer, che avevano subìto, l’uno e l’altro, il fascino personale ed ideologico di Gobetti, non affidavano, come Amendola, la soluzione dei problemi sociali allo Stato. A differenza del primo Gobetti, non speravano neppure in un’avanguardia operaia comunista, né, a differenza dell’ultimo Gobetti, reputavano utile un qualsiasi ritorno a Marx. Più salveminiani in questo di Gobetti, Rosselli e Bauer, per non dire di Ernesto Rossi, accesamente liberista, in senso einaudiano, in economia, considerarono sempre il marxismo, in tutte le sue forme, come una dottrina che era diventata anacronistica. Bauer all’Umanitaria, Rosselli nelle file del partito socialista unitario di Turati, avevano conosciuto il meglio degli autentici organizzatori operai, che erano per l’appunto socialisti riformisti. Apprezzavano la loro concretezza pratica, le loro capacità di realizzazioni sociali gradualmente conquistate. Ne vedevano, e ne criticavano, Rosselli lo farà pubblicamente, in esilio, Bauer in carcere e al confino, e ne abbiamo l’eco nei suoi appunti autobiografici, che Arturo Colombo ci farà ora conoscere, l’insufficiente passione di libertà. A questo difetto attribuivano l’incapacità di quei dirigenti sindacali di resistere al fascismo, sia all’esordio d’esso, quando avrebbero potuto mobilitare ancora le grandi masse organizzate, sia nell’ora della disfatta.
    Con Pertini e Parri, Rosselli e Bauer organizzarono, subito dopo le leggi eccezionali, l’espatrio di Turati, come protesta antifascista. Ma la lotta per l’abbattimento del fascismo la concepivano sin d’allora come una lotta moralmente, ideologicamente, politicamente e anche fisicamente rivoluzionaria, che – a prescindere dal partito comunista, strettamente legato al modello sovietico, nel quale ravvisavano giù una dittatura staliniana e che, infatti, respingeva allora ogni collaborazione con loro – erano convinti potesse essere sostenuta, fino in fondo, solo da un movimento politico nuovo. I vecchi partiti li giudicavano organicamente inadatti all’uopo, benché di «Giustizia e Libertà» facessero parte, in una prima fase, durata non a lungo, dei socialisti e dei repubblicani che rimanevano tali, legati ai loro rispettivi partiti.
    Accennerò a quanto, a mio avviso, il partito d’azione ereditò da «Giustizia e Libertà». Anzitutto una folta schiera di militanti, taluni già socialisti, repubblicani e liberali, ma che superavano il loro passato e soprattutto dei giovani. Indi l’intelaiatura cospirativa e l’audacia, accompagnata da dura tenacia, nella lotta illegale antifascista, concepita come dovere morale, da assolvere con l’intransigenza che si è detta. Poi, la pregiudiziale istituzionale, repubblicana. E, a suo completamento, il convincimento che in Italia era necessaria e possibile, una rivoluzione democratica, autonomistica, ossia fondata sulla creazione di autonomie territoriali e sociali, che la garantissero da nuovi sbocchi dittatoriali e la educassero alla capacità di attuare il rinnovamento sociale anche attraverso l’esperienza vissuta dell’autogoverno dei produttori e non solo con la rivendicazione della spartizione delle grandi proprietà terriere, e con nazionalizzazioni che pure si propugnavano nei confronti dei complessi monopolistici.
    Una rivoluzione democratica radicalmente innovatrice, insomma, ma con priorità data alla riconquista e alla difesa della libertà, base comune della civiltà europea ed occidentale, alla quale si aderiva. Infine, il riconoscimento del pluralismo sociale e non solo prevalente in Italia, ma necessario ad ogni società libera moderna e, dunque, della pari dignità, anche nell’attuazione della giustizia sociale, di tutte le classi utili.
    Movimento e partito di lavoratori, poiché i ceti dominanti erano fascisti, ma non della sola classe operaia o – in «Giustizia e Libertà» questo soprattutto anteriormente alla partecipazione alla guerra di Spagna, anche se l’insistenza sul carattere determinante dell’azione operaia nell’auspicata rivoluzione le preesisteva, in Rosselli, in Garosci e, beninteso, in Lussu e Trentin – non con egemonia della sola classe operaia.
    Il reclutamento di elementi operai era ricercato da «Giustizia e Libertà» e, nella Resistenza, anche dal partito d’azione, per motivi ideali e per assicurare la propria presenza nei movimenti di massa che si supponevano decisivi. Quel che il partito d’azione non ereditò, invece, prima del ’45, da «Giustizia e Libertà», fu il suo voler essere, dal 1932 in avanti, movimento socialista, ancorché d’un socialismo che preservasse i valori della civiltà liberale. Ma su ciò e su altre differenze, aspetto di sentire Garosci.

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    Predefinito Re: Le matrici politiche del partito d’azione (1984)

    Fra il 1930 e il 1935 gli arresti decimarono il numero dei militanti di «Giustizia e Libertà» rimasti attivi in Italia. Sopravvissero, tuttavia, numerosi nuclei che risultarono poi determinanti: a Milano, dopo la loro uscita dal carcere, con Vittorio Albasini Scrosati, Mario Andreis, Mario ed Alberto Damiani, Riccardo Lombardi, Antonio Zanotti, e a Bergamo con Ada Rossi, per fare – come sempre – solo alcuni nomi; a Torino con Giorgio Agosti, Sandro Galante Garrone, Livio Bianco, Giuseppe Manfredini, Ada Gobetti, e via dicendo, se non sbaglio con gli stessi Augusto Monti e Leone Ginzburg, al loro ritorno dal penitenziario; a Roma con Achille Battaglia, Bruno Pincherle, Edoardo Volterra, col sardista Stefano Siglienti, con gli ex-carcerati Vindice Cavallera e Manlio Rossi Doria ed i repubblicani Federico Comandini, Oronzo Reale, Giuseppe Bruno nonché coi più giovani Giorgio Candeloro e Pilo Albertelli; a Bari con Tommaso Fiore ed i suoi figli ed amici (che includevano, ad Avellino, Guido Dorso); a Napoli con Pasquale Schiano; nelle Marche con Oddo Marinelli e Vilfredo Duca; a Bologna con Ragghianti e Masia; a Modena con Ennio Pacchioni; a Lugo con Vincenzo Cicognani; a Padova con Egidio Meneghetti; a Treviso con Leopoldo Ramanzini; a Trento con Giannantonio Manci; a Trieste con Gabriele Foschiatti, Umberto Felluga, Mario Maovaz, Michele ed Ercole Miani; a Venezia con Armando Gavagnin e Camillo Matter; a Cosenza con Nino Woditska. Di Firenze – ove insegnava un amico e compagno dei Rosselli, Piero Calamandrei, che non era però, allora, un attivista – sono testimoni Enzo Enriques Agnoletti, che lesse in Svizzera, nel 1934, la stampa fuoruscita di «Giustizia e Libertà», e Ragghianti, che fu a Parigi e in Inghilterra nel 1938 e ’39, prese contatto con «Giustizia e Libertà» e si prodigò, come forse nessun altro, per saldarne i gruppi superstiti coi nuovi gruppi antifascisti che si formavano in Italia.
    Il più importante, il più diffuso dei nuovi movimenti era quello liberal-socialista. Su di esso abbiamo due relatori. Io stesso ne ho scritto nel mio saggio di 15 anni fa su Il Partito d’azione nella Resistenza. Qui dirò, perciò, solo lo stretto indispensabile.
    Nel mio scritto citato ho esaminato il movimento liberal-socialista come la forma forse la più significativa e vasta, in quel periodo, della politicizzazione democratica degli intellettuali italiani. Prima del regime fascista gran parte d’essi aveva vissuto nella «torre d’avorio». Il fascismo ne fece uscire un grosso numero, ma non tutti e forse neppure la maggioranza d’essi in modo davvero impegnativo. Inizialmente li entusiasmò, poi li deluse. La fronda intellettuale fascista fu numerosa, con Bottai, all’infuori di Bottai e anche contro Bottai. Il gentilianesimo stesso non era ortodossia fascista. Croce continuava ad esser letto e meditato. Fra i giovani, anche molti che lo apprezzavano per la sua religione laica della libertà, accettavano, tuttavia, la critica fascista all’inadeguatezza del liberalismo e del socialismo tradizionali. Il fallimento d’essi puntava in direzione d’una sintesi fra queste due grandi filoni ideologici. Il fascismo stesso aveva voluto costituire tale sintesi, ma non vi era riuscito.
    La guerra, che rendeva possibile, poi probabile, la disfatta del regime fascista, rendeva o sembrava rendere attuale la ricerca della nuova sintesi, che prese corpo come liberal-socialismo. I suoi fondatori, pur essendo cresciuti vicini all’antifascismo – Capitini perché antifascista era da sempre al punto da rifiutare la tessera del fascio e con essa la carriera universitaria, Calogero perché nella sua famiglia si era letto il «Mondo» di Amendola e sua moglie era sorella del repubblicano Federico Comandini – non conoscevano, per letture o contatti diretti, l’analoga sintesi tentata da Carlo Rosselli col suo socialismo liberale.
    Abbiamo già notato che Rosselli voleva che il socialismo uscisse dal suo inerte fatalismo più o meno marxista, senza cadere nella dittatura comunista, che capiva come fosse il frutto non solo dell’estremismo bolscevico di derivazione giacobina, ma ancor più dell’incompatibilità oggettiva fra la collettivizzazione universale dell’economia ed il mantenimento delle libertà democratiche. Egli intendeva fare di «Giustizia e Libertà» l’avanguardia, il lievito del rinnovamento su scala internazionale d’un movimento operaio affiancato dalla parte democratica dei lavoratori del medio ceto. Il suo obiettivo era la rivoluzione italiana ed europea, con la meta degli Stati Uniti d’Europa o, in Spagna, della rivoluzione antifascista internazionale.
    I liberal-socialisti italiani, vedendosi relativamente molto numerosi, nel 1941-42, nelle università italiane (fra gli studenti e altresì fra gli assistenti ed i professori) e non vedendo la ricostruzione, che tardava, del partito socialista, speravano di poterne prendere il posto, anche perché pensavano che i socialisti marxisti sarebbero entrati nel partito comunista. A loro giudizio il rinnovamento politico supponeva un rinnovamento spirituale (in Capitini, che però non aderirà al partito d’azione, anzitutto religioso, anche se d’una religiosità laica) e la preminenza delle esigenze etiche sui problemi politici ed economici in senso stretto.
    A differenza di «Giustizia e Libertà», il liberal-socialismo non puntava aprioristicamente su una rivoluzione antifascista violenta. Esso faceva appello ad una grande riforma politica, sociale, culturale (in ispecie nell’ambito della scuola) e ad un’unità di fronte di tutte le forze democratiche. Quel che dava al liberal-socialismo una diffusione, specie fra i giovani, parecchio più vasta di quella che «Giustizia e Libertà» aveva conosciuto prima che gli arresti del 1930 la colpissero duramente, era il momento storico in cui sorgeva. Il regime era ormai in crisi, fra gli stessi suoi seguaci più chiaroveggenti. Il liberal-socialismo era il primo movimento del post-fascismo: questo era il suo pregio ed il suo limite.
    A tanti decenni di distanza ci si può domandare che cosa è rimasto in vita, dopo la scomparsa di «Giustizia e Libertà», del liberal-socialismo, e del partito d’azione in cui confluirono, di questi tentativi di rinnovamento? Il socialismo liberale, non nelle forme specifiche auspicate da Rosselli, che del resto, come Garosci preciserà, le emendò più volte, ma nel senso della revisione critica, e anzi del superamento democratico del marxismo nel movimento operaio occidentale, prevale ormai in una serie di grandi partiti socialisti o socialdemocratici, ivi compreso il partito socialista italiano. Per avere successo – a parte la naturale cessazione del suo antifascismo attivo, dopo la fine della seconda guerra mondiale – esso ha dovuto venire a patti con gli interessi elettorali e sindacali (quest’ultimi sempre più corporativi) dai quali i partiti di massa non sono in grado di prescindere. Il desiderio di purificazione spirituale e morale incarnato dal liberal-socialismo delle origini non ha potuto prender corpo in alcun partito politico all’infuori e dopo il partito d’azione, al quale il suo moralismo intransigente diede forte slancio nella Resistenza, ma nocque politicamente ed organizzativamente dopo la fine d’essa.
    L’esigenza del rigore morale è, però, più attuale che mai nella politica italiana. La corruttela che logora oggi la democrazia italiana rivaluta la precedenza che i liberal-socialisti davano all’esigenza etica, nel mentre lo stato di crisi della scuola italiana rivaluta la loro insistenza sulla riforma culturale. Da un punto di vista più generale, Croce poteva avere ragione nella sua critica logica e storica alla fusione fra liberalismo e socialismo. Attualmente, fra il liberalismo democratico (differenziatosi, come Adolfo Omodeo e Guido De Ruggiero intendevano, dal liberalismo conservatore) ed il socialismo democratico occidentale, ed anche italiano, le divergenze si sono molto ridotte e la tendenza in fieri sembra essere quella d’una loro ulteriore riduzione. Marx presagiva che il paese più industrializzato avrebbe mostrato il loro domani ai paesi in via di industrializzazione.
    Sessanta o settant’anni dopo l’uscita del Capitale, John Dewey (la cui pedagogia ritroviamo fra i liberal socialisti italiani) constatava che il paese di gran lunga più industrializzato nel mondo erano ormai gli Stati Uniti e ne deduceva che questo poteva fare della filosofia politica americana il punto di riferimento di tutte le democrazie. In effetti, nel partito democratico americano confluivano già sia i liberali intellettualmente e socialmente più avanzati, sia il movimento operaio sindacalmente organizzato, nel quale i suoi pionieri socialisti apparivano non più tali, ma dei democratici di sinistra.
    Uno dei punti di forza di Ugo La Malfa, che conosceva poco anche lui (dati gli strettissimi limiti entro cui, con la clandestinità, esso poteva circolare) il socialismo liberale di Rosselli, ma conosceva bene, invece, sol che non condivideva, la speranza dei liberal-socialisti di poter soppiantare il vecchio partito socialista, risiedeva nell’attenzione che prestava agli svolgimenti che avevano luogo nell’Occidente democratico. Già in uno dei suoi primi scritti, apparso nel 1926 in «Il Mondo», il giovane antifascista La Malfa sottolineava l’importanza di un esame approfondito della situazione internazionale, che in effetti al giornale che era stato di Giovanni Amendola, da poco scomparso, stava molto a cuore. Amendola ed i suoi amici Carlo Sforza, Guglielmo Ferrero, Luigi Salvatorelli e così via, avevano opposto, sin dalla fase conclusiva della guerra mondiale, la democrazia al nazionalismo.
    Il fallimento della politica internazionalista del presidente americano Wilson, i trattati di pace punitivi, il prolungarsi della crisi postbellica diedero, però, nuovo alimento alle tendenze nazionalistiche non solo nell’Italia, diventata fascista, ma egualmente nei paesi che conservavano il regime parlamentare. «E in questo giuoco – constatava La Malfa – il nazionalismo europeo ha complici i ceti borghesi agricoli e industriali meno intelligenti, che sperano, attraverso la politica nazionalista, di comprimere le masse ed allettarle con la speranza di possibilità espansionistiche».
    A questi gruppi retrivi La Malfa contrapponeva l’anacronismo del colonialismo («i popoli coloniali si svegliano contro gli antichi padroni», scriveva) ed esprimeva la sua fiducia in «quelle correnti della borghesia industriale che comprendono come la funzione delle classi capitalistiche presupponga un regime di libertà… L’industria europea necessita d’una sistemazione europea nell’ambito degli Stati Uniti d’Europa e ciò non può essere che opera della borghesia. Intenda la borghesia europea, ancora divisa ed incerta, il grande significato dell’organizzazione economica americana… I partiti socialdemocratici, d’altra parte, indicano alla borghesia la nuova via da battere… In questo senso la democrazia non è morta come non è morto il socialismo».
    Giovanni Spadolini parlerà dell’opera politica complessiva di Ugo La Malfa. L’articolo che abbiamo citato ci rivela come il ventitreenne La Malfa avesse già una visione straordinariamente lucida e lungimirante del problema di fondo della nostra epoca. Le borghesie europee, per poter progredire, lungi dal ripudiare la democrazia, dovevano rafforzarla con l’acquisizione dei movimenti operai socialdemocratici e dovevano superare i nazionalismi con la costruzione degli Stati Uniti d’Europa e con l’occhio volto alle realizzazioni economiche degli Stati Uniti d’America. Il federalismo europeista di La Malfa – che egli poteva aver preso dalla pubblicistica del primo dopoguerra – precedeva forse quello di Rosselli e certamente quello, molto più ampiamente argomentato, del Manifesto di Ventotene.

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    Predefinito Re: Le matrici politiche del partito d’azione (1984)

    Questa visione lamalfiana rivela oggi il suo indubbio realismo. Nel 1926, proprio fra gli antifascisti italiani, essa poteva sembrare illusoria. La borghesia industriale italiana aveva già superato le sue precedenti divisioni politiche e si fascistizzava come un blocco compatto. Nelle più solide democrazie capitalistiche, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma anche in Francia, le classi dirigenti vedevano di buon occhio il fascismo di Mussolini.
    I governi socialdemocratici del primo dopoguerra avevano deluso, con la loro timidità e debolezza o addirittura impotenza, e, fuor che fra i diretti interessati, si prevedeva che anche gli eventuali nuovi governi socialdemocratici avrebbero deluso, per analoghi motivi. Comunque, il movimento operaio internazionale, a direzione allora socialdemocratica, qualche modesto aiuto materiale e morale all’antifascismo italiano poteva ancora darlo, ma glielo diede solo quando esso era già, nei suoi quadri dirigenti, costretto all’esilio. (L’aiuto che diede, in un primo momento, a «Giustizia e Libertà» per la sua azione cospirativa in Italia, sarebbe stato utile, ma in sostanza poco più che simbolico).
    Dai governi borghesi delle democrazie occidentali (per non dire delle organizzazioni industriali borghesi che in quegli stessi paesi si spostavano sempre più a destra) l’antifascismo italiano non poteva sperare, allora, nulla, all’infuori di uno stretto diritto d’asilo, neppure quando uno di essi, destinato del resto a vita effimera, si pronuncerà, con Briand, pochi anni dopo, ma senza poter prendere alcun impegno preciso, per la Federazione europea. Se c’era un governo dal cui rafforzamento dei militanti antifascisti potevano credere – e sia pure, come oggi sappiamo, illudendosi pesantemente – di ricevere un giorno un aiuto politico, era quello dell’Unione Sovietica. Coloro che in numero ancora esiguo, ma continuamente crescente, in esso riponevano le loro speranze, diventavano per l’appunto comunisti, a cominciare da Giorgio Amendola, il figlio del capo, ormai defunto a seguito delle percosse fasciste, dell’Aventino.
    Eppure lo svolgimento del successivo mezzo secolo ha dato ragione alle precoci previsioni di La Malfa. È vero che la Spagna repubblicana ricevette, nel 1936-37, aiuti militari quasi soltanto sovietici, mentre le democrazie occidentali si astennero dal contrastare l’intervento fascista e nazista. Per sconfiggere militarmente il fascismo ed il nazismo, il concorso bellico degli eserciti sovietici fu non meno indispensabile di quello delle forze armate anglo-americane. Ma dal 1939 al ’41, durante il patto Hitler-Stalin, la sola vera resistenza all’Asse nazi-fascista fu opposta dall’Inghilterra, tutt’insieme democratico-borghese e laburista e a partire dal ’41 il peso degli Stati Uniti fu decisivo.
    Dal ’45 ad oggi la rinata democrazia italiana è stata aiutata solo da quella americana e l’evoluzione politica, economica e sociale europea si è mossa – anche se con molte difficoltà, per l’appunto d’origini nazionalistiche, che ci tengono ancora lontani dal traguardo degli Stati Uniti d’Europa – lungo le linee anticipate, sulla scia di Giovanni Amendola e di Carlo Sforza, dal giovane La Malfa.
    In politica, ma della vita in generale si può dire lo stesso, ovviamente non basta avere ragione. Occorre agire e, per poter agire efficacemente, organizzarsi. Nell’attesa di poter creare un’organizzazione confacente alle sue prospettive, di democrazia occidentale, La Malfa si preparava severamente. Nell’Ufficio studi della Banca Commerciale Italiana, ove La Malfa lavorava, gli scritti di Keynes erano di casa (Mattioli era intimo amico di Piero Sraffa e aveva fatto tradurre, da un funzionario della banca stessa, Enrico Redaeli, che ritroveremo come militante nel partito d’azione, il Trattato sulla moneta keynesiano) e ci si documentava su tutte le più importanti pubblicazioni estere, in particolare inglesi ed americane, di economia e di politica finanziaria.
    La Malfa non cessò mai di frequentare chi poteva fra gli aderenti al movimento amendoliano, così Luigi Salvatorelli e Meuccio Ruini e si legò particolarmente, di forte amicizia personale, ai propri coetanei in quella nobile battaglia: Adolfo Tino, Sergio Fenoaltea, Edoardo Volterra. Si affiatò, inoltre, fra gli antifascisti più giovani, con Bruno Visentini, Raimondo Craveri, Tom Carini, Bruno Quarti, che diventarono suoi intimi collaboratori nella tessitura della rete che sfociò nel partito d’azione. Coi due massimi dirigenti di «Giustizia e Libertà» in prigione – Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi – a conferma della non sterilità dell’andata nelle carceri del Tribunale speciale per cospirazione antifascista, La Malfa era in contatto tramite il fratello e la sorella di Bauer, e tramite Ada Rossi, la cui attività fu essenziale per reclutare dei giovani (Ada insegnava) e portarli poi dal giellismo al partito d’azione.
    A Milano La Malfa e Tino frequentavano assiduamente Parri e Vittorio Albasini Scrosati (questi, come La Malfa stesso, era già stato, nel 1924, nell’Unione Goliardica per la libertà) che ivi tenevano in vita, a dispetto della sorveglianza poliziesca, dei nuclei di «Giustizia e Libertà». A Roma La Malfa era collegato coi giellisti Stefano Siglienti e Giuseppe Bruno e coi repubblicani facenti capo ad Oronzo Reale.
    Calogero ed alcuni altri futuri esponenti intellettuali del partito d’azione (così Federico Chabod, che poi venne a Milano all’ISPI e collegò gli antifascisti ivi formatisi, in ispecie Enrico Serra, ed i suoi colleghi ed amici, con La Malfa e Parri) conobbero La Malfa all’Enciclopedia Italiana.
    Ragghianti ci ha detto – e del resto lo documentò già nei suoi libri – del proprio contributo, sicuramente essenziale, nel collegare fra di loro gli antifascisti democratici, nella seconda metà degli anni trenta e nel forgiare, all’inizio degli anni quaranta, il partito d’azione. Antifascista sin dai banchi del liceo, al pari di Capitini, di cui era amico, anche Ragghianti aveva rifiutato la carriera universitaria, per non dover prendere la tessera del fascio. La sua attività di storico e critico d’arte gli valse la stima e l’amicizia di Benedetto Croce e di numerosi intellettuali crociani.
    Calogero lo conobbe tramite Capitini e, senza mai condividere l’ideologia liberal-socialista, che giudicava confusa, operò «senza sosta – cito da una sua lettera – per unire i liberalsocialisti ai giellisti, ai democratici radicali ai gobettiani… ai repubblicani, ai socialdemocratici e socialisti, agli stessi liberali riformatori ed a tutti coloro che riconoscessero la necessità di formare una forza politica nuova, fuori delle responsabilità negative rispetto al fascismo che avevano avuto i partiti dello Stato prefascista».
    «Tra il dicembre 1939 (Bologna) e il maggio 1940 (Assisi) il processo unitario – continua Ragghianti – si consolidò… Parri nella primavera 1941, La Malfa poco più tardi, e dopo un’iniziale opposizione di cui sono noti i motivi, aderirono all’accordo che fu verificato in tutti i gruppi clandestini attivi in Italia, e trovò espressione… in un programma politico rivoluzionario detto dei sette punti, che elaborai sulla scorta di un’ampia consultazione e collaborazione. Esso fu varato a Bologna alla vigilia di Natale del 1941 ed era approvato sul piano nazionale al luglio 1942».
    La Malfa aveva, in realtà, svolto un’opera di unione degli antifascisti democratici parallela a quella di Ragghianti. Per quel che egli mi raccontò, la sua iniziale opposizione era limitata all’inclusione nel partito, che si prospettava, dei socialisti veri e propri. Egli era convinto della rinascita, al primo cenno di crisi del regime fascista, del vecchio partito socialista e reputava inutile e nocivo fargli concorrenza sul terreno del socialismo, congeniale ad esso e non alla nuova formazione politica progettata. Contemporaneamente, La Malfa insisteva per l’adozione della pregiudiziale repubblicana e non soltanto perché essa caratterizzava «Giustizia e Libertà», ed i nuclei repubblicani che aderivano alla nuova formazione, ma perché era convinto – e lo scrisse nella lettera politica che redasse con Adolfo Tino nella prima metà del ’42 e fece recapitare, tramite il suo amico Enrico Cuccia, al conte Sforza, il quale lo pubblicò sul «New York Times» del 28 giugno 1942 – che la monarchia sarebbe potuta sopravvivere in Italia esclusivamente con un compromesso reazionario con le forze anti-democratiche disposte a staccarsi da Mussolini, sotto il peso della sconfitta militare, e allo scopo di salvare quanto nel fascismo era stato propizio ai loro interessi oligarchici.
    L’insistenza di La Malfa e di Tino (questi, nittiano nell’immediato dopoguerra, giornalista radiato dall’albo per antifascismo nel 1926, lavorava come avvocato a Milano) sulla pregiudiziale repubblicana, che traevano dalla constatazione del peso negativo che la fiducia nel re aveva avuto nella paralisi dell’Aventino (la cui inerzia Tino aveva criticato già nel ’25 su «Rinascita liberale») determinò la loro separazione dai liberali antifascisti ma ancora non disposti a rompere con la tradizione monarchica, come Leone Cattani, ai quali pure erano stati vicini negli anni venti e trenta.
    Viceversa, la pregiudiziale repubblicana fu decisiva per la confluenza nel partito d’azione di molti repubblicani «storici» che ritennero che il nuovo partito fosse la reincarnazione del vecchio partito repubblicano. Ma in proposito rinvio a quanto dirà Massimo Scioscioli.
    Le recise prese di posizione di La Malfa e di Tino fecero sì che il nuovo partito nascesse così chiaramente delimitato a destra nei confronti del partito liberale e a sinistra nei confronti del partito socialista, dei quali scontavano, per l’appunto, realisticamente, la ricostituzione. Nuovo partito e non movimento. Inizialmente, la nuova formazione si chiamava «Movimento per il rinnovamento democratico sociale». La Malfa voleva che si delineasse inequivocabilmente come un partito. I liberal-socialisti esitavano, sapendo che ciò avrebbe fatto perdere loro alcuni aderenti. Poi accettarono. La Malfa propose la denominazione di «Partito democratico italiano».
    Albasini Scrosati e Andreis proposero quella di «Partito del Lavoro». Prevalse la soluzione suggerita da Vinciguerra: «Partito d’azione». Essa fu adottata nel luglio 1942; Cicognani ne possiede l’atto costitutivo.
    Il richiamo all’eredità ideale del Risorgimento poteva accontentare tutti, anche se questo nome non era certo il più indicato per far capire alle masse, senza spiegazioni accessibili solo alle persone colte, che cosa il nuovo partito volesse oltre all’abbattimento del fascismo e l’eliminazione della monarchia.

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    Predefinito Re: Le matrici politiche del partito d’azione (1984)

    Da La Malfa io avevo appreso – se la memoria non m’inganna – che il programma del partito d’azione, condensato in 7 punti, era stato redatto da lui, con la collaborazione di Tino e di Ragghianti. Adesso Ragghianti ci ha precisato di esserne stato l’autore, con la collaborazione di La Malfa e di altri.
    Indubbiamente, per essere stato in Francia ed in Inghilterra poco prima della seconda guerra mondiale, Ragghianti conosceva meglio degli altri fondatori del partito d’azione il caratterizzarsi sempre più decisamente socialista sia di «Giustizia e Libertà» in esilio sia del laburismo inglese, che avrebbe esercitato, lo si poteva supporre allora, anche se poi in Italia non fu così, un’influenza determinante sulla sinistra democratica nel vecchio continente, dopo la sconfitta del fascismo e del nazismo.
    Il terzo dei 7 punti, che propugnava la nazionalizzazione – senza interferenze private – dei «grandi complessi finanziari, industriali ed assicurativi ed in genere (di) quante imprese hanno carattere di monopolio e rilevante interesse collettivo» nei quadri di «una economia nazionale coordinata», significava visibilmente un’apertura – rispetto alla democrazia liberale amendoliana – alle esigenze di «Giustizia e Libertà» e del movimento liberal-socialista. La Malfa stesso difese sempre, finché rimase nel partito d’azione, quelle proposte di nazionalizzazioni, che pure suonavano ostiche ai ceti medi ai quali Giovanni Amendola aveva inteso rivolgersi e fra i quali il partito d’azione medesimo si poteva sperare che avrebbe trovato più vasto e fecondo campo di adesioni. Non erano d’accordo con la richiesta di nazionalizzazioni Vinciguerra, Paggi e Sergio Fenoaltea. Questi motivò le sue critiche con argomentazioni di economista moderno. Nello stesso scritto lamalfiano, intitolato Chi siamo, apparso nel primo numero, ovviamente clandestino, ma relativamente molto diffuso, dell’«Italia libera», che La Malfa e Tino pubblicarono a Milano nel gennaio 1943, come «giornale del partito d’azione», e che provocò, nel secondo numero, le Precisazioni, richieste da Codignola e Calogero, più vicini ad esigenze socialistiche e concordate in un incontro a Firenze, del marzo ’43, fra La Malfa, Calogero e Ragghianti, dicevo, dunque, nello stesso scritto lamalfiano Chi siamo si propugnava, peraltro, come un fattore essenziale, la collaborazione «fra ceti medi e classi operaie e contadine».
    Questa collaborazione, che ci sarà durante la Resistenza, anche – seppure non esclusivamente – per merito del partito d’azione, durerà quanto durerà l’unità della democrazia antifascista, uscita dalla lotta di liberazione. La dissoluzione di quell’unità sarà fatale proprio al partito d’azione. Esso ebbe – come La Malfa ricordava sempre con orgoglio e rimpianto – rapido successo iniziale, perché invitava gli italiani alla lotta audace ed intransigente contro il fascismo che impegnava l’Italia in una guerra contraria agli interessi nazionali del paese, e poi contro l’occupazione hitleriana della penisola.
    È innegabile che il partito d’azione, con Parri e con migliaia di militanti, molti dei quali perirono nel combattimento, sostenuto dalle formazioni «azioniste», dell’«Italia libera» e delle «Giustizia e Libertà», e faccio solo il nome d’uno dei massimi dirigenti, Duccio Galimberti, loro coordinatore, con Livio Bianco nel Cuneese e poi loro capo in tutto il Piemonte, ma dovrei parlare anche di Bologna, con Jacchia, Masia, Quadri, Zoboli, Bastia e altri gloriosi caduti, che ebbe meriti straordinari nella guerra partigiana. Della lotta di Bologna potrebbe parlare il mio carissimo compagno ed amico Pietro Crocioni.
    Il successo iniziale del partito d’azione fu conseguito soprattutto con le adesioni che riscosse nei ceti medi colti, ancorché le «Giustizia e Libertà» avessero anche, e in Piemonte e Lombardia ciò è suffragato dalle statistiche sulla loro composizione sociale, delle presenze operaie e contadine non trascurabili.
    Negli stessi ceti medi la penetrazione del partito d’azione era, tuttavia, limitata proprio dai fattori che ne avevano favorito l’esordio. Ho già detto della richiesta di nazionalizzazioni, che fra i ceti medi non era popolare, anche se poi si garantiva, come il partito d’azione faceva, piena libertà al settore privato dell’economia.
    La presa di posizione del partito d’azione nel 1942, per la causa delle democrazie occidentali, vale a dire per l’Inghilterra e gli Stati Uniti, gli assicurava le simpatie delle crescenti frazioni dei ceti medi italiani che ormai, soprattutto nel ’43, guardavano a quelle grandi nazioni libere come ad ancore di salvezza. Sin dalla fine del ’43, e ancor più nel ’44, si vide, però, che l’intransigenza repubblicana del partito d’azione non era condivisa neppure dagli americani ed era nettamente disapprovata dal governo inglese, presieduto da Churchill, risoluto sostenitore del mantenimento della monarchia italiana. L’avvento dei laburisti nell’estate del ’45, invece di favorire il partito d’azione, favorì, in Italia, persino fra i ceti medi, il partito socialista, come si vide alle elezioni amministrative e politiche del ’46.
    Il partito d’azione si distingueva egualmente per la sua intransigenza antifascista, che lo portava a reclamare una profonda epurazione delle leve di comando dello Stato e della società. Con questa esigenza esso giustificava, del resto, la sua avversione alla monarchia, colpevole d’aver consegnato il potere al fascismo e di averne avallato per vent’anni la dittatura. I ceti medi, nella loro grande maggioranza, erano stati fautori del fascismo; lo erano stati, all’inizio, più d’ogni altro ceto sociale. Non lo erano più, ma non potevano condividere il processo al fascismo, e non, soprattutto, le forme d’epurazione che, su richiesta dei partiti di sinistra, e dello stesso partito d’azione, erano state annunciate ancora sotto il primo governo Bonomi, determinandone la crisi (che portò all’uscita da esso del partito d’azione e del partito socialista) e poi sotto il governo Parri.
    Il partito d’azione fu considerato, inizialmente, così come «Giustizia e Libertà» era stata inizialmente considerata, data la sua tempestiva discesa nel campo dell’organizzazione clandestina e della lotta illegale, come l’alternativa al partito comunista. Via via, con la loro riorganizzazione, quest’alternativa fu rappresentata ugualmente, con più massiccia credibilità, dalla democrazia cristiana, dal partito liberale, dal partito repubblicano, dall’«Uomo qualunque» o dal partito monarchico, e infine, nel periodo in cui Saragat ne era uno degli esponenti più influenti, dal partito socialista medesimo.
    Erano, tutte queste forze, ad eccezione del partito socialista (ma non ad eccezione di Saragat) più sicuramente anticomuniste del partito d’azione, che coi comunisti aveva collaborato strettamente, nel «blocco delle sinistre» dell’ala marciante della Resistenza, nella lotta all’attendismo, nei preparativi all’insurrezione e nella presa del potere da parte dei CLN. Nella fase finale della Resistenza, e col governo Parri, il partito d’azione fu perfino giudicato filo-comunista. Non nel Nord, ma a Roma e nel Sud, dal momento dell’arrivo di Togliatti e del suo ingresso nel governo Badoglio, che il partito d’azione deprecò, i comunisti considerarono, invece, il partito d’azione come un avversario.
    Così, durante il governo Parri, esso si trovò alle prese con l’ostilità sia degli anticomunisti, sia dei comunisti. In realtà, la svolta togliattiana di Salerno aveva segnato la prima sconfitta del partito d’azione, dimostrando che i partiti di massa, se si mettevano d’accordo fra di loro, anche soltanto su obiettivi limitati, potevano farne a meno. Il fatto si ripeté con la caduta di Parri. La sconfitta del partito d’azione preparò, però, la sconfitta della rivoluzione democratica italiana, in tutto fuori che nel mutamento istituzionale, repubblicano, che l’intransigente opposizione del partito d’azione e del partito socialista (e anche del partito repubblicano) alla permanenza della monarchia era riuscito a rendere inderogabile, con la codificazione legislativa (chiesta tassativamente da Ugo La Malfa al momento della liberazione di Roma) della scelta fra monarchia e repubblica. La Malfa cercò la via di una iniziativa democratica di sinistra, non comunista, proponendo alla fine del 1944 al partito socialista di formare uno schieramento di democrazia repubblicana col partito d’azione e col partito repubblicano. Ma Nenni scartò la sua proposta, preferendo il patto d’unità d’azione col partito comunista.
    Rispetto alla democrazia cristiana, il partito d’azione si caratterizzava per la sua laicità. Ma questa caratterizzazione non valeva più rispetto al partito liberale e al partito repubblicano, per non dire dei socialisti, anch’essi laici quanto il partito d’azione, e che godevano, diversamente da esso, di una lunga notorietà storica, prefascista. Non mi sembra, del resto, che la maggior parte dei ceti medi si considerasse laica nel ’45. Dal Concordato del 1929 in avanti, la Chiesa aveva fatto grandi progressi proprio in questi ceti.
    In tutta l’Europa, i movimenti sorti con la Resistenza non hanno retto il confronto elettorale (ad eccezione solo, per qualche tempo, dell’MRP francese, che però laicista non era) coi partiti anteriori alla lotta di liberazione. Il sistema del CLN, dando pari poteri e posti ad ogni partito, all’inizio favoriva il partito d’azione, che certo non poteva contare su un quinto o un sesto dell’elettorato. L’unanimità richiesta nelle decisioni dei CLN finì, tuttavia, col danneggiare proprio il partito d’azione, che era il meno incline ai compromessi. Il partito d’azione per di più si divise fatalmente fra democratici non socialisti e socialisti, risultati maggioritari, quest’ultimi, fra gli iscritti, fra i quali operava, da quell’eccellente, instancabile e devoto organizzatore che era, il liberal-socialista Tristano Codignola, fattosi risolutamente socialista, ma che maggioritari non potevano essere né fra i ceti medi, di cui abbiamo discusso, né fra gli operai ed i contadini, già acquisiti al partito comunista o al partito socialista, qua e là anche al partito repubblicano oppure, se più moderati, alla democrazia cristiana, che di masse ne aveva largamente. Si dovrebbe parlare qui dell’apporto di Emilio Lussu che, con Francesco De Martino, si batté, alla fine con successo, per fare del partito d’azione un partito socialista, il che ne determinò la scissione e la scomparsa. Potrei parlare anche della direzione che il partito d’azione si diede, durante la Resistenza, in Alta Italia, sulla linea tracciata ancora da Carlo Rosselli. Potrei parlare di Riccardo Lombardi, segretario del partito d’azione nel 1946-47. Ma andrei oltre i limiti cronologici assegnatimi. Ne parlerà, forse, De Luna.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  8. #8
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    Predefinito Re: Le matrici politiche del partito d’azione (1984)

    Che cosa rimane dell’eredità del partito d’azione?
    La mancanza di tempo ci impedisce di parlare, ancor più che della scissione del partito d’azione (e prima d’essa del governo Parri) di quel che i suoi dirigenti e militanti recarono nei partiti ai quali aderirono successivamente oppure nei movimenti d’opinione. Abbiamo deciso di non esaminare in questo convegno l’attività del partito d’azione nella Resistenza, poiché ne parleremo, largamente, al termine della ricerca capillare in corso, promossa dall’Istituto Nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, sulle formazioni di «Giustizia e Libertà».
    Mi restringerò al partito d’azione quale esso fu al suo esordio, che è il tema del nostro convegno e specificamente nella mia relazione.
    Il primo dei 7 punti del programma originario del partito d’azione reclamava l’introduzione di una repubblica democratica – e questa è stata conquistata in misura molto importante, seppure non esclusiva, in virtù della lotta duramente condotta dal partito d’azione, in ispecie con Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea nel CLN Centrale e con Vincenzo Calace e Michele Cifarelli nel Congresso di Bari dei partiti antifascisti e nella Giunta centrale che ne scaturì. Nello stesso primo punto si affermava, però, che «il Potere Esecutivo… dovrà godere di autorità e stabilità tali da consentire continuità, efficacia e speditezza di azione, per evitare ogni ritorno a sistemi di crisi parlamentare, risultati fatali ai regimi parlamentari».
    Quest’esigenza mi pare più che mai attuale, oggi. Rimane valida la richiesta, nel terzo punto, di un coordinamento economico nazionale, che La Malfa chiamò poi programmazione, pur nella garanzia che «l’intero organismo produttivo sarà liberato dai vincoli soffocanti della polizia economica e tutelato contro i pericoli della burocrazia» e con la precisazione della necessità di un successivo «coordinamento internazionale dell’attività economica».
    Rimangono egualmente validi il secondo punto, relativo alle autonomie locali, economiche e regionali, e alla loro integrazione nazionale; il quinto punto, relativo alla libertà dei sindacati dei lavoratori, ma altresì alla loro «parte essenziale di collaborazione e di responsabilità nel processo produttivo»; e il sesto punto, sulla separazione del potere civile da quello religioso, nella libertà sia dello Stato sia della Chiesa.
    Il settimo punto che auspica «una federazione europea di liberi paesi democratici nel quadro di una più vasta collaborazione mondiale» è quanto mai significativo.
    Nel 1942 non in tutto, ma su alcuni punti, il partito d’azione anticipava sulla storia. Sempre i rivoluzionari ed i grandi riformatori anticipano sulla storia. Questa è la loro funzione. Mazzini e Cattaneo ce lo ricordano. Romane l’apporto culturale degli intellettuali del partito d’azione. Bastano i loro nomi: Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Luigi Salvatorelli, Piero Calamandrei, Luigi Russo, Mario Vinciguerra, Federico Chabod, Eugenio Montale, Francesco Flora, Francesco e Vittorio Gabrieli, Gino Luzzatto, Lionello e Franco Venturi, Aldo Garosci, Natalia e Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Carlo Levi, Giorgio Bassani, Bruno Zevi, Giovanni Pugliese Carratelli, Guido Dorso, Tommaso e Vittore Fiore, Elena Croce, Ernesto De Martino, Vittorio De Caprariis, Guido Calogero, Ernesto Sestan, Ragghianti, Giorgio Spini, Mario Bracci, Mario Dal Prà, Neri Pozza, Enrico Opocher, Gianni Guaita, Francesco De Martino, Carlo Francovich, Sergio Solmi, Carlo Muscetta, Paolo Alatri, Gianfranco Contini, Giorgio Candeloro, Cesare Gnudi: e chiedo scusa per le involontarie omissioni.
    La mia conclusione è che il viatico durevole del partito d’azione è indicato nello scritto, già citato, su Chi siamo, là dove si afferma che «un’esigenza morale» insopprimibile ha presieduto alla nascita del nuovo partito.
    A questo imperativo morale dobbiamo restare fedeli. La situazione odierna conferma come esso debba avere un alto grado di priorità.

    Leo Valiani
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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