di Elisa Signori – In “Nuova Antologia”, fasc. 2148, ottobre-dicembre 1983, Le Monnier, Firenze, pp. 313-319.
Nella ricostruzione e interpretazione della parabola storica del partito d’azione l’impegno memorialistico dei protagonisti e dei testimoni è lungamente prevalso sui tentativi di analisi critica e organica, condizionando fortemente con la propria carica di personalismo e, talora, con un’attitudine anche involontariamente recriminatoria l’immagine più «vulgata» dell’esperimento azionista. D’altra parte, in assenza di un archivio centrale del partito, la dispersione delle fonti documentarie in un mosaico di fondi privati, raccolti a cura dei singoli militanti, ha finito per suggerire l’identificazione delle vicende del partito con i percorsi politici dei suoi leaders di maggior spicco, contribuendo ad enfatizzare, ben oltre i confini della sua credibilità o efficacia polemica, la rappresentazione corrente del Pd’A quale partito «di generali senza esercito». L’epilogo accelerato dell’azionismo, sopravvissuto di poco al passaggio della lotta armata al riassestamento del paese nella legalità, ha infine pesantemente influenzato la riflessione critica sul tema, forzando spesso il dibattito entro la cornice angusta e fuorviante dell’analisi eziologica di un fallimento politico.
Certo, la scomparsa precoce del Pd’A dallo schieramento politico italiano costituisce un nodo problematico decisivo per la storia del partito e di notevole rilevanza anche per la storia politico-sociale del nostro paese; ma se l’ombra della sconfitta politica del 1946-’47 viene a riverberarsi su tutta quanta la complessa vicenda azionista, il patrimonio di energie progettuali, di intuizioni tattiche, di anticipazioni ideali che caratterizza quell’esperienza rischia di essere condannato a una sbrigativa liquidazione sotto l’etichetta dell’illuminismo astratto e velleitario, in omaggio a un poco condivisibile realismo storiografico che utilizza le categorie di successo/insuccesso come unità di misura per i giudizi di valore. In altre parole, per la storia del Pd’A suona più che mai utile il richiamo metodologico di Luigi Salvatorelli che, di fronte ai bilanci scontati di una storiografia che del passato premia ed esalta la linea vincente, mentre tende a svalutare le alternative sconfitte, invita lo storico a porsi, invece, al bivio tra le diverse scelte ideali e operative immanenti in ciascuna situazione, per esaminarne, senza pregiudizio, la diversa potenzialità e originalità.
La débacle azionista, sotto questo profilo, può costituire non già la salutare lezione dei fatti che esclude dal gioco un’alternativa impossibile, ma piuttosto l’inizio di una fase diversa di quella proposta ideale che, esaurita un’esperienza organizzativa, si trasferisce su altri piani di presenza e di influenza politico-sociale. È questa l’originale conclusione cui approda la prima, completa e persuasiva, storia del partito d’azione, dovuta al vasto impegno di ricerca e di interpretazione di Giovanni De Luna[1].
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[1] GIOVANNI DE LUNA, Storia del partito d’azione. La rivoluzione democratica (1942-1947), Feltrinelli, Milano, 1982.