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    Predefinito Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    Interventi di Giovanni Spadolini, Leo Valiani, Cosimo Ceccuti e testi di Piero Gobetti, Antonio Gramsci e Fernando Schiavetti.


    In “Nuova Antologia”, fasc. 2148, ottobre-dicembre 1983, Le Monnier, Firenze, pp. 5-39.


    1. Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti

    (di Giovanni Spadolini)

    Ne parlavo di recente con Leo Valiani, che non conosce misteri né nella storia del fascismo né nella storia dell’antifascismo. Perché il giudizio di tanti fascisti nei confronti di Mussolini fu inizialmente così temperato e prudente almeno fino al 1924-1925? Perché fu così forte la distinzione fra «mussolinismo» e «fascismo», quasi con la tendenza a contrapporre la temperanza dell’uno all’intemperanza dell’altro? Perché la figura del dittatore non suscitò subito quelle condanne globali e senza appello che la violenza della battaglia di piazza del fascismo, e la stessa crudeltà dell’azione squadristica, avrebbero comandato prima ancora del 3 gennaio 1925?
    Sono interrogativi cui occorre rispondere ormai sul piano esclusivamente storiografico (questo centenario della nascita di Mussolini ha dimostrato come solo la storia ha diritto di essere ascoltata, la propaganda settaria e nostalgica non conti più niente). Leo Valiani ha tentato di farlo anche in questi mesi, nell’introduzione che ha scritto a metà agosto al libro di un nostro collaboratore ed allievo, Cosimo Ceccuti, Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1921-1925) destinato alla collana «Quaderni di storia» della casa editrice Le Monnier, insieme con la seconda edizione accresciuta del classico di Renzo De Felice, Mussolini e Hitler – I rapporti segreti 1922-1933. Di qui l’occasione del nostro ideale dibattito: che comprende, in questa apertura della «Nuova Antologia», le mie riflessioni preliminari sul problema, il testo dell’introduzione di Cosimo Ceccuti alla sua antologia, il testo della prefazione di Leo Valiani – ragione e stimolo di un esame di coscienza della intera storiografia antifascista -, e una scelta di brani più significativi della silloge stessa, e cioè il Mussolini di Piero Gobetti nella edizione originaria del maggio 1922 (poi allargata ma anche attenuata nelle pagine del saggio sulla «Rivoluzione liberale»), l’articolo Il Capo di Antonio Gramsci pubblicato in «L’Ordine nuovo» del 10 marzo 1924 e lo scritto di Fernando Schiavetti, leader dell’antifascismo repubblicano in quegli anni, Il discorso di Minosse, primo in ordine di tempo in quanto commenta, con precoce acutezza, il primo discorso di Mussolini alla Camera il 23 giugno 1921, dopo le elezioni in cui il nascente movimento fascista aveva ricevuto l’avallo del «Blocco nazionale», comprendente le forze liberali dell’Italia prefascista.
    La lettura dei documenti raccolti, con grande obiettività, con assoluto scrupolo, aveva immalinconito Valiani. Ma come, fino al ’25 sono così poche le pagine in cui il «pericolo Mussolini» appare denunciato con autentica chiarezza e coerenza? Facilissimo compilare un’antologia sul fascismo (un fenomeno poligonale che si prestava a mille esegesi, che sfuggiva quasi sempre alle analisi schematiche, che non mancava di una punta pirandelliana: riflesso di un «relativismo» che era stato sottratto a Giuseppe Rensi, pronto a condannare il fascismo nella severità del suo pensiero solitario).
    Difficilissimo e perfino deludente – ne sa qualche cosa il nostro Ceccuti – compilare un’antologia su Mussolini nel pensiero o nel giudizio dei primi antifascisti (più esatto nel giudizio che nel pensiero: perché il pensiero antifascista si muove con una certa lentezza, parte piuttosto dagli esempi intemerati della coscienza morale, un Matteotti, un Gobetti, un Amendola, un Salvemini, che non da una dottrina contrapposta con lo stesso rigore dell’azione fascista, modellata sui ritmi di un pensiero addomesticato, eclettico e cangiante).
    Valiani tende a paragonare il fenomeno Mussolini ai fenomeni dei grandi autocrati contemporanei, al fenomeno Hitler e perfino, pur nella sua peculiarità e complessità, al fenomeno Lenin. Anche nel caso di Hitler pochi si resero conto nei primi anni dello sbocco fatale nello Stato totalitario: il capo del nazismo addirittura arrivò al potere con la scheda.
    E per quanto riguarda Lenin, Valiani appartiene a quel filone di pensiero democratico che vede la rivoluzione d’ottobre contrapposta non tanto allo zarismo sconfitto quanto alla democrazia in fasce della Costituente. La «dittatura di classe» fu l’obiettivo da lui lucidamente e spietatamente perseguitato anche in dissenso con molto bolscevichi. È singolare che lo stesso Valiani tenda a paragonare Trotski a Mussolini. È un paragone suggestivo, che non ricordiamo di aver letto da nessun’altra parte. «Mussolini cinico era – sono parole di Valiani – ma eccelleva ugualmente, al pari di Trotski (di cui non aveva né la dirittura morale né la cultura, né le capacità di organizzatore di un esercito) come giornalista e come oratore, sia davanti alle folle, sia in parlamento. In una democrazia sarebbe stato a suo agio, nel governo o all’opposizione. In dittatura doveva imitare il modello più perfezionato, totalitario».
    Ecco, in due parole, individuata la logica profonda che doveva condurre il fascismo da movimento pragmatico a movimento autoritario, da movimento autoritario a movimento totalitario, fino alla stretta finale col delirio nazista. Per quanto riguarda gli anni compresi nel periodo 1921-1925 ha ben ragione Valiani a sottolineare, a proposito di Salvatorelli, che era difficile individuare gli obiettivi di Mussolini quando il protagonista non li aveva affatto chiari davanti a sé.

    (...)
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    «Nessuno poteva prevedere nel ’21 la dittatura vera e propria, perché Mussolini stesso non ci pensava ancora – solo le parole, appropriate, di Valiani -. Il potere egli lo voleva e sperava di conquistarlo con le buone o con le cattive». Ma: c’è un ma che appare decisivo anche nella riflessione storica di questi mesi. La dittatura coincideva con l’ideologia di Mussolini fin dal periodo del socialismo rivoluzionario, in quanto era l’ideologia di quasi tutta la sinistra socialista internazionale.
    Lo stupore di Pietro Nenni, nella lettera dei primi del ’23 «a sua eccellenza Benito Mussolini» (scritta dal direttore dell’«Avanti!», sbalordito dalle iniziative liberticide del suo ex-compagno di carcere) si spiega solo con la candida e disarmata formazione del vecchio repubblicano, estraneo ai miti sconvolgenti di un certo blanquismo europeo. «Dove si è mai visto – è la domanda di Nenni, ai limiti della ingenuità – fuori che nell’Austria degli Asburgo, questo metodo d’intimidazione personale, che lascia me perfettamente sereno e indifferente, ma che non cessa per questo di essere volgarmente inquisitorio? Voi dovete la Vostra fortuna politica alla libertà di stampa di cui avete usato ed abusato, a Vostro rischio e quindi, con pieno diritto, alla critica cui avete sottoposto uomini e cose. Ebbene, non dico che per questo solo Voi dobbiate garantire agli altri questa libertà: dico che per limitarla, dovete ricorrere a delle leggi e non a delle azioni o a delle intimidazioni personali»[1].
    Ma ci fu un errore più grave di quello di Nenni: fu quello di tutti gli uomini di pensiero e di lotta politica che congiunsero Mussolini con Giolitti, che videro nel capo delle camicie nere un continuatore, su scala più vasta e vorremmo dire pianificata, dell’antica strategia trasformistica. Leggendo, o rileggendo, queste testimonianze degli anni ’21-’25 ci si accorge come tale errore, disarmante le correnti più dure dell’antifascismo, sia stato comune a versanti moderati e a versanti radicali.
    Ci sono repubblicani, quelli intransigenti contro il fascismo, come Fernando Schiavetti, che riscontrano una «vaga somiglianza» fra i «due uomini», Giolitti e Mussolini, dotati ambedue «del gusto della schematizzazione facilona e della riduzione di tutto ai minimi termini»[2]. C’è un’attenuante: siamo nel giugno del ’21.
    Ci sono i collaboratori di «Rivoluzione liberale», come Giovanni Ansaldo, che associano «mussolinismo» e «giolittismo»: il dittatore diventa, agli occhi della borghesia, un «Giolitti giovane», castigamatti anche per il suo partito. Leggiamo insieme queste righe di Ansaldo sulla «furberia» di Mussolini, elemento di distinzione fra «mussolinismo» e «fascismo»: «Il mussolinismo, contrapposto al fascismo, è tutto qui: si radica in questa ‘furberia’ dell’on. Mussolini, e porta il segno della bassezza morale di troppi italiani. Molta gente in Italia fu giolittiana – ecco il parallelo con Giolitti – non perché vedesse nell’on. Giolitti l’uomo di un certo sistema politico: no. Semplicemente perché l’uomo di Stato piemontese era ‘il più furbo’ di tutto il parlamento: e si creava attorno a lui quel mito, quella leggenda di una scaltrezza machiavellica, irresistibili per gli italiani. Ma, ai tempi di Giolitti, v’erano pur dei gruppi di oppositori, di ‘uomini di carattere’, di ‘idealisti’, come amavano chiamarsi, i quali combattevano Giolitti: trovavano, sì, che era furbo: ma deploravano appunto ch’egli corrompesse i partiti, ch’egli governasse senza principii, ch’egli eccellesse nel trasformismo».
    «Ebbene, i militanti di questi gruppi, uomini che hanno oggi quarant’anni – prosegue Ansaldo – sono anch’essi mussoliniani; e se qualcuno muove a Mussolini le critiche che loro stessi muovevano vent’anni prima a Giolitti rispondono che per governare uno Stato bisogna agire esattamente così, cioè corrompere i partiti, governare senza principii, eccellere nel trasformismo».
    «Dove si vede – conclude Ansaldo – ch’essi sentivano mancanza, in Giolitti, non di carattere, ma di retorica: non di principii di governo, ma di arte scenografica. Essi si abbandonano al loro mussolinismo ingenuo, perché hanno finalmente trovato un Giolitti più giovane, che indossa volentieri divise sgargianti, pronuncia alati discorsi, e va a cavallo: dà insomma al loro ‘idealismo’ ciò che Giolitti non fu mai capace di dare»[3].
    Ci sono, ancora, i comunisti, come Togliatti, che non mancano di riunire nella stessa condanna i due uomini, Giolitti e Mussolini, dopo le elezioni dell’aprile ’24, denunciandoli come «manipolatori», sia pure con sottili distinguo. «Non si può negare che, in confronto con i passati governi cosiddetti liberali e democratici il fascismo ha di molto perfezionata l’arte di crearsi una base di questo genere. Non ha però profondamente mutato sistema»: è il duro commento di Togliatti sull’«Unità», il 12 aprile 1924. E il leader comunista aggiunge: «Giolitti, se mai, era un empirico, mentre Mussolini è uno scientifico. Per l’uno l’Italia meridionale incominciava a Gioia del Colle, per l’altro l’Italia meridionale incomincia, oggi, a Molinella e a Bologna, incomincerà, domani, dai sobborghi di Milano. Tanto per l’uno quanto per l’altro, la sistematica violenta soppressione della libertà di voto è preceduta da una sistematica azione di corruzione di capi politici e di esponenti regionali, di disgregazione di gruppi intermedi, di creazione di un blocco di profittatori della corruzione e della violenza organizzate»[4].
    Di Salvemini non occorre parlare.
    La consanguineità Mussolini-Giolitti è un errore che non compirà Gramsci. Al direttore dell’«Ordine nuovo» non sfuggirà la novità del «capo» che il fascismo aveva mutuato dalla sinistra socialista e dai movimenti comunisti: «capo» che era inseparabile nella versione gramsciana dalla dittatura del proletariato (si ricordi il famoso articolo del 10 marzo 1924 sull’«Ordine nuovo»). Sennonché Mussolini – erano le conclusioni di Gramsci – non poté essere il capo del proletariato e «divenne perciò il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica».
    Il quesito di Gramsci era un quesito di fondo: è possibile, si chiedeva il leader comunista, che esistano «capi» al di fuori della classe operaia, capi non marxisti, «i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano?». La sua risposta è negativa. Mussolini, certo, in Italia domina con la sua potenza e prepotenza. È una figura «impressionante», «con quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano con la loro ferocia meccanica far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato», ma non un capo: come non lo fu nel ’14, militando su opposta sponda, nel corso della Settimana Rossa. Coraggioso come individuo, pronto a sfidare i moschetti dei carabinieri, non riuscì neppure allora ad essere capo, «perché non era tale».
    «Egli era allora, come oggi – conclude Gramsci -, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti»[5].

    (...)


    [1] Fra l’arbitrio e la legge. Lettera aperta a S. E. Mussolini, «Avanti!», 7-8 gennaio 1923. Dopo un pesante richiamo della questura milanese al direttore del quotidiano socialista.

    [2] «Udendo parlare Mussolini – scrive Schiavetti – mi tornava alla mente il ricordo della Tournure semplice e ingenua dei discorsi di Enrico Malatesta: discorsi di propaganda del resto efficacissimi e senza alcuna pretesa. ‘Noi anarchici pensiamo così e così: i socialisti hanno questi meriti e queste colpe, i repubblicani questi altri meriti e queste altre colpe’. Il pubblico applaude e se ne va via contento, persuasissimo di aver toccato con mano i più nascosti ressorts della lotta politica. Non altrimenti la turba parlamentare ride ed approva quando l’on. Giolitti con quel suo fare onesto e lieto di sapiente illusionista pretende di mostrare con poche e sagaci parole che qualche untuosa frittata politica apparentemente sbattuta nel suo cappello a larghe falde non è mai esistita e non ha macchiato nessuno. E anche questa è una vaga simiglianza da notare: Giolitti e Mussolini, due uomini ad un primo esame tanto lontani, hanno ambedue il gusto della schematizzazione facilona e della riduzione di tutto ai minimi termini, accompagnate, l’una e l’altra, dal leggero bagliore di qualche felice boutade». Cfr. Il discorso di Minosse, «La Voce repubblicana», 23 giugno 1921.

    [3] Cfr. Mussolinismo, «Rivoluzione liberale», 13 novembre 1923.

    [4] Prime considerazioni, «L’Unità», 12 aprile 1924.

    [5] Capo, «L’Ordine nuovo», 10 marzo 1924.
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    Fu nelle pagine della «Giustizia», un periodico di sinistra, che si rese in qualche modo omaggio a Giolitti, nel novembre del ’24. «Scotino», dalle colonne del giornale, fissava in un certo modo le distanze fra i due uomini politici. «Giolittismo? – si chiedeva a proposito del metodo di governo di Mussolini – Ah, no! Giolitti è un’opera d’arte nell’unità del suo sistema, un fenomeno di stile risultante dalla piena concordanza delle parti, un’arte così sottile che essa sembra quasi naturale, un insieme compatto nel quale non si rivela la benché minima incrinatura. E solo in questa sua eguaglianza di simmetria si rinviene il segreto della durata del sistema». Ma Mussolini non ha coerenza, non ha continuità di linea politica, sbanda e oscilla a seconda delle circostanze. «È antigiolittiano all’ultimo grado un mutamento stagionale di avvedimento politico governato da leggi che si suppone siano imposte dal calendario: martedì, gnocchi; mercoledì, trippa… Cotesto è Mussolini, ma non è punto Giolitti»[1].
    È tuttavia Piero Gobetti lo scrittore che meglio intuì la vera natura di Mussolini e che perciò il presidente-dittatore combatté con maggiore asprezza. Il 28 maggio 1922 – a cinque mesi dalla marcia su Roma – Gobetti scriverà su «Rivoluzione liberale»: «Non riesco a immaginare Mussolini altrimenti che sotto le spoglie del più audace e torbido condottiero di compagnie di ventura». C’era in quella pagina un termine che richiamava certi momenti di storia della Romagna cinquecentesca: «un signorotto incompiuto».
    Gobetti oscilla fra il capo di una compagnia di ventura (con la variante peggiorativa del «capo punitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore che non consenta riflessioni») e il capo di una Compagnia di Gesù, modellata sugli schemi di durezza e di asprezza ancora rinascimentali, per non dire controriformisti. «Avrebbe potuto riuscire – sono parole, rivelatrici, di Gobetti – il duce di una Compagnia di Gesù, l’arma di un Pontefice persecutore di eretici, e con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare ‘a suon di randellate’ nei ‘crani refrattari’. Gli articoli del ‘Popolo d’Italia’ sono così: ripetizioni di un ordine, dogmi e spesso stereotipie di un monotono disegno: letterariamente hanno qualcosa di militare e molto del catechismo – anche qui si deduce l’opera del boia (o la pugnalata) dalle verità assolute, trascendenti, e cristallizzate. Infatti i tre momenti centrali della vita di Mussolini hanno coinciso con tre momenti risolutivi, entusiastici, dogmatici della storia italiana: il messianismo socialista, l’apocalisse antitedesca, la palingenesi fascista: chi vorrà essere così ottuso da ricercare in questi episodi uno sviluppo, e delle ragioni ideali di progresso?»[2]. E Gobetti non manca di un singolare balenio di intuizione moderna allorché lega, a tali componenti antiche e vorrei dire ancestrali, un elemento nuovo: «si tratta di un fenomeno di psicologia del successo».
    Due anni dopo il giudizio era temperato e riscritto da Gobetti nelle pagine del saggio sulla «Rivoluzione liberale» ma persisteva l’inquadramento del tutto nello schema delle lotte rinascimentali (cui si era richiamato anche Ippolito Taine per la definizione di Bonaparte). L’innesto fra la tecnica delle compagnie di ventura e talune ideologie socialiste-rivoluzionarie produrrà in effetti il fascismo. Non più il «super-Giolitti», come lo aveva definito lo stesso Gobetti in un momento di eccesso polemico, ma piuttosto il «signorotto incompiuto», che si accingeva a ripetere la tragica parabola di Cola di Rienzo.

    (...)


    [1] Stile e psicologia, «La Giustizia», 12 novembre 1924.

    [2] Mussolini, «Rivoluzione liberale», 28 maggio 1922 e 23 novembre 1922.
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    2. Lenin, Hitler e Mussolini: tre vie alla dittatura

    (di Leo Valiani)


    Il lavoro, che qui presentiamo, di Cosimo Ceccuti, inserito nella collana «Quaderni di storia» dell’editore Le Monnier diretta e ordinata dall’amico Giovanni Spadolini, è di grande interesse e di grande utilità. Naturalmente, i testi che egli ha scelto vanno letti con l’occhio volto non a quel che sappiamo oggi, ma a quel che si sapeva quando furono redatti. È difficile capire il significato degli eventi mentre sono in pieno svolgimento. Lenin e Hitler i loro programmi li avevano chiaramente esposti nei libri che scrissero parecchi anni prima di giungere al potere. Avevano anche forgiato i loro strumenti di azione e di dominazione, il partito bolscevico e il partito nazionalsocialista. Tuttavia, le forze politiche alle quali Lenin e Hitler intendevano riservare il trattamento che poi inflissero loro effettivamente dopo l’instaurazione delle rispettive dittature, sottovalutarono, nei momenti decisivi, i pericoli mortali che correvano.
    La sottovalutazione è molto più spiegabile nel caso di Lenin, che non aveva precedenti, se non nel lontano 1793. Il marxismo, di cui Lenin si proclamava interprete ortodosso, aveva realmente una doppia natura. Per un verso era l’espressione di un grande movimento democratico internazionale: democratico nei suoi fini di libertà politica ed intellettuale, di eguaglianza economica e sociale nei mezzi, di organizzazione sindacale e di partecipazione alle elezioni e all’attività parlamentare, o comunale, di cui si serviva. Per un altro verso, Marx stesso credeva che nei paesi del vecchio continente (faceva eccezione per gli Stati Uniti e per la Gran Bretagna, che giudicava acquisiti per sempre ad un sistema di libertà politiche) la lotta per il potere sarebbe sboccata necessariamente in soluzioni di forza, tendenzialmente dittatoriali.
    La dittatura del proletariato, che vagheggiava, avrebbe dovuto essere transitoria, ma anche quella dei giacobini aveva avuto tale finalità: a differenza di questa, avrebbe dovuto poggiare sul consenso attivo della classe operaia. Non perciò avrebbe potuto evitare di essere duramente repressiva nei confronti di tutte le forze che l’avessero ostacolata.
    Nella Russia autocratica dello zarismo il secondo aspetto, quello rivoluzionario e in prospettiva dittatoriale del marxismo (Lenin, fino alla guerra 1914, prevedeva una dittatura degli operai e dei contadini in una rivoluzione democratico-borghese, non ancora socialista) era ovviamente più agevole della continua crescita parlamentare e sindacale che caratterizzava la socialdemocrazia marxista tedesca e gli altri partiti socialisti europei.
    La rivoluzione che, a seguito della sconfitta militare, scoppiò in Russia al principio del 1917, travolgendo spontaneamente lo zarismo, portò, però, all’instaurazione di una democrazia repubblicana che, a detta dello stesso Lenin, era la più avanzata, per i diritti di libertà che introduceva, fra quante ve ne fossero al mondo.
    Tornato in patria, Lenin proclamò ciò nonostante, in polemica con buona parte degli stessi bolscevichi che non ritenevano opportuno troncare l’esperimento democratico, che il proletariato russo doveva imporre la propria dittatura di classe. Quel che il capo del bolscevismo reclamava più specificamente – l’immediata conclusione della pace, la rapida spartizione delle proprietà terriere aristocratiche, nobiliari o capitalistiche fra i contadini, il controllo operaio sulle fabbriche, la sollecita tenuta delle elezioni all’Assemblea Costituente – avrebbe potuto essere compatibile con la democrazia rivoluzionaria. L’incapacità dei democratici di decidersi per l’attuazione senza indugi di queste che erano, di fatto – soprattutto le prime due -, rivendicazioni profondamente sentite dalle grandi masse, e la debolezza del capo del governo provvisorio democratico, Kerenski, fecero il giuoco di Lenin, colpito da mandato di cattura e rifugiatosi nella Finlandia diventata indipendente, ma il cui partito poteva continuare ad operare legalmente e illegalmente, confondendo le idee degli altri partiti socialisti.
    Nel caso di Hitler i precedenti c’erano. L’imperialismo annessionistico, pangermanista e militarista, aveva contribuito, politicamente e militarmente, a mettere gran parte del mondo, dall’impero britannico agli Stati Uniti, contro la Germania, nella prima guerra mondiale, determinandone la sconfitta, malgrado il valore dei suoi ufficiali e soldati. Un colpo di forza dittatoriale, ancorché miseramente fallito, Hitler l’aveva già tentato in Baviera nel 1923. Fu condannato a qualche anno di carcere, in un processo nel corso del quale rivendicò tutte le sue idee, ma poco dopo il resto della pena gli venne condonato.
    La dittatura bolscevica s’era già fatta totalitaria e Mussolini aveva già soppresso tutti i partiti diversi da quello fascista, e tutti i giornali liberi, inviando gli oppositori in carcere, al confino o costringendoli all’esilio, prima che, nel 1929, il partito di Hitler cogliesse i suoi incipienti successi elettorali, moltiplicati poi nel 1930 e ampliatasi a dismisura nel biennio successivo. Hitler era ancora cittadino austriaco. Lo si sarebbe persino potuto espellere dalla Germania. Invece lo si lasciò fare.
    Le squadre d’assalto naziste sfilavano minacciosamente, in masse compatte ed aggredivano con la violenza gli avversari. Ma quando nel 1932, il cancelliere Brüning, del Centro cattolico, il cui governo si reggeva sull’appoggio esterno dei deputati socialdemocratici, volle sciogliere le squadre hitleriane, il presidente della repubblica, il vecchio feldmaresciallo Hindenburg, lo licenziò bruscamente, e il decreto di scioglimento fu revocato, senza che ciò inducesse all’unione e alla difesa della democrazia di tutti coloro che avrebbero avuto gravi motivi di temere l’avvento del nazionalsocialismo al potere.
    Si suole dare, giustamente, la colpa delle divisione del movimento operaio in Germania alla politica suicida imposta da Stalin al partito comunista tedesco, con l’identificazione del nemico principale nella socialdemocrazia e non nel nazismo. Ma l’alleanza fra socialdemocratici e comunisti non sarebbe stata bastevole per assicurare alla repubblica di Weimar un governo democratico.
    A tal fine il concorso del Centro cattolico sarebbe stato indispensabile. L’eventualità di un’alleanza fra comunisti e Centro cattolico era invece esclusa, a priori, sia da questi ultimi, sia dagli stessi comunisti espulsi dal partito per il loro antistalinismo, a nome dei quali il celebre compagno di Lenin, l’esule Trotski, denunciava con rara lucidità il pericolo rappresentato da Hitler e proponeva l’unità d’azione antinazista fra comunisti e socialdemocratici, ma sempre nei limiti di una politica operaia di classe, alla quale i partiti «borghesi» non potevano certo accedere.
    Da parte loro, i capi socialdemocratici tedeschi, che pure avevano creato un’organizzazione paramilitare di massa contro l’eventualità di un colpo di stato monarchico, ripetevano continuamente che «la socialdemocrazia non abbandonerà per prima il terreno della Costituzione». Come seconda non ebbe più il tempo di abbandonarlo. Non appena Hitler (poche settimane dopo la sua ascesa a capo del governo) l’abbandonò per primo, spedì tutti gli oppositori, a cominciare dai comunisti e dai socialdemocratici, ma poi anche gli altri, in campi di concentramento. E dire che l’ultimo cancelliere, prima di Hitler, il generale von Schleicher, aveva sondato la socialdemocrazia in vista di un appoggio al suo precario governo, ma ne aveva avuto un rifiuto, perché i socialdemocratici non si fidavano del generale che era stato, da reazionario, loro nemico fino a qualche mese prima.
    Ancora il mattino del 30 gennaio 1933 i capi dell’esercito tedesco si riunirono segretamente per discutere sull’opportunità o meno di arrestare quel «pazzo» di Hitler. Era già troppo tardi. In quelle stesse ore Hindenburg, che aveva sempre detto di non voler chiamare al governo il «caporale austriaco» Hitler, gli consegnò le redini. I generali obbedirono, con maggiore o minore entusiasmo, e nel 1944 finirono sulle forche fatte erigere da Hitler.
    Lenin (per non dire Stalin) e Hitler andarono al potere col sostegno appassionato di larghe masse. I bolscevichi, alle elezioni dell’Assemblea Costituente, svoltesi poco dopo che essi si erano impadroniti, con l’insurrezione, del potere, riportarono il 25% circa dei voti. Erano, viceversa, in maggioranza nei Consigli di operai e di soldati, che costituivano la forza dominante nella Russia rivoluzionaria. Il partito nazionalsocialista tedesco riscosse il 37% dei voti nelle elezioni generali dell’estate 1932. In quelle del successivo novembre, perse parecchi voti, pur restando il partito di maggioranza relativa, in una situazione in cui gli altri partiti erano incapaci di coalizzarsi.

    (...)
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    Ed il fascismo italiano? Alle elezioni generali del giugno 1921, a prescindere dall’episodio milanese del 1919, le sole elezioni libere alle quali abbiano partecipato (e che furono tutto sommato ancora libere, benché già funestate da violenze squadristiche che, per esempio, a Reggio Emilia costrinsero i socialisti a rinunciare alla presentazione di loro candidati) i fascisti eletti furono 35, su un totale di circa 500 deputati. La loro elezione fu favorita dall’essere stati inclusi nel blocco nazionale governativo, imperniato sui liberali di varie tendenze che speravano di conquistare in tal modo la maggioranza assoluta perduta nel ’19 nei confronti del partito socialista e del partito popolare di don Sturzo sommati insieme; i quali però, politicamente, erano su posizioni fra di loro opposte, in apparenza inconciliabili.
    Nel corso del 1921, le squadre fasciste devastarono con la violenza armata, tollerata dalla polizia e dalla magistratura, e aiutata da alcuni comandi dell’esercito, tutte le sedi delle organizzazioni operaie di classe, politiche e sindacali, manganellarono ed umiliarono (e spesso costrinsero alla latitanza) gli organizzatori operai comunisti e socialisti, per volgersi poi contro i repubblicani e i popolari ed infine contro gli esponenti politici dell’antifascismo democratico-liberale. Proprio questa violenta illegalità impunita diede al fascismo un seguito di massa ancor più vasto di quello che il sentimento nazionalista avrebbe fatto, comunque, riversare su di esso.
    Il più tempestivo, chiaroveggente, tenace e coraggioso degli oppositori, Giacomo Matteotti, che per primo, e quasi da solo, aveva chiesto, già ai primi del 1921, che le squadre fasciste fossero incriminate come associazioni a delinquere, scrisse a metà del ’23 a Filippo Turati che il partito socialista si era screditato nel biennio rosso per l’eccesso delle rivendicazioni di categoria e degli scioperi, specie nei servizi pubblici, che aveva eccitato o patrocinato. Avrebbe potuto aggiungere, come Mussolini non mancò di ricordare, alla Camera dei deputati, nel ’21 a Turati (in un dibattito riportato in questo volume) che il partito socialista aveva esaltato (invero contro il parere dello stesso Turati) la conquista violenta del potere, attuata in Russia dai bolscevichi, coi quali la maggioranza massimalista dei socialisti italiani si era identificata fino alla scissione di Livorno. La possibilità di una rivoluzione di stampo bolscevico in Italia era stata sopravvalutata da quasi tutti, nel 1919-20, benché non da Salvemini, come appare da una sua lettera qui ristampata. Per lo stesso motivo il fascismo, che si presentava come difesa dal bolscevismo, fu sottovalutato da quasi tutti – e perfino da Salvemini – nel 1921-22. Da quasi tutti. Non da Luigi Salvatorelli, però, di cui il volume di Cosimo Ceccuti riproduce uno scritto quanto mai acuto e significativo. Lo stesso Salvatorelli non poteva pensare, però, nel ’21, quando scrisse i suoi primi celebri articoli sul nazionalfascismo, che Mussolini, una volta giunto al governo, avrebbe instaurato una dittatura vera e propria.
    Non poteva prevederlo, perché Mussolini stesso non ci pensava ancora. Il potere egli lo voleva, e sperava di conquistarlo con le buone o con le cattive. La sua prospettiva, per altro, era all’inizio un governo parlamentare, autoritario per certo, ma al quale una maggioranza parlamentare (di fascisti e liberali, oppure di fascisti, socialisti e popolari, i tre partiti che egli chiamava di massa) conferisse i poteri occorrenti.
    Non è neppure sicuro se al momento della marcia su Roma Mussolini mirasse già all’imposizione di una dittatura vera e propria. L’anno prima sembra difficile che potesse crederci come a un’eventualità prossima. La dittatura era invero nell’ideologia di Mussolini, fin dal periodo del suo socialismo rivoluzionario. Essa era nell’ideologia di quasi tutta la sinistra socialista internazionale. Ma, tolti Lenin e pochi altri, si trattava di un’ideologia, la cui traduzione in pratica veniva tacitamente rimandata alle calende greche. Alle barricate, come simbolo della rivoluzione, molti socialisti e anarchici italiani (e anche qualche repubblicano) inneggiavano rumorosamente, in ispecie nelle Romagne, delle quali Mussolini era figlio, ma l’ipotesi della dittatura non se la ponevano seriamente. Qualora se la fossero posta, i più l’avrebbero scartata, per la loro stessa mentalità libertaria.
    Le cose cambiarono con la guerra europea. Benedetto Croce notò esattamente, all’inizio della dittatura fascista, che Mussolini aveva potuto sconfiggere facilmente i socialisti, non molto tempo dopo essere uscito dal loro partito, perché i capi socialisti riformisti o massimalisti che fossero, imbevuti di un evoluzionismo deterministico, che li portava a una passività fatalistica, davanti alle violente novità della guerra, non le comprendevano. Non capivano, essi, il fortissimo volontarismo politico, l’attivismo senza remore, preesistente alla guerra e potenziato da questa, che Mussolini incarnava, ma che si diffondeva anche fra moltissimi altri della sua generazione.
    Era un giudizio, questo, che colpiva nel segno e che, del resto, troviamo formulato, prima ancora che dal grande filosofo, da un giornalista politico, certo di straordinario talento, quale Pietro Nenni era allora. Nenni naturalmente conosceva da vicino Mussolini. Croce lo guardava da lontano. Nonostante la profondità di questa sua osservazione, anche Croce aveva sbagliato poco prima, plaudendo a Mussolini, come a un potenziale restauratore del liberalismo minacciato dalla demagogia. Si riscattò all’errore, più che degnamente, dopo che la condotta dittatoriale di Mussolini era diventata evidente.

    (...)
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    A prescindere del breve periodo (1919-22) in cui gli conveniva procurarsi l’appoggio e almeno la tolleranza dei liberali e che lo vide fautore altresì del più spinto liberalismo economico, Mussolini sia da socialista barricadiero, sia da fascista, nel liberalismo scorgeva l’ideologia che istintivamente avversava. Lo Stato, ad egemonia socialrivoluzionaria o ad egemonia fascista, che andava bene per lui, era uno Stato di parte, non lo Stato di diritto, superiore alle parti, in cui tutti sono liberi, nei limiti della legge eguale per tutti.
    Poteva governare, come nel 1923, senza giungere alla dittatura, a condizione di avere un parlamento docile e una milizia armata di parte. Le contraddizioni di un governo del genere, intrinsecamente illiberale, esplosero nel giugno 1924, con l’assassinio di Matteotti, ordinato da un fedelissimo di Mussolini, Marinelli, segretario amministrativo del partito fascista, ed eseguito da squadristi che erano alle dirette dipendenza del capo del governo e ministro degli Interni.
    Il passaporto insanguinato di Matteotti fu consegnato il 12 giugno a Mussolini, che ancora lo stesso giorno ebbe l’impudenza di dichiarare alla Camera che si cercavano tracce di Matteotti a tutte le frontiere, poiché il deputato socialista aveva chiesto e ottenuto il passaporto per l’estero.
    La tattica delle opposizioni che, invece di continuare a dar battaglia nell’aula parlamentare, o di organizzare la ribellione nel paese, si ritirarono sull’Aventino, nella speranza che il re licenziasse il capo del governo, era sicuramente controproducente. E Giovanni Amendola, che dell’Aventino fu il capo più autorevole e intransigente, ne porta la responsabilità primaria. Amendola, che sarà poi manganellato a morte dagli squadristi, non sbagliava tuttavia nel proclamare che alle brutali illegalità fascista bisognava opporre una questione morale. Sin dalla vigilia della marcia su Roma, Amendola aveva precisato, in un testo incluso in questo volume, che lo Stato democratico liberale, lo Stato di diritto e lo squadrismo, la violenza di parte erano inconciliabili.
    In questo fu preveggente e il dilemma che pose allora è pienamente valido anche oggi.
    La questione morale non bastava a rovesciare il fascismo. I profeti disarmati perirono, aveva già scritto, secoli prima, il segretario fiorentino. Le armi le aveva Mussolini, sia quelle della sua milizia, sia quelle dell’esercito e della polizia giacché il sovrano, capo dello Stato, gli serbava la sua fiducia. Ci voleva una lunga lotta per preparare il cambiamento dei rapporti di forze.
    Possiamo leggere qui gli scritti di Piero Gobetti, Carlo Rosselli, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, che inaugurarono la lotta senza quartiere alla dittatura. I primi due caddero sotto i manganelli o i pugnali fascisti. Gli altri due saranno nelle prime file della Resistenza.
    Nel 1921, l’anno dal quale prende le mosse questa raccolta di testi, forse più di polemica antifascista che di pensiero antifascista (il pensiero ha bisogno di distacco e di maturazione) Mussolini era già sulla cresta dell’onda, e nel ’25, l’anno col quale il volume si chiude, aveva già vinto. La sua vittoria, il regime che forgiò per un ventennio, erano dovuti a circostanze storiche obiettive, ma anche alle sue innegabili grosse doti di capo politico, eccezionalmente tempista, trascinatore di grandi masse, abilissimo nella propaganda, nella polemica, nell’azione. Hitler pure aveva queste doti, e gli avversari che gliele negavano sbagliavano, così come sbagliavano quegli avversari (non tutti) di Mussolini, che gliele negavano.
    A differenza di Hitler, Mussolini, che si dichiarava militarista e guerriero, alla maniera dei condottieri e degli imperatori di Roma antica, convinto che la guerra stessa all’uomo come la maternità alla donna, non si intendeva di arte militare e pur volendo essere ministro di tutte le forze armate non sapeva far nulla per creare un esercito moderno capace di combattere sul serio. Certo, non aveva a disposizione, in Italia, generali e soldati, e industrie belliche paragonabili a quanto la Germania poteva offrire, ma ciò aggrava soltanto le sue colpe per aver gettato il paese nella seconda guerra mondiale, dalla quale uscì stritolato.
    Ciò non avvenne per caso. L’esaltazione della violenza – teorizzata da Sorel, uno dei suoi autori, come gli rammentò Croce, ma che seppe fermarsi, quando la vide in atto nel 1914 -, era nella natura di Mussolini, dal tempo del suo esordio giovanile. La prassi della violenza l’aveva fatto vincere in Italia stessa, in Etiopia, in Spagna. Le prime strepitose vittorie della Germania hitleriana fecero poi perdere il senso del limite al duce dell’Italia fascista.
    La sua tragedia, pur nella diversità degli ideali, non è del tutto dissimile da quella che un grande diplomatico antifascista, Carlo Sforza, vedeva impersonificata da Trotski. Attorno al 1930, dopo che Stalin aveva inviato in esilio Trotski (che finì poi per far assassinare) Sforza notava che costui, grandissimo oratore, giornalista e scrittore, avrebbe facilmente sconfitto il suo rivale in quella democrazia parlamentare che, invece, aveva incautamente contribuito a distruggere. In una dittatura prevalgono, viceversa, le attitudini all’intrigo, all’organizzazione occulta, alla crudeltà, al cinismo, alla manipolazione delle menti, che Stalin possedeva in massimo grado.
    Mussolini cinico era, ma eccelleva ugualmente, al pari di Trotski (di cui non aveva per altro, né la dirittura morale e la cultura, né la capacità di organizzatore di un esercito) come giornalista e come oratore, sia davanti alle folle, sia in parlamento. In una democrazia sarebbe stato a suo agio, al governo o all’opposizione. In dittatura doveva perseguire o imitare il modello più perfezionato, totalitario. Il suo temperamento avventuroso - «avventuriero fortunato» lo chiamò Claudio Treves che ne diffidava profondamente sin da quando lo aveva conosciuto nel partito socialista -, lo riportava all’estremismo, in contrasto con lo stesso forte realismo che per qualche tempo lo aveva aiutato.
    Gli antifascisti, riconosciamolo, lo sottovalutarono più o meno a lungo. Seppero tuttavia imparare dall’esperienza e, a partire da questa o quella data, combatterlo fino in fondo, fino alla liberazione.

    (...)
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    3. Il perché di una raccolta: fascismo e mussolinismo

    (di Cosimo Ceccuti)

    Mussolini nel giudizio degli antifascisti, nella fase di ascesa e di consolidamento del potere. Nessuna pretesa, da parte di chi ha individuato e riunito questi testi, di offrire un panorama completo su come Mussolini sia stato giudicato dai suoi oppositori, fra 1921 e 1925, spazio temporale che segna i limiti non valicati né valicabili di questa ricerca. Semplice «antologia», cioè scelta di brani, di pensieri, perfino di stati d’animo nei confronti del duce del fascismo, spigolando fra gli epistolari, fra i resoconti dei dibattiti parlamentari, nella stampa quotidiana e periodica, fra le rare biografie e profili pubblicati o scritti in quel quadriennio che va dalla marcia su Roma al tragico superamento della crisi del dopo-Matteotti e quindi alla stretta autoritaria del regime, sanzionata dal secondo colpo di stato, quello del 3 gennaio 1925.
    Non è Mussolini rivisitato nella genesi e nell’affermazione del «mito», quale appare dal volume ricco e documentati di De Felice e Goglia, edito recentemente dal Laterza[1].
    Non Mussolini visto dai contemporanei, in senso lato, quale affiora dalla prefiguratrice antologia di Enrico Ghidetti (Mussolini nascita di un dittatore)[2], che muove dalla «prima infanzia» in avanti ed accoglie voci «mussoliniane» non meno numerose di quelle «antimussoliniane». E si noti come certi giudizi espressi da figure respiranti atmosfera fascista, o comunque non militanti nell’antifascismo, abbiano colto con vivacità di penetrazione e di incidenze immediate taluni caratteri peculiari del personaggio, su cui si realizzerà una communis opinio.
    Ho davanti agli occhi un testo rimasto a lungo inedito di Ugo Ojetti, che io stesso ho pubblicato alcuni anni fa in un’antologia dedicata al giornalista scrittore del «Corriere della Sera», Ugo Ojetti: immagini nelle parole[3]. Si tratta di un articolo, Notizie sul fascismo, inviato alla «Nación» di Buenos Aires nel marzo 1923 «forse non pubblicato» come sta scritto sulla busta che accoglie il manoscritto[4].
    Ugo Ojetti non ebbe mai autentica fede nel fascismo, almeno come movimento, coi trasalimenti e i tratti rivoluzionari delle origini. Fu fascista di comodo e di convenienza, con convinzioni assai tiepide specie in quegli anni nonostante il compiacimento con cui, borghese-benestante, riceverà e gradirà i numerosi benefici specie economici che dal nascente regime gli deriveranno. Opportunista, più che fascista, Ojetti tracciava in quelle pagine della primavera 1923, a cinque mesi dalla marcia su Roma, un profilo di Mussolini giornalista, polemista, combattente accanito, che merita di essere riletto. Nella ricerca delle cause che avevano consentito l’avvento del fascismo al potere.
    «Benito Mussolini, buon oratore e buon giornalista – annota Ojetti in quelle pagine -, sa che per conquistare e tenere il pubblico bisogna offrirgli delle immagini chiare e dei simboli tangibili e che le idee, anche quella di Dio, per essere capite ed amate, hanno bisogno di assumere un corpo».
    «Benito Mussolini mostrava d’avere le doti più necessarie in un capo, prima di tutte, pagare di persona e non disperare mai», scriveva più avanti l’acuto giornalista, che in qualche modo aveva condiviso la parabola politica mussoliniana, muovendo da posizioni socialiste alla fine del secolo, per spostarsi poi su posizioni conservatrici, passando attraverso il «delirio interventista». Questo ottimismo era allora ed è adesso una qualità rara negli uomini politici italiani. I tempi, non solo in Italia, difficilissimi e tristissimi potevano giustificare i lamenti più desolati e le profezie più fosche. Ma i popoli non hanno mai seguito chi è venuto ad annunciar loro che la fine del mondo è imminente. I predicatori che nel medioevo gridavano nelle piazze questi atroci annunci, almeno promettevano che morire significava rivivere subito nella piena ed eterna felicità del paradiso.
    «Mussolini, uomo pratico anche se credente, ha sempre promesso un poco di felicità, o almeno la pace sociale, il pareggio di bilancio, la fine della disoccupazione, la sicurezza di un lavoro continuo e proficuo. Per lui muore solo chi vuol morire; chi vuol salvarsi, si salva. Ma bisogna volerlo, con serietà, continuità ed energia: insomma con tutte le forze. Non è detto che quelli che oggi lo applaudono siano tutti capaci di tante forze e di tante volontà. Ma il fatto si è che egli ha ridato agl’italiani la speranza anche avanti di ridar loro la fede. E questo è stato il vincolo che ha stretto intorno a lui, prima di tutto i reduci della guerra ed i giovani e poi ha voltato in suo favore la moltitudine dei lavoratori».
    E il carattere impulsivo e violento dell’uomo? Ojetti spiega: «Un altro carattere di Benito Mussolini è quello di sembrare un impulsivo. Non lo è. Quest’apparenza gli è venuta dalla sua abitudine e dal suo metodo di polemista, vorrei dire di schermidore che per difendersi attacca. Per anni lo si era veduto dal suo giornale, in ogni polemica ridurre la difesa sua e delle sue idee e del partito a poche righe, e poi correre all’assalto. Torto o ragione, la prima regola è attaccare. Ridotto l’avversario, come si suol dire, in fin di vita, Mussolini è pronto a discutere pacatamente con lui. Dello Stato fascista ha dato appunto questa definizione per opporlo allo Stato liberale: ‘Lo Stato liberale si difende. Noi si attacca’. Definiva se stesso, non il solo Stato fascista».
    È un giudizio lapidario, che pochi antifascisti avrebbero contraddetto. Ojetti va oltre: «Talvolta può sembrare che vi sia sproporzione tra l’impeto dell’assalto e l’avversario da sgominare, e che Mussolini non faccia differenza tra il consenso forzato e il consento libero, il quale è il solo durevole. Ma, ripeto, in realtà egli non è impulsivo. Più spesso delibera esserlo, anche perché sente che solo così mantiene i suoi fedeli in guardia contro i pericoli palesi e nascosti. Credere che un pericolo di dieci sia di cento val meglio d’illudersi che un pericolo di cento sia solo di dieci. Inoltre egli sa per esperienza due cose: che di queste pronte dimostrazioni di forza i suoi predecessori s’erano mostrati da molti anni incapaci, e vuole che il paese senta la novità e si convinca che questa novità è durevole; che prevenire val meglio di reprimere, e alzando la voce al momento buono si può fare a meno di dovere, un’ora dopo o un mese dopo, alzare la mano».
    «Egli sente – conclude Ojetti – che il maggior pericolo nel suo governo e anche per l’Italia è l’attesa del miracolo. La giovinezza di lui, la prontezza della rivoluzione, i consensi che l’hanno subito circondata e rafforzata, la novità e freschezza e rudezza del suo parlare, lo stesso impeto di speranze con cui egli ha risollevato l’Italia, inducono troppa gente a credere che Benito Mussolini possa, per amore o per forza, mutare in pochi mesi la dura realtà. Molti suoi avversari e nemici hanno così trovato che per ora il più sicuro modo di combattere Mussolini è appunto quello di applaudirlo».

    (...)


    [1] R. DE FELICE e L. GOGLIA, Mussolini. Il mito, Bari, 1983. Oltre gli spunti di grande interesse offerti dal ricco apparato iconografico, merita particolare attenzione ai fini di questa indagine la quarta parte del volume, dedicata a «Mussolini visto dagli antifascisti»: si tratta, tuttavia, di brani e testimonianze datate dopo il 1925.

    [2] Mussolini, nascita di un dittatore, a cura di Enrico Ghidetti, Firenze, 1978. In particolare, anche per la bibliografia, cfr. «Invito alla lettura», pp. V-XII.

    [3] C. CECCUTI e M. VANNUCCI, Ugo Ojetti. Immagini nelle parole, Milano, 1978. In particolare pp. 152-160.

    [4] Cfr. Biblioteca nazionale centrale di Firenze, carte Ojetti, manoscritti da ordinare n. 250, autografi-varie/minori (inediti e frammenti), cassa 5 mss., busta 9. Articolo per «La Nación» di Buenos Aires, Firenze, 14-17 marzo 1923. «Forse non pubblicato».
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    L’uomo, il superuomo Mussolini e l’attesa del miracolo. Saranno in molti a crederci, in quegli anni, o a fingere di crederci. L’appassionata e generosa battaglia di Giacomo Matteotti, spinta al sacrificio della vita sotto i colpi «punitivi» dello squadrismo fascista, sarà interamente volta a strappare i veli della menzogna, dell’illusione comoda e dell’inganno sistematico che fanno da sostegno alla martellante propaganda del fascismo al potere. Cifre alla mano, in quel suo documentato e implacabile «libro bianco», Un anno di dominazione fascista, di cui si riproduce in questo libro un brano relativo a interventi e discorsi di Mussolini, Matteotti dimostra l’infondatezza dei dati diffusi dalla martellante propaganda mussoliniana relativi alla situazione economica e sociale del paese spiegando con probante lucidità come la ripresa socio-economica, la ripresa dell’Italia martoriata e travagliata dal dopoguerra della guerra vinta, fosse in realtà già iniziata con gli ultimi, pur logori governi del vecchio regime liberale.
    Contro Mussolini, contro la tirannide che intravedevano con maggiore o minore chiarezza e immediatezza, gli antifascisti levano negli anni fra 1922 e 1925 la loro voce, una voce che specie all’indomani del delitto Matteotti si fa più alta, più dispiegata e più autorevole: e Leo Valiani, nelle pagine della prefazione a questo volume, ha spiegato in modo esemplare le ragioni di certi tentennamenti, di certi ritardi del movimento, del mondo antifascista.
    I limiti cronologici sono importanti, in un lavoro come questo, e non mi pare inutile insistervi sopra. Essi escludono dall’antologia tutta la memorialistica e le riflessioni, di antifascisti, messe giù posteriormente al 1925, su avvenimenti anche fondamentali o su atteggiamenti successivi a tale data, presenti davanti agli occhi o scolpiti nella memoria. Ho preferito proporre in maniera rigida la rilettura di testimonianze, potremmo dire, fra cronaca e storia: cronaca in quei giorni lontani, allorché gli avvenimenti si vissero nel loro tumultuoso divenire quotidiano, storia oggi, allorché si giudica, si medita, si riflette a distanza: con tutto quello che essi avevano di incompleto, di sommario, di intuitivo e magari di approssimativo.
    Antologia di stati d’animo, dunque, di confidenze, di impressioni, di sfoghi, di polemiche giornalistiche, di commenti e atteggiamenti politici, fra illusioni e speranze, angosce e timori, oscuri e amari presagi. Protagonista assoluto, in queste pagine, Mussolini, come uomo e come interprete di un nuovo sconvolgente corso politico, indagato nella sua natura, nella capacità, nel carattere, criticato e giudicato nelle scelte e nel comportamento politico ed umano, nei discorsi, nelle affermazioni, nelle pause e nei silenzi: soprattutto, nelle responsabilità.
    Autori di queste pagine sono pertanto gli antifascisti della prima ora o dei primi anni, anche quelli che più tardi modificarono il proprio atteggiamento, seguirono vie divergenti, fino a passare sulla opposta sponda. Si pensi alle diverse parabole (quante diverse! Quasi un accostamento da paradosso) che segnarono la diversa vita (non solo nella durata) di Piero Gobetti e di Giovanni Ansaldo, pure animoso collaboratore in quei giorni drammatici e lontani, della gobettiana «Rivoluzione liberale».
    Alcuni degli autori di questi scritti – è un aspetto che non va dimenticato – scrissero solo più tardi le loro pagine più belle: e talora superando perplessità più o meno momentanee, illusioni più o meno facili e durature. Si pensi, da un lato, al «meglio Mussolini che Bonomi, Facta, Orlando, Salandra, Turati, Baldesi, D’Aragona, Nitti» pronunciato da Gaetano Salvemini in un impeto di intransigenza morale e politica, nel disgusto dei compromessi e dei calcoli opportunistici, un «meglio Mussolini» che gli verrà comunque più volte rimproverato[1]. Si pensi all’irritazione di Fortunato per l’atteggiamento inizialmente benevolo di Croce verso Mussolini, che solo più tardi, come Giolitti, comprenderà l’intera portata reazionaria, soffocatrice di libertà, del duce dal fascismo. E non a caso sia Croce sia Gioliti compaiono – nella fedeltà all’ordine cronologico con cui sono raccolti gli scritti – solo nelle ultime pagine di questo volume.
    Una raccolta, questa, che si è in larga misura fondata sullo spoglio della stampa antifascista del periodo, alla ricerca di articoli, spunti, note anche anonime (sempre più frequenti col giro di vite imposto da Mussolini alla libertà di stampa, di parole, di pensiero) meno conosciute di altri scritti ma non meno rilevanti per cogliere intero il valore (morale prima ancora che politico) di una battaglia: battaglia combattuta da minoranze eroiche esposte fino al rischio consapevole della vita, su testate spesso devastate nelle loro sedi, nelle tipografie, dagli squadristi, simbolo, con la loro militanza, col loro stesso personale sacrificio, di «un’Italia che non dimentica» - secondo il titolo dell’«Anticristo», numero unico degli amici milanesi del Caffè – dell’«Italia civile» di Bobbio, dell’«Italia della ragione» di Spadolini. Un’Italia che respinge effimeri e apparenti successi del regime, ne respinge la stessa logica, totalitaria e sopraffattrice, ne denuncia le vessazioni e i misfatti, crea quel patrimonio morale cui si tornerà ad attingere alla caduta del fascismo, al difficile momento della ricostruzione.

    (...)


    [1] Cfr., fra l’altro, l’incisivo saggio introduttivo di ALESSANDRO GALANTE GARRONE, Il carteggio Zanotti-Bianco-Salvemini, «Nuova Antologia», aprile-giugno 1983, fasc. 2146, pp. 225-252.
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    Già nel ’25 è ormai presente in molti la consapevolezza della lunga durata del fascismo. «Se entro i prossimi due o tre mesi non avviene un movimento risolutivo temo che l’uomo e più che l’uomo, il regime si consolidi – scrive Carlo Rosselli il 13 febbraio alla madre -. E allora ne avremo per anni, salvo il solito imprevedibile e non ne sortiremo più se non con un violento rivolgimento non più politico, ma sociale»[1]. Si deve lavorare, sempre e comunque, per il domani, quando che sia, per le nuove generazioni, secondo l’insegnamento di Piero Gobetti. «In mezzo alle orgie dei vittoriosi – ha scritto il direttore di «Rivoluzione liberale» nel novembre 1922, neppure un mese dopo la marcia su Roma – riaffermiamo che lo spirito della rivoluzione e della libertà non si potrà uccidere. Si possono bruciare le Camere del lavoro: non si distrugge un movimento operaio che è nato insieme col Risorgimento nazionale. Prepariamo i quadri, prepariamo le correnti ideali. Mentre gli scimmiotti della setta gentilesca pensano ad arraffare cattedre per noi il problema è tutto qui: di riuscire ad essere i nuovi illuministi di un nuovo ’89»[2].
    Periodici e quotidiani, di partito e non, in primo piano fra le letture che stanno alle origini di questo volume. Dalla «Rivoluzione liberale» di Gobetti al «Mondo» di Amendola, dal «Caffè» di Bauer e di Parri al «Quarto Stato» di Nenni, dal «Non mollare!» di Salvemini e Rosselli all’«Ordine Nuovo» di Gramsci, da «La critica politica» di Zuccarini a «L’Italia libera» di Pacciardi, da «Critica sociale» alla «Giustizia», all’«Avanguardia». Ci sono i grandi quotidiani di partito, come l’«Avanti!» di Nenni e l’«Unità» di Togliatti, «La Voce repubblicana» di Conti e «Il Popolo», con i serrati interventi di Giuseppe Donati. Ci sono gli organi del sindacato e degli interessi delle categorie, come «Battaglie sindacali» e «La difesa delle lavoratrici» e «Lo stato operaio», e i periodici spinti ai confini dell’anarchismo, come «La guerra di classe» e «L’umanità nuova». Infine, i periodi satirici, percorsi da un gusto, da una satira talora grossolana nella parte redazionale, ma straordinariamente incisiva e tagliente nelle immagini grafiche, nelle caricature: come «Il becco giallo».
    Molto si parla e si discute del fascismo, della politica fascista. Poco, veramente poco rispetto alle possibili attese, del personaggio Mussolini: ma quanti, del resto, già in quegli anni, specie nei mesi successivi all’assassinio di Matteotti, sentenziarono già conclusa la sua carriera politica per volontà dello stesso partito fascista, e indicano, in De Vecchi, il suo successore.
    Mussolini sorprese tutti, avversari e sostenitori. Ribaltò la situazione – anche per le pressioni degli intransigenti – proprio nel momento più difficile, si svincolò dalla sua maggioranza (o meglio: da ogni maggioranza), si consolidò al potere dissolvendo le ultime vestigia dello Stato liberale. L’equivoco di quanti avevano paragonato Mussolini a Giolitti, il mussolinismo al giolittismo, si dileguò travolgendo con sé tutte le illusioni e tutte le viltà.
    Il mussolinismo, che già era stato separato e distinto dal fascismo, assunse toni e caratteri più peculiari. Ma ripercorriamo insieme, in una rapida sintesi, la parabola, illustrata e documentata dai brani riprodotti in questa raccolta antologica.
    23 giugno 1921. L’antologia si apre con un fondo incisivo e penetrante di Fernando Schiavetti su «La Voce repubblicana»: commento al primo intervento parlamentare dell’onorevole Mussolini (Il discorso di Minosse) e insieme immediata denuncia della superficialità e impreparazione rivelata dal capo del fascismo nell’affrontare seriamente i problemi del paese, gravi e secolari, come divorzio o autonomie locali, liquidati con troppo facili boutade. È l’Italia degli slogan che Schiavetti intravede con straordinaria lucidità.
    22 luglio 1921. La raccolta prosegue col coraggioso intervento parlamentare di Filippo Turati, in occasione della formazione del governo Bonomi, succeduto a Giolitti, l’ultimo Giolitti: il leader socialista, che rispecchia un mondo perduto, svolge un’attenta analisi della situazione interna al paese, invoca un autentico risanamento morale, denuncia le violenze fasciste, auspica il rispetto del «patto di pacificazione» fra squadre rosse e squadre nere, ma avverte la precarietà dell’accordo per la malafede della parte avversa, di Mussolini e dei suoi squadristi, e definisce l’ex-compagno di partito «Maddalena pentita», sollevando l’iroso risentimento dell’avversario: la cui replica, qui riprodotta, consente di percepire intera la portata dei giudizi formulati su di lui e sul suo comportamento da Turati.
    Un mese più tardi, tornando sul patto di pacificazione, Antonio Gramsci su «Ordine nuovo» denuncia l’esistenza di «due fascismi»: il fascismo agrario, che non riconosce il patto e intende proseguire la lotta, il fascismo urbano, capeggiato e impersonificato da Mussolini, già vincitore, perché è riuscito a raggiungere l’obiettivo dell’«abbandono dell’intransigenza classista da parte del partito socialista». Mussolini, per Gramsci, si darà a organizzare politicamente i ceti medi, i piccoli esercenti, per costituire un esercito che gli permetta di trattare e patteggiare con gli altri partiti.
    Maggio 1922. È Piero Gobetti, nelle colonne della «Rivoluzione liberale» a tracciare un profilo di Mussolini: istrione, capitano di ventura, con le reminiscenze e la vibrazione dell’avventuriero rinascimentale, privo di una filosofia politica di qualsiasi fede ma posseduto «da un dogmatico terrore che non consente riflessioni». Un profilo che Gobetti ristamperà nel 1924, immutato ma con delle parti aggiunte, relative al giudizio su due anni di governo, o meglio di metodo di governo. Un nuovo trasformismo, scriverà Gobetti, destinato a mettere da parte il trasformismo giolittiano. È il «mussolinismo», fenomeno ancora peggiore del fascismo, perché sfrutta la natura cortigiana di un popolo, quello italiano, lo scarso senso di responsabilità, la rassegnazione, il cieco affidamento nel duce, nell’«uomo della provvidenza», come lo avrebbe definito più tardi il Pontefice, nel «domatore», per usare l’espressione di Gobetti, attendendosi da lui benessere, salvezza, soluzione di propri problemi.
    Di tono assai più blando e modesto è il commento (settembre 1922) di Giovanni Amendola al discorso pronunciato da Mussolini a Udine, in occasione del convegno fascista svoltosi nel capoluogo friulano. Il leader liberale riconosce a Mussolini il merito di avere ridestato «valori ideali, malamente negletti», ma respinge la negazione mussoliniana del principio democratico, la teorizzazione delle violenze, il rifiuto del metodo e del sistema parlamentare.
    Premessa del rigoroso e implacabile «no» che risuonerà con l’Aventino e salverà il liberalismo italiano dall’estinzione morale (attraverso la creazione anticipatrice del nuovo «partito della democrazia», l’unione democratica nazionale appunto amendoliana).
    Novembre 1922. Sfoghi, malumori, amarezze per la marcia su Roma e l’avvento di Mussolini al potere si possono cogliere in numerose lettere scritte da antifascisti in quei giorni. Ho spigolato in tre carteggi. In quello di Gaetano Salvemini, più esattamente nel nucleo di lettere indirizzate a Bernard e Mary Barenson apparse nel 1982 nella «Nuova Antologia», dove alla lettera del 4 novembre che rivela i «timori» salveminiani per la caduta di Mussolini (non in grado di mantenere il miracolo promesso) a vantaggio di D’Annunzio, del «super-Mussolini di Gardone», ho fatto seguire lettere del 1924 agli stessi amici, dove la «demolizione» e la caduta di Mussolini non solo è invocata ma ritenuta imminente e inevitabile.
    Ho riportato alcuni brani del carteggio di Giustino Fortunato, echeggianti il suo isolamento, la sua amarezza, il suo abbattimento morale. Splendido quel suo «tutti plaudono a Mussolino», dove nella deformazione del nome c’è il disprezzo che è proprio del personaggio, quasi frammento del suo orgoglio. Più politico, respirante nel vivo della lotta politica tutt’altro che esaurita, il carteggio di Anna Kuliscioff con Filippo Turati, l’amato «Filippotto», l’adorato «vegiotti». Ironica, Anna, verso Mussolini, che definisce «Benito I», «Napoleone in sessantaquattresimo», cogliendo le ambizioni dell’ex tribuno socialista ben superiori alla reale statura. Ma sfugge ad Anna rispetto a Turati la gravità del fenomeno Mussolini: fino ad auspicare un’opposizione morbida (se Mussolini cadesse si tornerebbe alla guerra civile: confida all’amico) e a stupirsi del discorso troppo duro, «di un’opposizione assoluta, irriducibile, fiera», pronunciato da Turati, contro Mussolini, a Montecitorio. Ma ben più dure, fiere, orgogliose e intransigenti saranno le parole pronunciate nella stessa aula da Giovanni Conti, motivando il voto contrario dei repubblicani al governo Mussolini, il 17 novembre: con un monito, o meglio un presagio finale che la storia, molti anni dopo, avrebbe confermato. Il crollo della dittatura mussoliniana e il ritorno alle libertà avrebbero inevitabilmente segnato il crollo della monarchia e l’avvento della tanto attesa, vagheggiata e inseguita repubblica.
    Non può sfuggire, per la sua alta tensione politica, in quel novembre 1922, il lucido intervento di Piero Gobetti su La tirannide: contro Mussolini, di cui denuncia l’impreparazione politica e i legami intimi e «consustanziali» con lo squadrismo fascista, nonché la volontà determinante di soffocare ogni forma di libertà, e contro quanti coltivano illusioni sulla natura del personaggio, sulle reali intenzioni, su vie di compromesso o di transazione.
    Il rispetto delle libertà. È il monito che Pietro Nenni rivolge a Mussolini dalle colonne dell’«Avanti!», all’inizio del 1923, in una lettera aperta al presidente del Consiglio. Lettera pervasa da toni malinconici e da pieghe amare, non per le «misure vessatorie» subite dal questore di Milano per certi attacchi portati dal suo giornale – insieme alla «Voce repubblicana» - al prefetto Lusignoli, ma per la metamorfosi dell’antico compagno di cella e di tante battaglie politiche, il socialismo: una metamorfosi che non dà segno di arrestarsi, di avere raggiunto ancora il livello più basso e più lontano dalla vita democratica.

    (...)


    [1] Epistolario familiare. Carlo, Nello Rosselli e la madre, introduzione di Valiani, prefazione e cura di Zeffiro Ciuffoletti, Milano, 1979, p. 250.

    [2] La tirannide, in «La Rivoluzione liberale», 23 novembre 1922.
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    Sulle colonne della «Stampa» il 26 febbraio 1923 Luigi Salvatorelli denuncia il venir meno, nel fascismo di Mussolini, dei pur tenui fermenti socialistoidi, comunque popolari e vagamente democratici, presenti nella prima ora, connessi alle sue origini. Il fascismo ha ormai assorbito il nazionalismo, ed è questo un indubbio successo di Mussolini; ma sul terreno delle ideologie è il fascismo che recepisce l’animus del nazionalismo, e quindi in qualche modo si contagia e si snatura.
    Nella seconda metà del ’23 si accende il dibattito sul mussolinismo, sul confronto fra Giolitti e Mussolini, e il loro modo di governare. Un dibattito che si farà particolarmente vivo e ricco di contributi nella prima metà del ’24, a cavallo delle elezioni politiche del 6 aprile. Giovanni Ansaldo, sulla «Rivoluzione liberale», parla a proposito di Mussolini di un «Giolitti più giovane», deciso a disfarsi di quanti lo avevano sostenuto per accaparrarsi nuovi e più consistenti ceti. Cinico, machiavellico nel senso negativo del termine, dotato di un opportunismo condito con una spiccata carica di retorica deformatrice a Giolitti del tutto sconosciuta.
    Se Carlo Rosselli confida alla madre tutta la sua angoscia, per un regime e per un uomo soffocatore di libertà che si consolidano al potere, Giacomo Matteotti tratteggia un ritratto tremendo ed astuto del «duce-tiranno» senza ricorrere ad una sola nota critica in proprio. È sufficiente per lui citare parole pronunciate nei discorsi pronunciati da Mussolini, attingere ai suoi scritti, pazientemente vagliati e setacciati, al fine di svelarne le intenzioni attraverso le stesse parole usate dal protagonista, al fine di illuminare la natura violenta e antidemocratica, la logica aberrante su cui si costruirà l’intero regime. Nasce così il capitolo – in parte qui riprodotto – delle «parole dei capi», compreso in Un anno di dominazione fascista.
    Ha Mussolini le doti del «capo»? Si chiede Gramsci sull’«Ordine nuovo», nel marzo del ’24. La risposta del leader comunista è negativa, sprezzante verso Mussolini, modello e prototipo del «piccolo borghese italiano», con tutti i limiti e con tutti i difetti denunciati dalla scuola marxista.
    Mussolini è un capo, certo, il capo della illegalità e nella illegalità: sembra replicare a distanza Giovanni Amendola, qualche giorno più tardi, allorché denuncerà l’uscita dalla legalità di Mussolini non solo per il modo con cui si è insediato al potere ma «con tutta la pratica di governo». E sulla «Giustizia», un anonimo «romagnolo» esprime il rammarico della sua terra per il cambiamento, per il tradimento di quello che dovrebbe essere il cittadino più illustre. Ricorda, l’articolista, Mussolini errante «in quelle terre», incitante alla riscossa del proletariato socialista, nutrito di tutti i caratteristici fermenti comuni alla gente di Romagna: l’anticlericalismo, il disprezzo per la coreografia e la retorica, l’amore per la libertà. Dove è finito il «romagnolo» Mussolini? «Egli fu amato assai di più quando aveva le scarpe rotte»: è il laconico, lapidario commento conclusivo.
    Le elezioni politiche del 6 aprile 1924, le tante manipolazioni, sopraffazioni e violenze ripropongono il parallelo Giolitti-Mussolini. Togliatti se ne occupa a «caldo», sulle colonne dell’«Unità», subito dopo la pubblicazione dei risultati. Manipolatori, entrambi, specie nel Mezzogiorno: ma Mussolini sposta il «suo» Mezzogiorno (cioè l’area di intervento nella manipolazione) sempre più a nord, oggi fino a Bologna, domani fino a Milano. Giolitti, inoltre, ha avuto il merito di attrarre le masse verso lo Stato, Mussolini è solo riuscito a scavare «una trincea» fra masse e Stato.
    Anche Gobetti, in quei giorni di valutazione e di commento, torna sul parallelo fra Giolitti e il «super-Giolitti» Mussolini, cogliendo la differenza di fondo nel culto e nell’uso della violenza. Per lo statista piemontese il ricorso alla sopraffazione era un fatto eccezionale, ridotto a singoli, sporadici casi; per il duce del fascismo la violenza è eretta a metodo, a sistema.
    «Clientele giolittiane» e «clientele fasciste». «La Voce repubblicana», commentando un viaggio in Sicilia del presidente del Consiglio di oggi, ricco di vuote promesse di fronte ai secolari problemi del Sud, rileva le stesse accoglienze, gli stessi plausi, la stessa «dedizione» riservata al presidente del Consiglio di ieri: il clientelismo meridionale ha mutato leader e colore, senza traumi, senza angosce interiori. Servo del potere, è passato in blocco da Giolitti a Mussolini.
    Ma torniamo alla violenza, la violenza pianificata, elevata a sistema secondo il giudizio balenante di Gobetti. Gli fa eco, dalle colonne del «Popolo», Giuseppe Donati, quando illustra il metodo tattico scelto da Mussolini, che è quello di «scatenare le forze minacciose della rivoluzione in marcia» e di «tornare a incantarle con un cenno del sopracciglio». «Mussolini – conclude Donati – è padrone della vita e della morte».
    Padrone della morte: la data del giornale che comprende quelle righe di Donati, tragicamente premonitrici, è quella del 10 giugno 1924. In quello stesso giorno, poche ore dopo la riflessione dell’animoso leader popolare, viene rapito e poi ucciso Giacomo Matteotti, là sul lungotevere Arnaldo da Brescia. Il coraggioso segretario del PSU si era battuto come pochi altri in parlamento e fuori contro Mussolini e contro il fascismo, appariva per capacità e statura il leader quasi predestinato e naturale dell’opposizione. Lo squadrismo fascista aveva compiuto uno dei crimini più intollerabili ed efferati.

    (...)
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