Interventi di Giovanni Spadolini, Leo Valiani, Cosimo Ceccuti e testi di Piero Gobetti, Antonio Gramsci e Fernando Schiavetti.
In “Nuova Antologia”, fasc. 2148, ottobre-dicembre 1983, Le Monnier, Firenze, pp. 5-39.
1. Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti
(di Giovanni Spadolini)
Ne parlavo di recente con Leo Valiani, che non conosce misteri né nella storia del fascismo né nella storia dell’antifascismo. Perché il giudizio di tanti fascisti nei confronti di Mussolini fu inizialmente così temperato e prudente almeno fino al 1924-1925? Perché fu così forte la distinzione fra «mussolinismo» e «fascismo», quasi con la tendenza a contrapporre la temperanza dell’uno all’intemperanza dell’altro? Perché la figura del dittatore non suscitò subito quelle condanne globali e senza appello che la violenza della battaglia di piazza del fascismo, e la stessa crudeltà dell’azione squadristica, avrebbero comandato prima ancora del 3 gennaio 1925?
Sono interrogativi cui occorre rispondere ormai sul piano esclusivamente storiografico (questo centenario della nascita di Mussolini ha dimostrato come solo la storia ha diritto di essere ascoltata, la propaganda settaria e nostalgica non conti più niente). Leo Valiani ha tentato di farlo anche in questi mesi, nell’introduzione che ha scritto a metà agosto al libro di un nostro collaboratore ed allievo, Cosimo Ceccuti, Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1921-1925) destinato alla collana «Quaderni di storia» della casa editrice Le Monnier, insieme con la seconda edizione accresciuta del classico di Renzo De Felice, Mussolini e Hitler – I rapporti segreti 1922-1933. Di qui l’occasione del nostro ideale dibattito: che comprende, in questa apertura della «Nuova Antologia», le mie riflessioni preliminari sul problema, il testo dell’introduzione di Cosimo Ceccuti alla sua antologia, il testo della prefazione di Leo Valiani – ragione e stimolo di un esame di coscienza della intera storiografia antifascista -, e una scelta di brani più significativi della silloge stessa, e cioè il Mussolini di Piero Gobetti nella edizione originaria del maggio 1922 (poi allargata ma anche attenuata nelle pagine del saggio sulla «Rivoluzione liberale»), l’articolo Il Capo di Antonio Gramsci pubblicato in «L’Ordine nuovo» del 10 marzo 1924 e lo scritto di Fernando Schiavetti, leader dell’antifascismo repubblicano in quegli anni, Il discorso di Minosse, primo in ordine di tempo in quanto commenta, con precoce acutezza, il primo discorso di Mussolini alla Camera il 23 giugno 1921, dopo le elezioni in cui il nascente movimento fascista aveva ricevuto l’avallo del «Blocco nazionale», comprendente le forze liberali dell’Italia prefascista.
La lettura dei documenti raccolti, con grande obiettività, con assoluto scrupolo, aveva immalinconito Valiani. Ma come, fino al ’25 sono così poche le pagine in cui il «pericolo Mussolini» appare denunciato con autentica chiarezza e coerenza? Facilissimo compilare un’antologia sul fascismo (un fenomeno poligonale che si prestava a mille esegesi, che sfuggiva quasi sempre alle analisi schematiche, che non mancava di una punta pirandelliana: riflesso di un «relativismo» che era stato sottratto a Giuseppe Rensi, pronto a condannare il fascismo nella severità del suo pensiero solitario).
Difficilissimo e perfino deludente – ne sa qualche cosa il nostro Ceccuti – compilare un’antologia su Mussolini nel pensiero o nel giudizio dei primi antifascisti (più esatto nel giudizio che nel pensiero: perché il pensiero antifascista si muove con una certa lentezza, parte piuttosto dagli esempi intemerati della coscienza morale, un Matteotti, un Gobetti, un Amendola, un Salvemini, che non da una dottrina contrapposta con lo stesso rigore dell’azione fascista, modellata sui ritmi di un pensiero addomesticato, eclettico e cangiante).
Valiani tende a paragonare il fenomeno Mussolini ai fenomeni dei grandi autocrati contemporanei, al fenomeno Hitler e perfino, pur nella sua peculiarità e complessità, al fenomeno Lenin. Anche nel caso di Hitler pochi si resero conto nei primi anni dello sbocco fatale nello Stato totalitario: il capo del nazismo addirittura arrivò al potere con la scheda.
E per quanto riguarda Lenin, Valiani appartiene a quel filone di pensiero democratico che vede la rivoluzione d’ottobre contrapposta non tanto allo zarismo sconfitto quanto alla democrazia in fasce della Costituente. La «dittatura di classe» fu l’obiettivo da lui lucidamente e spietatamente perseguitato anche in dissenso con molto bolscevichi. È singolare che lo stesso Valiani tenda a paragonare Trotski a Mussolini. È un paragone suggestivo, che non ricordiamo di aver letto da nessun’altra parte. «Mussolini cinico era – sono parole di Valiani – ma eccelleva ugualmente, al pari di Trotski (di cui non aveva né la dirittura morale né la cultura, né le capacità di organizzatore di un esercito) come giornalista e come oratore, sia davanti alle folle, sia in parlamento. In una democrazia sarebbe stato a suo agio, nel governo o all’opposizione. In dittatura doveva imitare il modello più perfezionato, totalitario».
Ecco, in due parole, individuata la logica profonda che doveva condurre il fascismo da movimento pragmatico a movimento autoritario, da movimento autoritario a movimento totalitario, fino alla stretta finale col delirio nazista. Per quanto riguarda gli anni compresi nel periodo 1921-1925 ha ben ragione Valiani a sottolineare, a proposito di Salvatorelli, che era difficile individuare gli obiettivi di Mussolini quando il protagonista non li aveva affatto chiari davanti a sé.
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