Accertare le responsabilità del delitto, denunciare soprattutto la responsabilità politica e non solo politica della «copertura» di Mussolini ai criminali assassini. Per alcuni mesi gli antifascisti, almeno alcuni di loro, si illudono (ricordiamo Salvemini) che Mussolini sia ormai un leader «bruciato» nel suo stesso partito, messo in liquidazione dalla sua stessa maggioranza.
Il sacrificio di Matteotti sembra finalmente avere scosso gli apatici e gli indifferenti, sembra avere richiamato alla realtà i manovratori e gli acrobati fiduciosi di incanalare nella legalità Mussolini e il fascismo, sembra infine restituire fiducia all’opposizione, moltiplicandone le forze. Che sia giunto davvero il momento della rigenerazione morale della nazione? Gli antifascisti ne sono convinti, e almeno lo sperano.
Il nostro posto: è l’articolo di fondo con cui Ferruccio Parri apre il primo numero del «Caffè», con un serrato appello alla lotta contro Mussolini, «il pilota nella tempesta», una lotta che non sarà né breve né facile, poiché la «disfatta morale» di un sistema tarda a tradursi in «disfatta politica».
Mentre «La Giustizia» reagisce alla mossa del duce volta a colpire col famoso decreto la libertà di stampa, mentre Paolo Valera, l’appassionato e inquieto «rivoluzionario», sfoga il suo risentimento per l’antico compagno di cordata pubblicando un volume su Mussolini com’era, sgradito sia ai fascisti sia agli stessi socialisti, «Il Caffè» continua la martellante azione di denuncia: e fra i primi mette in luce le manovre mussoliniane per restare a galla ad ogni costo, per salvare il potere mentre la nave affonda, liquidando con cinica spregiudicatezza gli scomodi e imbarazzanti compagni che lo hanno portato al potere, e fa ogni sforzo per apparire, proprio lui, il «restauratore della legalità».
Se Giovanni Zibordi, sulle colonne di «Battaglie sindacali», sottolinea il «disprezzo» di Mussolini per il popolo italiano, la sua totale sfiducia nelle masse, «Scotino» nella «Giustizia», chiude, da sinistra, il raffronto fra Giolitti e Mussolini, ormai smentito dalla realtà degli avvenimenti e dei comportamenti. «Arte politica» appariva ormai il modo di governare dello statista piemontese; ricca di capacità e fantasia; semplice «alternanza fra bastone e carota», prevedibile e scontata, la sostanza del metodo mussoliniano.
Alla fine del 1924 il quesito ricorrente nei diversi filoni dell’antifascismo, relativamente a Mussolini, è soprattutto questo: o Mussolini è in liquidazione, oppure è lui che liquida gli altri, i partiti, compreso quello fascista, per assumere un potere personale sempre più ampio, del tutto affrancato dalle manipolate e svuotate maggioranze parlamentari.
Non tutti vedono la realtà con la stessa chiarezza. Luigi Sturzo ancora nel ’24 scriveva che Mussolini non avrebbe potuto ergersi a dittatore perché la «realtà democratica» dell’Italia e del mondo moderno non lo consentivano. Gobetti, che accoglie con i necessari «distinguo» quello scritto anticipatore di un libro nella «Rivoluzione liberale» era ben lontano da condividere certe illusioni: da anni, al contrario, aveva intravisto e rivelato «la tirannide» dietro l’immagine falsa di Mussolini.
Il 1925, già la prima metà del ’25, risponde a molti quesiti. Registra intanto il definitivo passaggio, sulla sponda antimussoliniana, di autentici liberali che hanno ormai abbandonato ogni speranza di istituzionalizzazione del fascismo, di contenimento dell’uomo Mussolini nei binari violati di una legalità infranta.
Aveva fatto clamore, e in qualche misura rappresentava una svolta, l’intervista concessa da Giovanni Giolitti a un giornalista della «Stampa», a fine dicembre 1924, allorché si parlava nei corridoi di Montecitorio e fuori di nuove elezioni quale escamotage ideato da Mussolini per uscire dalla difficile situazione. Giolitti pensa che l’attuale governo non sia ‘il più indicato’ a fare le nuove elezioni, è il titolo del pezzo apparso sulla «Stampa» del 25 dicembre, ripreso con rilievo anche dalla stampa di sinistra.
Di lì a pochi giorni, Giovanni Giolitti parlerà alla Camera contro il ripristino del collegio uninominale, si scontrerà con Mussolini, lo accuserà di fomentare «una lotta che potrebbe tradursi anche in guerra civile». È il 16 gennaio 1925. Un altro grande liberale, Benedetto Croce, sta maturando il suo isolamento nella resistenza operante della cultura rispetto al fascismo, rispetto a Mussolini. Significativo l’«elogio dell’ignoranza», indirizzato al duce, alla fine di giugno di quell’anno.
Ma torniamo al gennaio 1925. Mentre «Il Becco giallo» continua nelle sue ironie e nei suoi pungenti sarcasmi nei confronti del duce (si veda in questa raccolta Il memoriale di Benito Mussolini), la stampa antifascista è impegnata a sfruttare la possibilità di critica ancora concessa, a denunciare il cammino sempre più spedito di Mussolini verso la dittatura, verso il potere assoluto, verso l’abbandono di ogni simulacro di legalità.
Proprio sull’abbandono da parte di Mussolini di ogni parvenza legalitaria pone l’accento Riccardo Bauer, l’11 gennaio, sul «Caffè». «Il tiranno» mostra ormai il suo volto autentico. «Non piegare», esorta Bauer, con l’intero gruppo del giornale antifascista milanese. «Non mollare», diviene la parola d’ordine comune alle file dell’opposizione, secondo il titolo felice del periodico sacro alla memoria di Carlo Rosselli. Battersi sempre e ovunque, lavorare per educare finché possibile alla luce del sole, poi nell’ombra e fuori dall’Italia, le future generazioni.
Perché gli italiani non dimentichino: si legge nel titolo a tutta pagina dell’«Anticristo», il numero unico apparso in ideale continuazione del «Caffè», ad opera degli stessi redattori. Mussolini, insieme alla sua forza, ha mostrato senza veli la propria immagine: un’immagine in cui la vecchia Italia, l’Italia barbara, l’Italia di strapaese, con quel fondo crudele e beffardo, riuscirà a prelevare sulla stessa origine socialista del dittatore, su quelle lontane speranze di emancipazione sociale e di ribellione civile che avevano percorso una giovinezza «sovversiva» destinata a offrire i materiali della nuova dittatura. Che certo si distinguerà dal nazismo – come ha più volte, e col suo indiscusso magistero, sottolineato Renzo De Felice – e rientrerà piuttosto nelle esplosioni convulse e inquietanti di un nuovo «autoritarismo di massa» progenitore o ispiratore di ben più tremende forme di totalitarismo.
Responsabilità penale, quella di Mussolini, certo (si pensi al caso Matteotti) ma soprattutto una responsabilità morale e una responsabilità politica. Responsabilità, tutte, che «si accumulano, si controllano, si confermano a vicenda». Responsabilità cui Mussolini, sia pure venti anni dopo, sarà inesorabilmente chiamato a rispondere. Con quel tipico bis di Cola di Rienzo che avallava la straordinaria e penetrante intuizione gobettiana.
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