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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    Accertare le responsabilità del delitto, denunciare soprattutto la responsabilità politica e non solo politica della «copertura» di Mussolini ai criminali assassini. Per alcuni mesi gli antifascisti, almeno alcuni di loro, si illudono (ricordiamo Salvemini) che Mussolini sia ormai un leader «bruciato» nel suo stesso partito, messo in liquidazione dalla sua stessa maggioranza.
    Il sacrificio di Matteotti sembra finalmente avere scosso gli apatici e gli indifferenti, sembra avere richiamato alla realtà i manovratori e gli acrobati fiduciosi di incanalare nella legalità Mussolini e il fascismo, sembra infine restituire fiducia all’opposizione, moltiplicandone le forze. Che sia giunto davvero il momento della rigenerazione morale della nazione? Gli antifascisti ne sono convinti, e almeno lo sperano.
    Il nostro posto: è l’articolo di fondo con cui Ferruccio Parri apre il primo numero del «Caffè», con un serrato appello alla lotta contro Mussolini, «il pilota nella tempesta», una lotta che non sarà né breve né facile, poiché la «disfatta morale» di un sistema tarda a tradursi in «disfatta politica».
    Mentre «La Giustizia» reagisce alla mossa del duce volta a colpire col famoso decreto la libertà di stampa, mentre Paolo Valera, l’appassionato e inquieto «rivoluzionario», sfoga il suo risentimento per l’antico compagno di cordata pubblicando un volume su Mussolini com’era, sgradito sia ai fascisti sia agli stessi socialisti, «Il Caffè» continua la martellante azione di denuncia: e fra i primi mette in luce le manovre mussoliniane per restare a galla ad ogni costo, per salvare il potere mentre la nave affonda, liquidando con cinica spregiudicatezza gli scomodi e imbarazzanti compagni che lo hanno portato al potere, e fa ogni sforzo per apparire, proprio lui, il «restauratore della legalità».
    Se Giovanni Zibordi, sulle colonne di «Battaglie sindacali», sottolinea il «disprezzo» di Mussolini per il popolo italiano, la sua totale sfiducia nelle masse, «Scotino» nella «Giustizia», chiude, da sinistra, il raffronto fra Giolitti e Mussolini, ormai smentito dalla realtà degli avvenimenti e dei comportamenti. «Arte politica» appariva ormai il modo di governare dello statista piemontese; ricca di capacità e fantasia; semplice «alternanza fra bastone e carota», prevedibile e scontata, la sostanza del metodo mussoliniano.
    Alla fine del 1924 il quesito ricorrente nei diversi filoni dell’antifascismo, relativamente a Mussolini, è soprattutto questo: o Mussolini è in liquidazione, oppure è lui che liquida gli altri, i partiti, compreso quello fascista, per assumere un potere personale sempre più ampio, del tutto affrancato dalle manipolate e svuotate maggioranze parlamentari.
    Non tutti vedono la realtà con la stessa chiarezza. Luigi Sturzo ancora nel ’24 scriveva che Mussolini non avrebbe potuto ergersi a dittatore perché la «realtà democratica» dell’Italia e del mondo moderno non lo consentivano. Gobetti, che accoglie con i necessari «distinguo» quello scritto anticipatore di un libro nella «Rivoluzione liberale» era ben lontano da condividere certe illusioni: da anni, al contrario, aveva intravisto e rivelato «la tirannide» dietro l’immagine falsa di Mussolini.
    Il 1925, già la prima metà del ’25, risponde a molti quesiti. Registra intanto il definitivo passaggio, sulla sponda antimussoliniana, di autentici liberali che hanno ormai abbandonato ogni speranza di istituzionalizzazione del fascismo, di contenimento dell’uomo Mussolini nei binari violati di una legalità infranta.
    Aveva fatto clamore, e in qualche misura rappresentava una svolta, l’intervista concessa da Giovanni Giolitti a un giornalista della «Stampa», a fine dicembre 1924, allorché si parlava nei corridoi di Montecitorio e fuori di nuove elezioni quale escamotage ideato da Mussolini per uscire dalla difficile situazione. Giolitti pensa che l’attuale governo non sia ‘il più indicato’ a fare le nuove elezioni, è il titolo del pezzo apparso sulla «Stampa» del 25 dicembre, ripreso con rilievo anche dalla stampa di sinistra.
    Di lì a pochi giorni, Giovanni Giolitti parlerà alla Camera contro il ripristino del collegio uninominale, si scontrerà con Mussolini, lo accuserà di fomentare «una lotta che potrebbe tradursi anche in guerra civile». È il 16 gennaio 1925. Un altro grande liberale, Benedetto Croce, sta maturando il suo isolamento nella resistenza operante della cultura rispetto al fascismo, rispetto a Mussolini. Significativo l’«elogio dell’ignoranza», indirizzato al duce, alla fine di giugno di quell’anno.
    Ma torniamo al gennaio 1925. Mentre «Il Becco giallo» continua nelle sue ironie e nei suoi pungenti sarcasmi nei confronti del duce (si veda in questa raccolta Il memoriale di Benito Mussolini), la stampa antifascista è impegnata a sfruttare la possibilità di critica ancora concessa, a denunciare il cammino sempre più spedito di Mussolini verso la dittatura, verso il potere assoluto, verso l’abbandono di ogni simulacro di legalità.
    Proprio sull’abbandono da parte di Mussolini di ogni parvenza legalitaria pone l’accento Riccardo Bauer, l’11 gennaio, sul «Caffè». «Il tiranno» mostra ormai il suo volto autentico. «Non piegare», esorta Bauer, con l’intero gruppo del giornale antifascista milanese. «Non mollare», diviene la parola d’ordine comune alle file dell’opposizione, secondo il titolo felice del periodico sacro alla memoria di Carlo Rosselli. Battersi sempre e ovunque, lavorare per educare finché possibile alla luce del sole, poi nell’ombra e fuori dall’Italia, le future generazioni.
    Perché gli italiani non dimentichino: si legge nel titolo a tutta pagina dell’«Anticristo», il numero unico apparso in ideale continuazione del «Caffè», ad opera degli stessi redattori. Mussolini, insieme alla sua forza, ha mostrato senza veli la propria immagine: un’immagine in cui la vecchia Italia, l’Italia barbara, l’Italia di strapaese, con quel fondo crudele e beffardo, riuscirà a prelevare sulla stessa origine socialista del dittatore, su quelle lontane speranze di emancipazione sociale e di ribellione civile che avevano percorso una giovinezza «sovversiva» destinata a offrire i materiali della nuova dittatura. Che certo si distinguerà dal nazismo – come ha più volte, e col suo indiscusso magistero, sottolineato Renzo De Felice – e rientrerà piuttosto nelle esplosioni convulse e inquietanti di un nuovo «autoritarismo di massa» progenitore o ispiratore di ben più tremende forme di totalitarismo.
    Responsabilità penale, quella di Mussolini, certo (si pensi al caso Matteotti) ma soprattutto una responsabilità morale e una responsabilità politica. Responsabilità, tutte, che «si accumulano, si controllano, si confermano a vicenda». Responsabilità cui Mussolini, sia pure venti anni dopo, sarà inesorabilmente chiamato a rispondere. Con quel tipico bis di Cola di Rienzo che avallava la straordinaria e penetrante intuizione gobettiana.

    (...)
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    4. Mussolini

    (di Piero Gobetti - «La Rivoluzione liberale», 23 novembre 1922 (ante 28 maggio 1922)

    Io non riesco ad immaginarmi Mussolini altrimenti che sotto le spoglie del più audace e torbido condottiero di compagnie di ventura; o talora meglio come il capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da una dogmatico terrore che non consenta riflessioni. La sua più caratteristica figura si riassume in un anacronismo.
    Gli manca il senso squisitamente moderno dell’ironia, non arriva alla comprensione della storia se non per miti, gli sfugge la finezza critica dell’attività creativa che è dote centrale del grande politico. La sua professione di relativismo non riuscì neppure a sembrare un’agile mistificazione: troppo dominante vi avvertì ognuno la sconcertata ricerca ingenua di un riparo che eludesse l’infantile incertezza e coprisse le malefatte. Coerenza e contraddizioni sono in Mussolini due diversi aspetti di una mentalità politica che non può liberarsi dai vecchi schemi di un moralismo troppo disprezzato per poter essere veramente sostituito. Egli rimane perciò diviso e indeciso tra momenti di una coerenza troppo dogmatica per non riuscire goffa e sfoghi di esuberanza anarchicamente ingiustificati. Ha bisogno di un mondo in cui al condottiero non si chieda di essere un politico. Lottare per una idea, elaborare nella lotta un pensiero, è un lusso e una seccatura: Mussolini è abbastanza intelligente per piegarvisi, ma gli basterebbe la lotta pura e semplice senza i tormenti della critica moderna. Solo gli ingenui si sono potuti stupire dei suoi recenti amori con la Chiesa cattolica. Nessuno più lontano di Mussolini dallo spirito dello Stato laico e dalla vecchia Destra degli Spaventa. Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non sopporta la lotta col dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare, per essere il braccio temporale di una idea trascendente. «Avrebbe potuto riuscire il duce di una Compagnia di Gesù, l’arma di un Pontefice persecutore di eretici, - con una sola idea in testa da ripetere e da far entrare ‘a suon di randellate’ nei ‘crani refrattari’. Gli articoli del ‘Popolo d’Italia’ sono così: ripetizioni di un ordine, dogmi e spesso stereotipie di un monotono disegno: letterariamente hanno qualcosa di militare e molto del catechismo – anche qui si deduce l’opera del boia (o la pugnalata) dalle verità assolute, trascendenti, e cristallizzate. Infatti i tre momenti centrali della vita di Mussolini hanno coinciso con tre momenti risolutivi, entusiastici, dogmatici della storia italiana: il messianismo socialista, l’apocalissi antitedesca, la palingenesi fascista: chi vorrà essere così ottuso da ricercare in questi episodi uno sviluppo, e delle ragioni ideali di progresso?». Perché vedere un problema politico dove si tratta di un fenomeno di psicologia del successo e di una nuova arte economica delle idee? Sarà legittimo studiare la filosofia politica di Corrado Wolfort, di Giovanni Hakwood o di Francesco Bussone?
    La storia giudicherà con indulgenza l’anacronismo di Mussolini che nonostante il suo orgoglio chiuso di signorotto incompiuto è stato tanto umile da inchinarlesi: garibaldino in ritardo come Crispi, ma forse meno cocciuto di lui e per il suo convinto arrivismo più duttile: rozzo, povero di idee è riuscito talvolta, per la robustezza e la disinvoltura, l’ostetrico della storia.

    (...)
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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    5. «Il Capo»

    (di Antonio Gramsci - «L’Ordine Nuovo», 10 marzo 1924)

    Ogni Stato è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano intorno a uno dotato di maggiore capacità e di maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un «capo». Che dei socialisti, i quali dicono ancora di essere marxisti e rivoluzionari, dicano poi di volere la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei «capi», di non volere che il comando si individui, si personalizzi; che si dica cioè, di non volere la dittatura, ma di non volerla nella sola forma in cui è storicamente possibile, rivela solo tutto un indirizzo politico, tutta una preparazione teorica «rivoluzionaria».
    Nella questione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, nei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: - sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni più profonde e vitali, o ne sono un’escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta? Come questo partito si è formato, come si è sviluppato, per quale processo è avvenuta la selezione degli uomini che lo dirigono? Perché è diventato il partito della classe operaia? È ciò avvenuto per caso? Il problema diventa quello di tutto lo sviluppo storico della classe operaia, che lentamente si costituisce nella lotta contro la borghesia, registra qualche vittoria, subisce molte disfatte; e non solo della classe operaia di un singolo paese, ma di tutta la classe operaia mondiale, con le sue differenziazioni superficiali eppure tanto importanti in ogni momento separato, e con la sua sostanziale unità e omogeneità.
    Il problema diventa quello della vitalità del marxismo, del suo essere o non essere la interpretazione più sicura e profonda della natura e della storia, della possibilità che esso all’intuizione geniale dell’uomo politico dia anche un metodo infallibile, uno strumento di estrema precisione per esplorare il futuro, per prevedere gli avvenimenti di massa, per dirigerli quindi e padroneggiarli.
    Il proletariato internazionale ha avuto ed ha tuttora un vivente esempio di un partito rivoluzionario che esercita la dittatura della classe; ha avuto e non ha più, malauguratamente, l’esempio vivente più caratteristico ed espressivo di chi sia un capo rivoluzionario, il compagno Lenin.
    Il compagno Lenin è stato l’iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia, ma lo è stato perché egli era anche l’esponente e l’ultimo più individualizzato momento, di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intero. Era egli divenuto per caso il capo del partito bolscevico? Per caso il partito bolscevico è diventato il partito dirigente del proletariato russo e quindi della nazione russa? La selezione è durata trenta anni, è stata faticosissima, ha spesso assunto le forme apparentemente più strane e più assurde. Essa è avvenuta nel campo internazionale, al contatto delle più avanzate civiltà capitalistiche dell’Europa centrale e occidentale, nella lotta dei partiti e delle frazioni che costituivano la Seconda Internazionale prima della guerra. Essa è continuata nel seno della minoranza del socialismo internazionale rimasta almeno parzialmente immune dal contagio socialpatriottico. Ha ripreso in Russia nella lotta per avere la maggioranza del proletariato, nella lotta per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su in immenso territorio. Continua tuttora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna comprendere, prevedere, provvedere. Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi, è stata la lotta individuale, ha voluto dire scissioni e unificazioni, arresti, esilio, prigione, attentati: è stata resistenza contro lo scoraggiamento e contro l’orgoglio, ha voluto dire soffir la fame avendo a disposizione dei milioni d’oro, ha voluto dire conservare lo spirito di un semplice operaio sul trono degli zar, non disperare anche se tutto sembrava perduto, ma ricominciare, con pazienza, con tenacia, mantenendo tutto il sangue freddo e il sorriso sulle labbra quando gli altri perdevano la testa. Il partito comunista russo, col suo capo Lenin, si era talmente legato a tutto lo sviluppo del suo proletariato russo, a tutto lo sviluppo, quindi, della intiera nazione russa, che non è possibile neppure immaginare l’uno senza l’altro, il proletariato classe dominante senza che il partito comunista sia il partito del governo e quindi senza che il Comitato Centrale del partito sia l’ispiratore della politica del governo; senza che Lenin fosse il capo dello Stato. Lo stesso atteggiamento della grande maggioranza dei borghesi russi che dicevano: - una repubblica con a capo Lenin senza il partito comunista sarebbe anche il nostro ideale – aveva un grande significato storico. Era la prova che il proletariato esercitava non solo più un dominio fisico, ma dominava anche spiritualmente. In fondo, confusamente, anche il borghese russo comprendeva che Lenin non sarebbe potuto rimanere capo dello Stato senza il dominio del proletariato, senza che il partito comunista fosse il partito del governo: la sconfitta fisica, immediata, anche la sua sconfitta ideologica e storica; ma già il dubbio era in lui, e questo dubbio si esprimeva in quella frase.
    Un’altra quistione si presenta. È possibile, oggi, nel periodo della rivoluzione mondiale, che esistano «capi» fuori della classe operaia, che esistano capi non-marxisti, i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano? Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e non comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino e fa stupire. Ma «capo»? Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Più di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all’appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall’eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizii e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assisi di Milano. Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo» non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad aver ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanof.
    Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato, divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia.
    La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. Il capo che oggi piangiamo ha trovato una società in decomposizione, un pulviscolo umano, senza ordine e disciplina, perché in cinque anni di guerra si era essiccata la produzione sorgente di ogni vita sociale. Tutto è stato riordinato e ricostruito, dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, cioè, al governo e alla storia.
    Benito Mussolini ha conquistato il governo, e lo mantiene con la repressione più violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale d’ordine di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, più per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia.
    Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo.

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    Predefinito Re: Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti (1983)

    6. Il discorso di Minosse

    (di Fernando Schiavetti - «La Voce repubblicana», 23 giugno 1921)

    Il divo ha finalmente parlato. La possente mandibola appollaiata in silenzio sul più alto banco dell’estrema destra è scesa, per banali necessità acustiche, alcuni gradini più in basso e ha svelato il mistero del profondo pensare nascosto sotto il cranio lucido ed enorme.
    C’era in molti una curiosità veramente morbosa di sentire quest’uomo il quale, venuto su da la piazza e dal giornale – ciò è a dire dai due più clamorosi mercati della vita pubblica – s’era, contrariamente ad ogni aspettazione, chiuso in un mutismo di pretta marca anglo-sonniniana.
    Che dirà? – molti pensavano – vomiterà spade o parole? E qual dichiarazione di fede segnerà, nella concitata eloquenza dell’ambiguo tribuno, il principio di una novella istoria?
    Ombra di Goethe, riposa in pace. Il discorso dell’on. Mussolini non ha, per la sua altezza, dato le vertigini a nessuno. Chi, come il sottoscritto, si è recato ad ascoltarlo con la più serena volontà di reazione a qualsiasi preconcetto politico, è rimasto allibito dinanzi alla fenomenale inconsistenza ideale di cui, in questo suo debutto parlamentare e per bocca del suo capo riconosciuto, ha dato prova il fascismo.
    Discorso schematico. Politica estera e politica interna. Per la prima: Canton Ticino, Aldo Adige, Fiume, il Montenegro, la Palestina; per la seconda: botte ai comunisti, ai socialisti, ai popolari, alla democrazia sociale. E in tutto il discorso, eccezion fatta della parte riguardante il problema dell’Alto Adige, un semplicismo, una disinvoltura, una leggerezza di giudizi sorprendente e catastrofica. La cosa ha assunto le proporzioni del ridicolo e tutti gli aspetti di una gustosissima comicità quando quest’uomo, immerso sino ai capelli nella più grossolana politica, ha voluto esprimere la sua opinione su una questione delicata, umana e profonda come quella del divorzio. Se l’è cavata in due battute, alla brava. (Il signore è servito! esclama girando agevolmente sui tacchi, dopo aver dato una rapida aggiustatina ai capelli del cliente, il giovane barbiere in un giorno di molto lavoro) Il divorzio? Un problema di ingiustizia sociale: i ricchi possono divorziare e i poveri no. Nient’altro. Incredibile, ma vero. Tanto la volgarità di certo vecchio socialismo ha contaminato sin nelle midolla l’animo di quest’eretico in apparenza rinnegatore e nemico della sua antica fede.
    Il medesimo per il problema vivo e tragico delle autonomie. Una sciocchezza ben quotata, alla «Giornale d’Italia», e via. «Il decentramento a base regionale ricondurrebbe l’Italia al medioevo». Ecco anche gli autonomisti giudicati e mandati. Un esame sommario con gli occhi stralunati, sei giri di coda e giù, nei baratri dell’inferno. L’onorevole Lussu, che tra le flaccidità parlamentari porta nel petto la passione disperata della sua Sardegna, non ha saputo trattenersi dinanzi all’improntitudine del novello Minosse e gli ha gridato in faccia la protesta più giusta e più semplice: - Non avete capito niente!
    Ma sì! Evidentemente per freddare questa pentola cerebrale non molto complicata, ma in continua ebollizione, non basta né questo né altro. Per ogni problema una soluzione! Per ogni dubbio un’affermazione. Per ogni domanda una risposta. Confederazione generale del lavoro, comunisti, socialisti, popolari, democratici, tutti sono stati saggiati e valutati con la pietra del fascismo. Voi valete sino a questo punto, voi sino a quest’altro. Il proletariato è debole perché su tredici milioni di lavoratori tre milioni soltanto sono organizzati e pochi di questi hanno nel cuore una fede e nella mente un’idea: i comunisti sono miei figli; i socialisti ci hanno rotto le scatole con le statizzazioni; i democratici nascondono Nitti dietro la loro coorte. Ai popolari, più fortunati di tutti, è toccato, dopo alcune sgarberie, di vedersi portare in dono il riconoscimento del cattolicesimo come unica idea universale: essi probabilmente non se ne ricordavano più.
    Udendo parlare Mussolini mi tornava alla mente il ricordo della tournure semplice e ingenua dei discorsi di Errico Malatesta: discorsi di propaganda del resto efficacissimi e senza alcuna pretesa[1].
    Ma la miseria vera del discorso di ieri è stata lo sbriciolamento di tutti i problemi, la visione aridamente analitica delle cose, la mancanza di una qualsiasi idea centrale, direttiva ed animatrice. Se la spesa compensasse l’impresa sarebbe interessante notare le continue contraddizioni tra le diverse posizioni mentali assunte successivamente e con una rapidità addirittura cinematografica dall’oratore nel giudicare ora di questa ora di quella questione. Che l’idea centrale cui ho accennato sia stata ieri e sia sempre il bene dell’Italia è una banalità qualsiasi tanto vuota e generica che non merita nemmeno di essere presa in considerazione. Un fatto contingente non può essere il centro di una visione del mondo e della vita, a meno che esso non sia intuito come l’aspetto di una verità universale: in questo caso il fascismo non sarebbe che nazionalismo.
    È evidente che al fascismo in genere e a Mussolini in ispecie manca quel gusto dell’unità per cui siamo soliti di cercare i legami che uniscono i fatti esterni più opposti e di dare a tutti i fatti interiori un fondamento possibilmente unitario. I fascisti si sono vantati di non avere pregiudizi di nessun genere; ciò vuol dire che a essi mancheranno sempre carattere e personalità politica.
    Per ora li tiene insieme l’ammirazione ingenua ed infantile di Mussolini. Ieri quando il maestro e donno ha chiuso gli stanchi vanni della sua eloquenza eccitata ed è ritornato a passi lenti e staccati sul più alto bacchio della gabbia, i suoi giovani amici gli si sono stretti intorno in aspetto di trepidi pulcini intorno alla chioccia.
    Spettacolo quanto mai piacevole e grazioso, cui non mancava nemmeno la presenza del vecchio gallo, piccolo ma fecondo (razza mugellese): l’on. Colaianni. Ma io sono sicuro che questa corrispondenza d’amorosi sensi non durerà per molto tempo ancora, specialmente se nell’animo di quei giovani sorgerà un desiderio di vita spirituale autonoma. Allora la volontà del capo peserà sui loro cuori ed egli si rivelerà nella sua intima natura di dominatore capriccioso e violento.
    - Voi avete forse per me una segreta nostalgia! egli ha gridato ieri in faccia ai socialisti. Questa non è la parola di un uomo ma il grido vano e presuntuoso di una femmina corrucciata.


    [1] «Noi anarchici pensiamo così e così: i socialisti hanno questi meriti e queste colpe, i repubblicani questi altri meriti e queste altre colpe». Il pubblico applaude e se ne va via contento, persuasissimo di aver toccato con mano i più nascosti ressorts della lotta politica. Non altrimenti la turba parlamentare ride ed approva quando l’on. Giolitti con quel suo fare onesto e lieto di sapiente illusionista pretende di mostrare con poche e sagaci parole che qualche untuosa frittata politica apparentemente sbattuta nel suo cappello a larghe falde non è mai esistita e non ha macchiato nessuno. E anche questa è una vaga simiglianza da notare: Giolitti e Mussolini, due uomini ad un primo esame tanto lontani, hanno ambedue il gusto della schematizzazione facilona e della riduzione di tutto ai minimi termini, accompagnate, l’una e l’altra, dal leggero bagliore di qualche felice boutade».
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