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    Sardista po s'Indipendentzia
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    Predefinito Re: 1989. XXIII° Congresso nazionale del PSd’Az.

    Alcune questioni della teoria del Partito sardo

    contributo alla discussione precongressuale di Gianfranco Pintore


    L'indicazione della indipendenza come modo di porsi della nazione sarda in rapporto allo stato italiano e al resto del mondo è patrimonio consolidato di tutto il Partito. Ma non in tutti i settori e a tutti i livelli esiste lo stesso grado di consapevolezza. Né si può dire che la questione della indipendenza abbia, all'interno nostro, valenza e significato univoci. Esistono, detto in modo schematico, quattro tipi di atteggiamento, che corrispondono poi, inevitabilmente, a comportamenti politici nella prassi quotidiana del rapporto interno ed esterno:
    a) Indipendenza come estremizzazione verbale, quasi un sinonimo forte dell'autonomia; di questa è comunque considerata un'evoluzione. E' la posizione che chiameremo minimalista;
    b) Indipendenza come madre necessitata dei federalismo: la conquista dell'indipendenza deve portare al federalismo. Questa posizione, che chiameremo strumentalista, attraverso una serie di passaggi logici trasforma in ineluttabilità di processo ciò che, anche secondo lo statuto del Partito, è invece solo condizione" di processo;
    c) Indipendenza come situazione che si verifica a partire da un momento dato. Il momento è, volta a volta, il raggiungimento dei 51 per cento dei voti, il referendum, la spallata alla storia, etc. Questa posizione massimalista considera l'indipendenza un valore autoreferente, un valore in sé e per sé, persino indifferente al senso e ai contenuti di se stesso;
    d) Indipendenza come processo illimitato e non status definito una volta per sempre e come progetto a due facce, l'una rivolta a rivendicare sovranità all'esterno, l'altra rivolta a garantire sovranità all'interno alle comunità che formano e fondano la nazione sarda. E' la posizione che riteniamo più corretta e, soprattutto, più coerente alla cultura, alla civiltà e alla società dei sardi.

    La posizione che, per comodità, abbiamo definito minimalista nasce da una visione della storia del Partito sardo come continuità di un processo lineare, un processo disturbato, è vero, da escrescenze, bubboni, devianze; ma una volta che siano stati tagliati, il tronco sano ha continuato la sua evoluzione. A volte con rapidità, a volte con lentezze, a volte, addirittura, con arretramenti. E' la continuità di un partito, lo vedremo in seguito, nato come sezione sarda di un partito italiano inesistente e che, comunque, aveva lo scopo di agire Il per il rinnovamento della politica nazionale" (italiana s'intende). Un partito certo sardo, certo fortemente autonomista, altrettanto fortemente contrario al colonialismo nordico, ma incapace di prendere sul serio le questioni etnica e linguistica di cui c'è anche a volte coscienza e di trasformarle in "motivi di autonomia. Un partito che fu anche incapace, proprio per questa non coscienza della identità, di rompere gli schemi del meridionalismo.
    Questa concezione continuista ha trovato alimento nel quadro politico di questi ultimi anni: in partiti italiani che hanno trovato molto comodo fingere di allearsi con il Partito sardo del 1921 (non degli anni Ottanta), in settori del Psd'a che hanno in qualche modo convalidato l'equivoco di una organizzazione quasi totalmente autonomistica e meridionalista e solo marginalmente indipendentista. In fondo, sta anche in questo equivoco la debolezza del Partito sardo dimostrata nella scarsa determinazione posta nell'affermare la necessità e l'urgenza, oltre che la pregiudizialità, di misure di governo "sardiste", tese, cioè, a conquistare alla Sardegna elementi di sovranità, di indipendenza o, quanto meno, di non dipendenza.
    Anche la posizione "strumentalista" nasce da preoccupazioni di continuità e trova alimento in un bisogno di offrire garanzie esterne per ottenere un invito a frequentare il salotto del sistema politico italiano. Il ragionamento che sottende tale posizione è, grosso modo, questo: "Noi siamo federalisti e l'indipendenza che noi rivendichiamo è lo strumento, il grimaldello per aprire le porte del federalismo". E la conclusione, neppure troppo sottintesa, è: "Se qualcuno potesse dimostrarci, con i fatti e non solo teoricamente, che la Sardegna potrebbe stringere patti federali su un assoluto, non contestato né contestabile piano di parità, la nostra opzione indipendentista cadrebbe da sola, poiché è strumentale rispetto al federalismo".
    E' una posizione sbagliata non solo e non tanto perché travisa la lettera e lo spirito dello statuto che afferma essere il federalismo vincolato all'indipendenza e non viceversa. E' sbagliata non solo e non tanto perché, anche concettualmente, sarebbe suicida il popolo che vincolasse la conquista dell'indipendenza a condizioni con cui esso stesso si è impastoiato, è sbagliata perché è una posizione subalterna. Subalterna a una vecchia concezione dello stato, in crisi non solo in Italia e in Europa occidentale ma anche nell'Est europeo come stanno a dimostrare le rinascenti e mai sopite questioni delle nazionalità in Urss. Subalterna a una cultura federalista che ragiona per schemi statuali se non statalisti e al rinnovamento della quale, dobbiamo ammetterlo, noi sardisti non abbiamo contribuito se non con enunciazioni di principio. Ma è subalterna (fino a esserne timorosa) a una cultura della sinistra in Sardegna che è, parlando per eufemismi, obsoleta e che come massimo di federalismo è riuscita a banalizzare l'idea sardista di una "camera delle nazionalità", progettando una "camera delle regioni". E a questa idea, forse per ragioni di buon vicinato con la sinistra italiana, anche settori del Psd'a si sono convinti. Parliamo di subalternità perché non c'è chi non veda in questa posizione il tentativo di omologare il Partito sardo al sistema politico in Sardegna nel quale, prima o poi, tutti i partiti diventeranno federalisti come tutti divennero autonomistici, tutti sono diventati ambientalisti.
    Delle quattro posizioni, la più infantile è quella estremista. Perché è l'unica senza progetto, se non quello di raggiungere l'indipendenza. Per fare cosa, per governare come, per andare dove, sembrano essere dettagli di poca importanza. Minutalla, insomma, infantile e pericolosa. Ci sono alcune questioni a cui una posizione simile non può rispondere, se non riesumando i cadaveri di un paio di dottrine totalitarie.
    E' davvero pensabile raggiungere l'indipendenza quando il Partito sardo avrà raggiunto, poniamo, il 51 % dei voti? E' pensabile costruire una società indipendente contro il volere o l'indifferenza del 49% dei sardi? E' pensabile, oggi, quando persino il PCUS tenta di liberarsi di un simile peso, pensare a uno stato che si identifichi con il Partito? Ed è pensabile progettare una simile mostruosità per una società come quella sarda che nei secoli non solo ha espresso tutto l’odio possibile verso il centralismo ma si è "costruita" secondo modelli comunitari, di etnie comunitarie? Sono solo alcune delle questioni che è corretto porsi prima che il popolo sardo riscopra il gusto di mandare a quel paese gente che vorrebbe liberarlo da oppressori per mettersi al loro posto. Tentazione che non ha neanche il pregio della novità, della primogenitura, visto che di liberatori/tiranni è piena la storia sarda. Dei resto, il fanatismo non è solo una pericolosa sciocchezza: costituisce un alibi perfetto per chi assume l'indipendenza come una bella utopia senza storia.
    La formazione di queste tre tendenze, e delle posizioni politiche che esprimono, è il frutto, forse non desiderato ma certo inevitabile, della vaghezza della nostra iniziativa politica e culturale seguita al congresso di Porto Torres e della inadeguatezza di un nuovo gruppo dirigente tetragono al dibattito interno e incline al trasformismo. Nel 1981 (ma le basi furono gettate due anni prima a Oristano) furono preparati i tre grandi recipienti dell'indipendenza, del socialismo, del federalismo. Dentro ciascuno di essi, nel 1984 a Carbonia mettemmo tredici recipienti più piccoli. E poi basta. Sia i grandi sia i piccoli recipienti sono rimasti vuoti, arrugginiti da un pragmatismo scambiato per virtù politica anziché per quello che è, un morbo della politica; consunti dalla stagnazione.
    Per la verità tentativi di affrontare le questioni furono fatti con Il Solco" nei suoi due anni di vita, ma vanamente. Per tutti un dato: su “Il Solco" hanno scritto, nei due anni, solo dodici membri dell'allora Comitato Centrale, quasi mai per affrontare questioni di linea politica e ideale. Se considerazioni generali da un simile dato è possibile trarre, queste vanno nella direzione di un sostanziale disinteresse del gruppo dirigente al dibattito e alla circolazione delle idee. In quel dato c'è comunque l'avviso di quel processo di stagnazione che neppure il XXII Congresso di Quartu riuscì a bloccare. Non vi riuscì per una serie di ragioni, le più importanti delle quali sono forse che in quella nostra assise si codificò la indifferenza di una strategia politica e ideale rispetto alla gestione del Partito e la fungibilità del gruppo dirigente e si sancì di fatto la confusione dei ruoli dei Partito. L'«investimento» che il Psd'a aveva fatto sul governo della regione, ha fatto mettere in second'ordine idealità e progettualità. E questo volano della confusione ha girato con una forza crescente, tanto grande che ancora oggi non si riesce a rallentarne la corsa.
    Si diceva del frutto non desiderato ma inevitabile della mancata strutturazione delle linee guida della nostra politica: indipendenza, socialismo, federalismo. E' il frutto della stagnazione.
    In otto anni, da Porto Torres ad oggi, non abbiamo ancora detto che cosa siano l'indipendenza, il socialismo, il federalismo che abbiamo proposto al popolo sardo come obiettivi ma anche come modi per spezzare la condizione di subalternità dei sardi. Questo non ha impedito ma anzi ha consentito che ad una linea ideale si sostituisse una linea materiale o, forse, più linee materiali che, inevitabilmente, hanno portato il Partito ad una indeterminatezza ideale in cui, sempre più, questi obiettivi si sono ideologizzati, posti fuori dalla portata della politica e della storia.
    Si tratta oggi di trasformare indipendenza, socialismo e federalismo da ideologia in progetto. E si tratta, dunque, in primo luogo, di definire di che cosa parliamo, quale sia il senso della nostra scelta e della nostra proposta.
    Un concetto chiaro a tutti è che indipendenza è rottura della dipendenza, che federalismo è un modo dei sardi di porsi come soggetti nella situazione di interdipendenza esistente nel mondo, che socialismo è la forma di "contratto sociale" che fra di loro i sardi dovrebbero stringere. Un concetto altrettanto chiaro a tutti è che questi obiettivi, in una società complessa com'è quella sarda, possono essere raggiunti solo con una battaglia politica e democratica, non insurrezionale.
    Detto questo, che è comunque patrimonio acquisito, non abbiamo ancora detto molto e comunque niente che delimiti e definisca le questioni poste dal Partito con la sua opzione. Ideologicamente tutti capiscono che cosa voglia dire indipendenza e, con gradi più o meno approssimati, che cosa vogliono dire socialismo e federalismo. Ma se passiamo al progetto di una società sarda indipendente e socialista, al senso che bisogna darle e al consenso necessario per attuarla o quanto meno per disegnarla, le cose cambiano e ci troviamo nel centro della indeterminatezza.
    Indipendenza per fare cosa? Per sostituire lo stato sardo allo stato italiano o per rinnovare nelle forme e nella sostanza l'organizzazione della società? Per spezzare ogni forma di centralismo, almeno nei limiti in cui ciò sia possibile senza cedere all'anarchismo, o per sostituire semplicemente uno stato sardo allo stato italiano?. Per consentire alla società sarda il libero esercizio del suo diritto all'autodeterminazione o per accentrare in Cagliari anziché in Roma il potere e le sue articolazioni?
    In altre parole, noi pensiamo che l'indipendenza sia un processo che affonda le sue radici e la sua necessità nella civiltà della Sardegna oppure crediamo che questa idea, nata nella nostra testa illuministica, vada applicata alla società?
    Sono questioni nate nel momento stesso della scelta indipendentista e che, in questa o in altra forma, noi stessi ci siamo posti immediatamente. A tali questioni non solo non abbiamo dato risposta, non le abbiamo esaminate. Quasi che i nodi di una proposta così rivoluzionaria potessero essere sciolti per noi dalla sua necessità storica.
    O quasi che, lanciata la grande sfida, l'avessimo temuta e avessimo rinunciato a dotarci delle armi necessarie a sostenerla. Non si può spiegare altrimenti il fatto che, in otto anni, il Partito non sia stato coinvolto in un dibattito e in una riflessione sulle sue stesse proposte.
    Vero è che il processo di omologazione del nostro Partito a quelli del sistema politico italiano ha comportato una indifferenza verso gli obiettivi del nostro progetto in questo come in altri ambiti. La distinzione tra i partiti, tra il nostro e gli altri, è sempre meno fondata sui valori, sugli scopi e sempre più sulla quantità del potere esercitato, facendo perdere così al Partito sardo una parte non piccola di quella forza ideale di attrazione che ne aveva caratterizzato la rinascita nei primi anni ottanta. L'omologazione - che per altro non è del tutto compiuta - ha portato settori importanti del Partito a schierarsi con la sinistra italiana intorno all'esaltazione di un fenomeno come il supposto aumento dell'occupazione che rappresenta, anche se la realtà dovesse essere quella annunciata, un dato di crescita economica senza sviluppo. 0 a mutuare dentro la nostra visione del mondo un concetto, 9a regione è lo stato in Sardegna" che fa parte di quella cianfrusaglia ideologica della sinistra italiana in Sardegna che considera lo "stato nazionale unitario" un valore e non quello che è, un reperto ottocentesco.
    Un ritorno del Partito alla progettualità e alla finalizzazione della sua azione politica è necessario e urgente. Battaglie come quelle per lo statuto e per la flotta sarda (annegata ormai nel compromesso la battaglia per la zona franca) o come quella per la negoziazione di un vero patto costituzionale sulla base del "Pacchetto autonomistico" rappresentano sì un ritorno alla progettualità, ma siamo ancora lontani da un ritorno alle finalità dell'azione e della elaborazione, rappresentando il governo non più uno strumento per intervenire nella e a favore della società ma, spesso, un fine buono in sé e per sé.
    Se consideriamo la finalità come la cima di una scala e i progetti come gradini, è difficile vedere dove, a quale altezza e con quale coerenza si situino i gradini-progetti, né è legittimo dire che tanto saranno essi a trovarsi una collocazione.
    Perché progettualità e finalità siano un tuttuno nella teoria sardista, in quella rivoluzione culturale che dovrà portare a umanesimo sardista, dobbiamo necessariamente definire quale sia la finalità, per che cosa combattiamo, quale visione della società informa la proposta che facciamo al popolo sardo.
    Che sia una visione indipendenti s tic a, socialista e federalista è scontato. Tentiamo di dare allora significato, immaginando una rete i cui nodi siano il punto di contatto dei tre elementi della nostra strategia e nella quale raccogliere lo sciame di progetti che saremo capaci di fare, proporre e realizzare. Intanto è e deve essere naturale che tutti e tre gli elementi della nostra teoria (indipendenza, socialismo, federalismo) e i risultati della nostra progettualità devono trovare alimento nella nostra cultura e civiltà, senza per questo rinunciare a tutti quegli apporti che il pensiero moderno è capace di dare in termini di nuovo umanesimo, senza violentare il senso della civiltà sarda fondata sul comunitarismo, sul solidarismo e sull'autonomia delle comunità. Per fare un esempio di questi tempi, nessun impulso alla modernizzazione (i cui parametri, per altro, sono stabiliti in società diverse e a volte speculari rispetto alla nostra) può indurre il Partito a favorire una politica dell'ambiente basata sull'esproprio dei terreni comunitari e quindi sull'esproprio di una parte essenziale dell'identità etnica delle comunità. Mi riferisco, per chiarezza, al sistema dei parchi e delle riserve e alle relative chiusure.
    Ecco che, così, l'indipendenza che noi vogliamo non può essere tesa alla creazione di una struttura che sostituisca il dominio dello stato sardo a quello dello stato italiano. Opportunamente, ma in maniera necessariamente timida, la proposta di nuovo statuto d'autonomia, pone al centro del sistema autonomistico nazionale il comune. E, ancora opportunamente, la struttura di governo della nazione sarda è una struttura aperta a una articolazione del potere diversa da quella conosciuta, pur avendo (né può essere altrimenti visto che si tratta dello statuto di una autonomia e non la costituzione di una indipendenza) per riferimento lo stato al quale continuiamo ad appartenere. Con tutte le pastoie che ne conseguono. In poche parole si disegna, per l'autonomia di una regione, quel che andrebbe disegnato (con poteri progettuali evidentemente superiori) per la indipendenza della nazione: ma indipendenza con due facce, una verso l'esterno e una verso l’interno.
    La Repubblica sarda indipendente, in questa tesi che proponiamo alla discussione, non sarà organizzata secondo moduli statuali. Non sarà un nuovo stato nazionale per definizione centralista, ma un sistema orizzontale di poteri, coordinati da un governo nazionale di tipo federale per gli aspetti che abbiano interesse generale: trasporti, ambiente, sviluppo economico, etc. Conseguentemente le città non saranno il luogo geometrico dei potere e della sua struttura burocratica, ma un luogo restituito alla produzione di servizi avanzati e comunque di carattere nazionale che sarebbe dispendioso ed inutile ripetere nelle singole comunità. Penso ai servizi delle comunicazioni, delle banche dati, della ricerca di mercato per la produzione nazionale e per i suoi segmenti anche differenziati; penso alle grandi istituzioni culturali che pure non potranno non avere aspetti di decentramento funzionali alla crescita culturale della articolazione comunitaria; penso all'Università che avrà nelle città sarde la sede delle funzioni di coordinamento delle sue articolazioni diffuse nel territorio nazionale.
    Questa visione è funzionale a un decentramento o, ma è lo stesso, a una policentricità dei poteri; ciò vuol dire che nelle nostre capacità di progettare lo sviluppo della società sarda ci deve essere quella di far sì che i poteri, politico, economico, culturale, finanziario, non abbiano alcun interesse alla contiguità spaziale. A questo si può arrivare attraverso la trasformazione del governo in un esecutivo non ministeriale (o assessoriale, che è lo stesso) ma collegiale nel senso più pregnante del termine, un gruppo di uomini politici non tecnici ma "innovatori politici”, non specializzati ma generalisti informati; un gruppo, cioè, capace di coordinare spinte, iniziative, progetti che vengano da una società che - lo dimostrano le purtroppo frustrate abilità inventive di decine di migliaia di lavoratori - ha già oggi un alto grado di progettualità. E' un governo insomma che dirige la società collettivamente e non la gestisce settorialmente e individualmente.
    Sembra un paradosso ma non lo è: una società complessa come anche quella sarda è, non ha bisogno di governanti specialisti ciascuno in un settore o in un sottosettore, ma di politici capaci di guidare le spinte all'autogoverno provenienti dalla società e di assicurarne l'effettivo esercizio. Come, oltre che attraverso il governo? Attraverso un parlamento che riunisca in sè la capacità di rappresentare sì le forze politiche operanti in Sardegna ma anche le regioni storiche dell'isola così come esse si autoidentificano.
    Il meccanismo attraverso cui questo si può ottenere è quello dei collegi uninominali coincidenti con le regioni storiche stesse e da cui, indipendentemente dalla loro consistenza demografica, provenga almeno un deputato. Un processo di questo genere presuppone, naturalmente, che si gettino a mare le tentazioni sperimentate per esempio con le comunità montane - di disegnare sulla carta le regioni e che si premino le volontà di aggregazione delle popolazioni basate su antiche e nuove ragioni storiche, culturali, economiche. A un parlamento così fatto, per il suo carattere quasi federale, spetterà fare leggi di orientamento, leggi quadro in cui il carattere nazionale di una norma, di un provvedimento non contrasti ma anzi esalti l'autogoverno delle comunità nel loro aspetto unitario o in quello del l'associazione regionale o per interessi comuni. Le leggi prescrittive, associate a quelle sanzioni senza le quali una legge non può essere considerata tale, sarebbero così sottoposte al doppio vaglio delle parti politiche e della comunanza di interessi nazionali.
    Il disegno che così si va delineando non rimanda tutto al " dopo- indipendenza" e, anzi, se esso ha credibilità, alcuni degli elementi (decentramento dei poteri, collegialità di governo, elezioni del Consiglio regionale per collegi uninominali per quanto possibile coincidenti con le regioni storiche) possono essere sperimentati fin da ora, restando inteso che l'innovazione di questo progetto potrà dispiegare tutta la sua positività solo in un regime di indipendenza. Vogliamo dire che una cultura dell'indipendenza e del federalismo può essere acquisita da subito, entro questo progetto, anche se si tratta di una cultura dell'indipendenza e del federalismo proiettata esclusivamente verso l'interno.
    Va da sè che questa rete è capace di inglobare lo sciame di progetti che saremo capaci di fare e di sollecitare solo se questa progettualità a tale rete tenda. In altre parole, sarebbe inutile, se non del tutto controproducente, come purtroppo spesso è accaduto e accade (penso alla legge su parchi, per esempio), agire fuori di un quadro di riferimento che abbia al centro proprio quegli elementi che fanno dell'indipendenza una necessità della società sarda. Qualunque cosa nasca fuori, o peggio contro, la civiltà sarda, qualunque cosa si ponga l'obiettivo non di trasformare, di modernizzare la civiltà sarda dall'interno ma di cambiarla violentemente non solo ha possibilità di successi solo momentanei, ma porta all'imbarbarimento della società stessa e della vita di relazione al suo interno. Come dimostrano, per esempio, le violenze contro gli amministratori delle zone interne. O come dimostrano gli episodi tragici di autofagia fra sardi, vere e proprie stragi incrociate spesso effetto di moduli comportamentali indotti o dettati dall'esterno o di vere e proprie violenze fatte sul filo dell'imposizione di norme estranee a un senso del giusto che ha radici profonde nella storia dei sardi.
    Si pone qui un altro problema, certo di difficile soluzione e, a volte, persino di complessa definizione. E' un problema che così si può enunciare: "E' possibile non solo l'indipendenza ma anche la semplice affermazione della propria identità nazionale senza porre la questione di una giustizia autonoma? Ed è possibile una giustizia autonoma che non fondi le sue ragioni sulla e nella società che la esprima, così come è successo e succede in qualsiasi società? Dobbiamo rassegnarci ad essere amministrati, noi nazione sarda sviluppatasi intorno ad una diversità etnica e culturale, da una giustizia estranea che solo casualmente è italiana, visto che poteva essere francese, inglese o austriaca”.
    La risposta è evidentemente no. Ma da questa negazione all'affermazione credibile di un progetto, il passo è troppo lungo perché si possa andare, al momento, al di là dell'enunciazione del problema.
    La società sarda tradizionale ha conosciuto e risolto con un sistema giuridico autonomo, naturale ma anche colto, i suoi conflitti interni. Ma non conosceva e, in quanto della società tradizionale permane, non ha acquisito le forme di conflitto proprie di una società complessa: concussione, corruzione, peculato e così via delinquendo.
    “Lezes medas, pòpulu mischinu" è la considerazione nata con la complessificazione delle non-ne e dei delitti.
    Problema complicato, dunque, ma non per questo eludibile. Ed eluso solo perchè il Partito sardo, dal gruppo dirigente delle origini al gruppo dirigente postbellico a gran parte del gruppo dirigente attuale, non ha fondato le sue ragioni autonomistiche prima e indipendentiste poi su reali basamenti etnici e nazionali, ma su basi istituzionali ed economiciste.
    E questo, anche questo, ci porta alla necessità di una rivisitazione critica del nostro passato, alla urgenza di sottopporre la storia del Partito sardo e della formazione del suo gruppo dirigente ad una corretta ma serrata critica storica per trarre da qui forza, legittimazione e fondamento per quella rifondazione del Partito che, pena la sua marginalizzazione, è quanto mai urgente.
    Questo documento non ha, né potrebbe avere, la pretesa di condurre compiutamente questa rivisitazione critica ma ha, questo sì, la volontà dì proporre alcune delle linee lungo le quali pensiamo sia necessario procedere nella rilettura della nostra storia. Ciò è necessario fare certo non per rinnegare o per abiurare, ma per capire dove poggiano le ragioni della nostra diversità e originalità e da dove sorgono le ragioni di una costante tendenza alla omologazione. E'questa una contraddizione che il Partito si porta dietro dalla nascita e che ha condotto in diverse occasioni a crisi di grosse dimensioni. Risolvere, o almeno capire, i nodi di questa contraddizione è un compito che un gruppo dirigente deve porsi se tale vuol essere e non un comitato di gestione.
    Vanno innanzitutto rifiutate le definizioni che delle anime del Partito sardo ha dato e da la storiografia della sinistra statalista. Per essa due erano fondamentalmente le anime del sardismo sia nel primo sia nel secondo dopoguerra: l'anima progressista incarnata da Lussu e dai futuri scissionisti del 1948 e l'anima moderata incarnata da Bellieni, Puggioni, Oggiano.
    Secondo tali storiografi il progressivismo derivava dalla visione "nazionale" (nel senso italiano, va da sé), e il moderatismo dalla propensione al "nazionalismo" regionale. Essi ragionano secondo i parametri di progresso, conservazione, sinistra, destra propri della cultura e della politica italiana senza rapportare i loro giudizi alla condizione della Sardegna e agli interessi specifici dei sardi.
    E' progressista, di sinistra ed "europea" l'adesione di Lussu al Fronte popolare del 1948; è conservatrice, centrista e provinciale la scelta del direttorio sardista di non aderirvi e di "combattere contro tutte le altre liste nessuna esclusa"; è titubante la posizione di Mastino e di Titino Melis che prima si dicono propensi ad aderire e che poi non lo fanno dietro la spinta della base. Tutto insomma è tarato sul centro, ed è dalla omologazione degli atteggiamenti rispetto a quelli tenuti dai partiti in Italia che questa storiografia (la quale è, però, purtroppo la sola che si occupi di sardismo) mutua giudizi sul gruppo dirigente del Partito sardo.
    Va detto, ora, con estrema chiarezza che questo dell'adeguamento è un pericolo ancora attuale e che i giudizi debbono essere drasticamente rovesciati. E se proprio vanno fatte graduatorie di progressivismo e di conservazione, tra Lussu e Bellieni il vero conservatore è il primo, non il secondo. Conservatore, va da sé, non in rapporto alla politica e alla cultura politica italiana di sinistra, che anzi lo incensa, ma in rapporto alla civiltà sarda la quale, per l'opera svolta anche da Lussu contro la questione nazionale sarda, si è avviluppata per decenni intorno a processi di omologazione o, peggio, di omogeneizzazione che hanno rischiato di condurre la Sardegna a una totale perdita di identità.
    Bellieni (e gran parte del primo gruppo dirigente del Psd'a) non aveva chiaro il fondamento etnico e nazionale della questione sarda e anzi riteneva, in questo in sintonia con Lussu, che essa fosse parte di una più generale questione meridionale e che scopo dell'azione fosse di rifondare la politica italiana attraverso le autonomie. Ma conservò sempre quello che gli storiografi statalisti di sinistra definiscono Il provincialismo" e che invece era una coscienza anticolonialista, magari economicista, magari "nazionalregionalista", magari non ben motivata, magari basata sul nazionalismo volgare del "a mare i continentali", ma certa e convinta.
    Si pone qui una questione, quella della contraddizione prirnaria", di cui forse era difficile avere coscienza nel terzo decennio di questo secolo ma che ha segnato la vita successiva del Partito. La questione, cioè, se il nodo fondamentale della Sardegna fosse nazionale (con tutto ciò che questo significa in termini di unicità di lingua, società, civiltà, cultura, sistema produttivo, dipendenza coloniale, etc) o semplicemente economico (sottosviluppo, disuguaglianza dalle "altre" regioni, mancata crescita) e sociale (disparità culturale, arretratezza, etc). Se cioè la lotta per l'autonomia dovesse avere i caratteri nazionali della rivendicazione dell'indipendenza o quelli di un processo tutto interno allo stato che si risolvesse in un riequilibrio tra zone forti e zone povere e nel decentramento di competenze.
    In questo nodo, irrisolto fino agli anni Ottanta, sta il nucleo della nostra vicenda di Partito. E da questa contraddizione di prospettive nascono anche le attuali propensioni delle diverse correnti di pensiero all'interno del Psd'a che tuttavia, a differenza di quanto avveniva in passato, non riescono a confrontarsi in un dibattito chiarificatore e restano nell'ombra. Con il risultato che esiste sì, oggi, una polarizzazione al nostro interno, ma questa avviene sui terreni, che un Partito moderno deve rifiutare, del personalismo, della influenza cantonale, del notabilato e non sul terreno delle posizioni e dei progetti politici.
    Così che la selezione dei gruppi dirigenti si riduce o a una lotteria del successo o si trasforma in una nomina da parte di chi detiene poteri cantonali e locali. E non è, come dovrebbe essere, il frutto di un dibattito politico in cui le posizioni camminino con le gambe di chi se ne fa portavoce. Vogliamo dire che la qualità dei gruppi dirigenti complessivamente peggiora, perché questo tipo di selezione incoraggia il trasformismo, mortifica le competenze, favorisce l'emergere della mediocrità, la quale, proprio perché tale, non costituisce alcun pericolo per chi ha o ritiene di avere il dominio su agglomerati del Partito o sul Partito intero.
    Quando nasceva e si affermava il Psd'a, in tutta Europa la questione delle nazionalità era all'ordine del giorno e, dunque, non è credibile pensare che il gruppo dirigente del Psd'a ne fosse all'oscuro. Del resto, Lussu aveva coscienza della questione e, affermando che la Sardegna era una nazione mancata, in sostanza negava il problema. Il fatto è che i fondatori del Partito avevano, semplicemente, una prospettiva diversa che appare chiara dalla lettura dei testi di Bellieni e di Lussu (e, naturalmente, degli altri dirigenti sardisti come Puggioni, Oggiano, Mastino). Una prospettiva che è ben definita nel secondo articolo dello statuto approvato nell'aprile 1921:11 Partito si propone di promuovere la rinascita della Sardegna ... di ottenere l'autonomia politica, economica e amministrativa nell'unità della Nazione italiana, di risanarne il costume politico chiamando rappresentanti delle classi operaie ed agricole a sostenere nelle amministrazioni i loro interessi che sono gli interessi vitali dell'Isola... Il Partito sardo d'azione è il primo nucleo di un più vasto movimento autonomista che dovrà sorgere in tutta Italia allo scopo di dare allo stato un più sapiente ordinamento in corrispondenza alle esigenze spirituali, culturali, economiche e geografichedell'intero popolo italiano".
    Il Psd'a dunque nasce come sezione sarda di un partito che non vedrà mai la luce e con tre esigenze che sono interne alla "Nazione italiana" alla quale c'è coscienza e volontà di appartenere: a) conquistare un regime di autonomia vista come limitazione dell'ingerenza dello stato; b) contribuire a risanare il costume politico dell'Italia; e) partecipare ad una migliore organizzazione dello stato in vista di un soddisfacimento di esigenze, quelle culturali comprese, che si ritengono comuni a U'intero popolo italiano" del quale i sardi sono una parte indistinta. E' una prospettiva, questa, che rimane nello statuto del Partito per 47 anni, fino al 1968, ma che non poteva non lasciare frutti duraturi anche per il seguito: si pensi solo che la miniscissione del Movimento autonomista popolare sardo di Bruno Fadda avverrà agli inizi del 1975.
    E' una teoria, quella del primo statuto che, come già abbiamo detto, è rinchiusa in un ambito istituzionale ed economicista e lontana da problematiche di carattere etnico. Nella pratica politica e nella elaborazione successiva, questa visione porta ad atteggiamenti da un lato di normalizzazione del sovversivismo antistatuale proprio dei sardi e dall'altro di rivendicazionismo di tipo anticolonialista, ancora una volta solo economicista e non nazionalista o etnico. Non esistendo o essendo rifiutato il concetto di stato come espressione di una nazione dominante e delle sue classi dominanti, il rapporto tra Sardegna (che in quell'ottica sardista è Meridione) e Continente è vissuto come rapporto di sfruttamento economico e basta, come disuguaglianza dovuta all'accapparramento di beni e risorse al nord.
    Da qui nascono i rifiuti per tutto ciò che sostiene questo sfruttamento o che si ritiene possa sostenerlo, per cui si ha il paradosso di un partito che diventa sempre più anticolonialista e allo stesso tempo sempre più sostenitore dello stato nazionale (anche se, a volte, in momenti di particolare irritazione persino Bellieni si lascia andare a invettive separatiste). Tutte le ideologie esterne vanno rifiutate. Bellieni lo fa con il socialismo non in quanto teoria liberatrice; anzi il programma scritto per il futuro partito ha forti contenuti socialisti persino estremisti (viene proposta la "decimazione dei grossi capitali", per esempio). E del socialismo scrive che esso ha "un serio contenuto per la formidabile dottrina marxista che fascia le reni al partito, dottrina che è l'elemento animatore di ogni sincero movimento di rinnovarnemo',. Ma Bellieni pensa che si tratti di una di quelle formule "che non hanno significato nell'ambiente politico" della Sardegna. Il partito socialista è, infatti, "risoluto sostenitore degli interessi degli operai organizzati, che sono in antitesi con i nostri”.
    Il progetto di partito sardo è quello di una organizzazione "interprete delle aspirazioni di una regione proletaria che vuole mettersi alla pari delle regioni più ricche d'Italia" e di oppositrice "alla brutale sopraffazione economica dell'Italia superiore". Lo stesso atteggiamento porterà Bellieni a polemizzare in maniera molto aspra con Lussu, accusato di essere succube del Partito d'azione.
    In conclusione, è la mancanza di una considerazione della Sardegna come nazione che mette i primi sardisti di fronte al dilemma di fare come Lussu che era disponibile alla importazione di dottrine e di politiche "nazionali" o di fare come Bellieni che è invece decisamente contrario. Nell'uno c'è la volontà di mettere la Sardegna nel circolo della politica italiana (scriverà a Renzo Laconi: "Niente vera lotta politica, niente lotta di classe, fino alla nostra prima organizzazione degli operai e dei contadini: dato che segna l'inizio della nostra vera storia-"). Nell'altro una solida diffidenza verso tutto ciò che, a torto naturalmente, pensava impossibile tradurre in sardo.
    E', o dovrebbe essere, chiaro che i due grandi dirigenti sardisti sono qui assunti come espressione simbolica di due modi di pensare al Partito e alla società sarda. Nella realtà, intorno ad essi di raggruppa, o si divide tutto il gruppo dirigente sardista. Quanto alla base, sia nel primo sia nel secondo dopoguerra, essa segue più il carisma dell'uno o dell'altro piuttosto che l'una o l'altra concezione politica. Racconta Lussu che subito dopo la guerra, i tre quarti del Partito erano Il separatistC, ma questo non impedì che la riorganizzazione del Psd'a avvenisse intorno a personalità delle quali gli iscritti tendevano ad essere clientes indipendentemente dal fatto che, in larghissima parte, esse avessero intendimenti tuttaltro che separatisti".
    Né impedì che il gruppo dirigente, anziché organizzare politicamente questo sentimento, anzichè, cioè, trasformare il diffuso sentimento di separatezza (e dunque di diversità) in coscienza nazionale di identità, facesse di tutto per cambiarlo in adesione allo stato. Uno stato naturalmente diverso da quello conosciuto, uno stato decentrato e articolato in regioni, ma pur sempre stato nazionale e unitario. Si trattava di qualcosa di molto più avanzato rispetto al piatto centralismo dei partiti italiani appena ricostituitisi in Sardegna, ma niente che - come la storia ha poi dimostrato - non potesse essere recuperato sia attraverso operazioni di trasformismo sia attraverso sinceri autoconvincimenti.
    Da che cosa nascesse questo atteggiamento non è difficile capire ove si pensi al terrore dell'«isolamento» che portava gli uni a ricercare dottrine sociali fuori del sardismo e gli altri a cercare alleanze politiche regionali nel mezzogiorno d'Italia. Una paura dell'«isolamento» che condurrà fra l'altro il Partito ad alleanze elettorali, che oggi appaiono certamente singolari, con l'olivettiana "Corminità" o con il Partito repubblicano, allora come oggi autonomista ma ferocemente statalista o con il Partito comunista che non ha mai nascosto il suo statalismo. Questa visione del rapporto Sardegna/esterno ha segnato e, in qualche modo segna ancora, la vita dei gruppi dirigenti del Psd'a e denuncia la loro debolezza e la loro inadeguatezza nell'essere pesci nell'acqua della civiltà sarda.
    La non scrittura della cultura sarda, la complessità di trasmissione e comunicazione universale (nell'universo sardo. s'intende) e la difficoltà di generalizzazione "colta" dei suoi elementi ha fatto sì che si scambiasse per «isolamento» ciò che era, ed è, semplicemente incapacità di trarre dalla nostra civiltà i fondamenti e le legittimazioni di una dottrina politica originale ed autonoma. A questo si accompagna, a volte, una riduzione a folklore della cultura nazionale. E dal folklore possono nascere spettacoli, non progetti.
    Eppure solo una convinta e attenta immersione nella cultura e nella civiltà della nostra terra può fondare una teoria e una pratica politica adeguata alle necessità della Sardegna. E può sottrarre il Partito sardo a un destino mortale di omologazione e, dunque, di perdita di identità/diversità.

  2. #22
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    Predefinito Re: 1989. XXIII° Congresso nazionale del PSd’Az.

    Per un impegno nuovo

    Contributo al dibattito congressuale, di Nanni Loi


    PREMESSA
    Quel che segue, impostato inizialmente come tesi congressuale, vuole restare solo un contributo al dibattito precongressuale congressuale. Ciascuno dei paragrafi potrebbe - anche - costituire oggetto di mozione se al termine si dà il suo esatto significato, quello cioè d'una richiesta presentata con l'intendimento di promuovere una deliberazione specifica dell'assemblea.
    Sarebbe stata da preferire, specie in questo particolare momento, un'assemblea chiamata a discutere su tesi, cioè su proposizioni programmatiche e proposizioni di pensiero, in quanto strumenti più idonei per il dialogo congressuale al fine di contribuire, in maggior misura, al raggiungimento d'una risoluzione "decisoria" che valga a confermare, a modificare se necessario, comunque ad affermare la linea politica ed a delinerare un praticabile progetto per l'ultimo decennio di questo secolo.
    Senza presunzione e senza pensare d'impartire lezioni a chicchessia, i sette paragrafi che qui compongono quella che è stata da me definita tesi (cioè l'atto di porre una serie di suggerimenti) vanno intesi come modo, da parte di un militante, di concorrere nelle scelte che il Partito si appresta a compiere.
    Non v'è superbia nell'affrontare gli argomenti né arrogante pseudo- saccenteria (nessuna può ritenersi storico, filosofo, ideologo, economista od altro ancora e meno ancora tutte queste cose insieme) ma un tentativo modesto di svolgere alcuni ragionamenti sulla scorta d'un minimo d'esperienza, d'un tantino di osservazione delle cose che avvengono intorno a noi e che per avvertirle non occorrono doti da grande "tuttologo": è una scienza inesistente la "tuttologia" anche se in qualcuno, con disdicevole inopportunità, sorge di tanto in tanto la voglia di fame sfoggio.
    Può darsi che le cose dette siano anche fin troppo ovvie, che abbiano scarsa rilevanza così come alcune considerazioni. Il contributo è dato in tutta modestia e modesto è, pertanto, il contenuto che - tra l'altro - non vuole assurgere a verità rivelata nè quale intervento d'uno che ritiene d'esserne il depositario: un solo Mosè, a memoria storica, risulta essere salito sul monte per ricevere in consegna le tavole della legge.
    Bene! Più terra-terra questo contributo si occupa:
    - delle nostre carenze (statutarie ed organizzative);
    - della questione ideologica;
    - degli organismi;
    - di linea, programma ed opinione;
    - dell'informazione;
    - d'un possibile rapporto internazionale;
    - del dilemma fra governo ed opposizione.
    Anche d'altro si sarebbe potuto occupare ma non si trattava di comporre un'opera "omnia" (posto d'averne le capacità).
    Non è stato affrontato il problema dei giovani, per esempio, ma è meglio che siano i giovani a trattarlo: al riguardo resta da citare, in questa premessa, che il problema dei giovani, non è di oggi se alla vigilia del IX congresso (3-4 luglio 1948 in Cagliari) Alma Sanna Delogu scriveva che " ... mi pare opportuno e giusto chiedere un maggior rispetto ed una maggiore considerazione per i giovani ... Al nostro Partito manca la voce dei giovani ......
    Ebbene, io mi auguro che questo XXIII congresso sappia trovare il modo di Mare voce ai giovani": mi pare, appunto, opportuno.
    Tutta questa modesta fatica intende, ed ha inteso, essere rivolta ai sardisti radunati sotto un "unico" sardismo ed era già terminata quando - casualmente - ho saputo dell'esistere anche di un "malinteso sardismo fatto di carrierismo, di cantonalismo, di caporalismo e mancanza d'idee e d'azione": con molta franchezza debbo dire che non ne conoscevo l'esistenza anche se, in uno dei paragrafi, faccio riferimento al "cantonale" ma solo per rilevare la distorta interpretazione che ne è stata fatta proponendone, perciò, una modificazione od una correzione.
    Adombrare, però, tutte le altre cose come vizi ascrivibili ai sardisti mi pare eccessivo ed anche offensivo per i vecchi e per i nuovi. Se nei vecchi sardisti fossero mancate idee ed azione forse, oggi, non saremmo al dibattito congressuale che si svolge da circa settan'anni: non si resiste tanto se mancano quelle due componenti, essenziali per costruire politica.
    Ai nuovi sardisti si deve lo stesso rispetto; molti di essi, pur provenendo da altre sponde, hanno cercato, in positivo, di mettere a disposizione del Partito l'esperienza maturata e maturare, a loro volta, esperienza dentro la "cultura sardista".
    Oltre che offensivo è gratuito dissertare su quell'argomento! Per certe prediche è necessario disporre d'un robusto pulpito ed è molto difficile riuscire ad autovalutare, appunto, la robustezza del proprio: il rischio, inutile, è di sopravvalutarla peccando, così, di superbia che, certo, dote non è.
    Agli "amici più grandi” (per usare l'espressione della Delogu già citata) da questa premessa mi pare opportuna una umile esortazione (e per "più grandi" intendo coloro che da sempre, non più quindi nei verdi anni, militano con alte funzioni nel Partito). Se ancora sentite le energie necessarie per vivere intensamente la vita di Partito, ed io Vi auguro lunga vita, spendetele anche per continuare a costruire: gli spazi d'egemonia sono propri dell'effimero. Ripensate al verso di Dante: voi, Amici più grandi, fate "come quei che va di notte, - che ne dotte". Dovete anche illuminare la strada a quelli che verranno per perpetuare quei principi su cui fonda il Sardismo che non finisce con noi (passiamo) ma resta oltre noi. Per questo - sono sicuro lo farete - Vi ringrazio.
    - Non posso fare a meno di chiudere questa premessa con le stesse parole (che indirizzo a tutti i congressisti) con le quali P. Mastino concludeva il suo saluto ad avvio del VII congresso (Oristano 17, 18, 19 marzo 1945) di cui fu presidente: "io vi invito ad accingervi ai lavori, disposti a manifestare con libertà assoluta le tendenze che rappresentano i vitali interessi isolani, verso i quali si rivolge da anni la nostra aspirazione".
    Riprendendo questa conclusione e facendola mia, ho inteso ricordare a tutti, prima a ine stesso, quanto sia importante dibattere e dialogare per non intaccare l'unità del Partito, che è un bene da conservare. L'unità va ricercata - però - sulle cose discutendo su di esse in piena libertà (si è più sinceri), nel rispetto della dignità di ciascuno e delle opinioni di tutti: senza intolleranze, pertanto.
    Ed è l'unità che ci serve per una presenza dei sardisti, di tutti i sardisti, nella società e al servizio di essa. Sarebbe inaccettabile, anzi lo è di sicuro, se si interpretasse la esigenza dell'unità nel senso di un servizio che il Partito dovesse rendere ad un gruppo, ad una corrente, ad un singolo che pensasse o di conquistare o di conservare (ritenendo in tutta superbia d'averla) una sorta di egemonia.
    Così, certamente, non sarà perché penso che prevarranno le ragioni del dialogo e dell'unità nella chiarezza.

    I. LE CARENZE
    I. I. L'unanimismo
    Ci si chiede da più parti dove stia andando il Partito. La preoccupazione è più che giustificata. Sarebbe stolto negare la sua esistenza. Sarebbe un errore non tener conto dei segnali resisi manifesti nelle ultime tornate elettorali. Sarebbe grave colpa cercare solo pretesti esterni per rifugiarsi nell'imperturbabilità: è auspicabile che le cause esterne siano sempre meno determinanti ma indipendentemente da ciò dovremmo spingere piuttosto ad una rapida correzione delle nostre carenze che alla disperazione.
    Le carenze non sono, a ben considerare, innumerevoli ma pur nella limitata entità numerica il loro esistere condiziona in misura notevole.
    Un'anomalia tutta nostra rispetto al modo "normale" di essere libera associazione ha il suo fulcro nella propensione all'unanimismo, che è negatore di ogni scelta, derivato dalla perenne transazione nella quale si è sempre più impastoiata l'attività di governo del Partito per cui ogni decisione presuppone una quasi obbligata convergenza generale che ha, quale conseguenza, il trasformismo, la tendenza al rinvio, le incertezze e i ritardi che pesano nel perseguire gli obiettivi posti dalla linea e dal progetto politico, il distorto rapporto militante - Partito-rappresentanti nelle istituzioni. Questa anomalia che soffoca la dialettica interna (stoltamente mal tollerata) pone all'attenzione - o dovrebbe porla - del Partito anche l'importante questione di come assicurare che i militanti siano messi in condizione di concorrere con metodo democratico a determinare le scelte del Partito, cioè riconoscer loro uno 'Istatus activae civitatis".
    Un tentativo, mal capito, venne fatto, per la verità, con la regolamentazione del Consiglio nazionale: regolamentazione disattesa da tutti gli organismi chiamati a concorrere per attuarla primo fra tutti, è paradossale, lo stesso Consiglio Nazionale. Eppure, se applicato correttamente, il regolamento del Consiglio Nazionale avrebbe potuto significare una svolta riformatrice nel governo del Partito. Così purtroppo non è stato e si è assistito ad estemporanei defenestramenti, tentati o riusciti, di Direzioni e di Segreterie, a ricomposizioni tentate o riuscite su base transattiva sino all'aberrante tentativo di propor-re un "quadrumvirato", a guisa di comitato di salute pubblica, per dirigere il Partito.

    1.2 - IL LEADER
    E' fuor di dubbio che alla situazione, di cui è detto in precedenza, si è arrivati anche per un'altra anomalia di cui dovremmo - in tutta fretta - sbarazzarci.
    Essa è costituita dalla diminuita autorità della Direzione del Partito. L'autorità di quest'organo, cui lo Statuto sembra affidare la maggior responsabilità del governare il Partito in base alle linee direttrici indicate dal congresso, è diminuita dal fatto:
    - che non ha sufficiente compattezza;
    - che non ha l'esclusività del l'interpretazione delle proposte di strategia e tattica politica;
    - che ha una guida unitaria solo formalmente;
    - che non è dotato sufficientemente di responsabilità collettiva.
    La mancanza di compattezza e l'assenza di esclusività non dipendono tanto dal fatto che con il sistema d'elezione della Direzione si può avere un organismo espresso da 9iste" diverse. Anocr più dipende da una progressiva confusione dei ruoli secondo una prassi deviante che si è, mano a mano, affermata e che ha consentito la formazione di non bene individuati (ma individuabili) organi paralleli - o quasi - alla Direzione Nazionale: si viene, così, a soffrire del malanno della diarchia Direzione Nazionale - altri organi che porta all'impossibilità del costituirsi della responsabilità collegiale. Il rimedio dovrebbe essere affidato soprattutto al ritorno d'una corretta prassi; la cosa, però, trova i limiti più rigidi nella debolezza umana ed allora, più che puntare sulla prassi è meglio andare subito alle modifiche statutarie necessarie per affermare il principio, e consolidarlo, che il Partito deve avere un leader unico e riconosciuto come tale pro-tempore (tre anni e rieleggibile).
    Può essere giunto il momento, quindi, di chiamare il congresso ad eleggere il Segretario del Partito. Si porrà fine, in tal modo a quella sorta di feudalesimo che pare si sia abbarbicato nel Partito e che rischia di far proliferare tanti 1eaders" più propensi alla gestione delle eccezioni alle regole piuttosto che ad assicurare l'applicazione corretta delle regole del gioco.
    Si tratta, evidentemente, di costruirsi una società di Partito ben regolata, con un centro d'autorità nel Segretario del Partito. Ma centro d'autorità non significa unicità di potere: guai ad interpretarlo in tal modo! Per centro deve intendersi il Capo della Direzione, la quale resta l'autorità del Partito, garante dell'applicazione delle citate regole del gioco.
    Al Segretario del Partito, eletto dal congresso, si devono affiancare due o più vice segretari eletti dal Consiglio Nazionale garanti, dentro l'autorità, delle diverse espressioni congressuali. La Direzione resta eletta dal Consiglio Nazionale ma di essa devono far parte il Presidente del Partito ed i rappresentanti, uno per ciascuno di essi, dei gruppi cosiddetti Il parlamentari". Nessun'altra figura è compatibile come componente della Direzione. Nessun'altra figura è compatibile come componente della Direzione. Deve essere la Direzione a I. nominare", non necessariamente dal proprio seno, il Segretario amministrativo.
    Spetta al Segretario del Partito costituire l'ufficio politico che, formato con i vice segretari, può accogliere anche componenti esterni alla Direzione purché facenti parte del Consiglio Nazionale: l'ufficio politico, organismo snello, ha la funzione d'esecutivo che risponde solo alla Direzione Nazionale dell'attuazione delle sue deliberazioni.
    S'imposta, in tal modo, quel necessario e corretto rapporto, oggi alquanto faticoso, congresso-Consiglio Nazionale-Gruppi parlamentari-Direzione Nazionale.
    Resta ancora da risolvere quell'importante questione già accennata - di come assicurare il concorso nelle scelte da parte dei militanti.


    1.3 LO STATUTO DEL PARTITO
    Una regolamentazione più moderna del Partito venne tentata durante lo svolgimento del 22' Congresso, celebrato in Quartu nel 1986, che poneva all'ordine del giorno le modifiche statutarie. Tentata regolamentazione ma non realizzata, o meglio, realizzata a metà. Questo dimezzamento ha finito per costituire un'anomalia. Ci si trova - oggi - con uno Statuto al proprio interno contradditorio: ciò sappiamo perché e come è accaduto creando, di conseguenza, il marasma statutario in cui s'impantanano anche le migliori intenzioni.
    Sono quindi importanti ed urgenti le riforme dello Statuto: il tempo a disposizione non è certamente quello più congruo per poter fare un buon lavoro.
    Come ovviare?
    E' una domanda che si contrappone alla eventuale obiezione che il tempo, appunto, non è sufficiente per cui non se ne fà niente. Torneremo, così, alla tecnica del rinvio; invece bisogna ovviare, si deve perchè si può.
    Il Congresso elegge una commissione affidandole il compito di predisporre la bozza statutaria riformata, di fare - insomma - la proposta.
    Sarà una commissione formata da esperti che dovranno anche illustrarla in diversi convegni a livello distrettuale, raccogliere le osservazioni e gli emendamenti e definire, quindi, la proposta da far discutere ed approvare dal Consiglio Nazionale quale rappresentante la suprema istanza del Partito post congresso: la commissione opera coordinata dal Presidente dei Partito, che la presiede, e dal Segretario Nazionale.
    Il congresso delibera la "delega" alla commissione, delinea gli orientamenti di massima, approva le norme che riguardano la elezione del Segretario, del Presidente del Partito, della Direzione e sua composizione definendole norme "d'immediata attuazione" da inserire, poi, in forma definitiva nel testo coordinato dello Statuto da approvarsi come detto in precedenza.
    Ad integrare la commissione verranno designati, uno per ciascuna, anche i rappresentanti delle liste che concorreranno per l'elezione della Direzione Nazionale:
    non saranno votati dal congresso che si limiterà a prendere atto della designazione.


    1.4 - L'ORGANIZZAZIONE
    La richiesta di migliore organizzazione non è nuova, non è di oggi ma è più che mai viva e sentita da tutto il Partito. Si dice che sia sentita anche da quella parte del Partito che aveva il compito di studiarla, proporla ed attuarla: quandòque bonus dormitat Homerus!
    L'esigenza di por mano all'organizzazione, almeno per i tempi moderni, la si fà risalire alla "grande e progressiva crescita del consenso a partire dal 1979": può essere vero, può essere giusto ma non è confortante, se quella è la data esatta, constatare che dopo nove anni ancora lamentiamo problemi di carattere organizzativo. E'un tempo lungo? Può darsi.
    Come può anche essere che l'Omero dormiente abbia permesso, inconsapevolmente, di far maturare i tempi per una radicale revisione dell'organizzazione del Partito.
    La "grande e progressiva crescita" dovrebbe chiamarci a riflettere sull'attuale disegno distrettuale, chiederci cioè - se l'organizzazione cantonale ha ancora motivo d'essere mantenuta oppure occorra rivederla: alla luce di una serie d'avvenimenti si potrebbe pensare di modificarla (abbandonarla del tutto?) al fine d'evitare tentazioni. La tentazione dei "califfati, del ritagliarsi fette di Partito polverizzandone i momenti decisionali quasi che ogni territorio delimitato distrettualmente vivesse problemi diversi, in tutti i sensi, rispetto a quelli degli altri; quasi che il problema "politico" non fosse riconducibile ad un unico problema generale; quasi che per ogni "cantone" vi debba esse un Partito Sardo e solo l'insieme dei Partiti sardi costituire il Partito Sardo d'Azione.
    Lo Statuto scritto questo certamente non dice ma lo sostiene, rischiando purtroppo di realizzarlo, lo Statuto materiale, la prassi contraria a quelle regole del gioco di cui in precedenza è stato detto: è, occorre ribadirlo, la debolezza umana che evidenzia i propri limiti nell'esatto momento in cui tenta di superarli.
    Bisogna, pertanto, formare l'organizzazione anche riformando quel poco o molto - non è di questa tesi giudicare - che esiste. Se si pensa che tutto esista, allora il tutto va riformato.


    Perché la riforma?
    Una risposta a questa domanda, presa nella sua generalità, è quasi superflua. Se vi fosse ancora bisogno di una prova ulteriore della necessità di riformare la si troverebbe nella domanda posta all'inizio di questo paragrafo, ossia il chiedersi con ansia dove stia andando il Partito. E' una domanda che si leva in parallelo alla "grande e progressiva crescita" e sarebbe un errore i1 procrastinare l'aggiornamento de I l'organizzazione facendo finta che non esistano: gli sbandamenti di programma, il difficoltoso rapporto con le componenti "istituzionali" e l'assenza di coordinamento delle medesime fra loro e con gli organismi in genere, lo scollamento fra base e vertice, lo scadimento del primato del Partito, la poca presenza nel sociale, l'assenza di informazione, la rinunzia al dibattito, l'appiattimento sulle posizioni di governo, i ritardi sulla materializzazione dei punti "qualificanti" dell'enunciato programmatico.
    Gran parte di queste anomalie può essere eliminata con una riaffermazione del primato del Partito, con una riconquista del giusto ruolo degli organismi e della dignità del militante nella partecipazione a determinare le scelte, con il ritorno alla progettualità, con una nnascenza del dibattito interno, con Il elevazione del tono culturale.
    Tutte queste cose non possono non essere raccomandate al gruppo dirigente nuovo che verrà eletto dal congresso; gruppo dirigente che, è necessario dirlo, dovrà avere il coraggio di bagnarsi i piedi, non dovrà avere timore di steccati interni che - presumibilmente qualcuno (gruppo o singolo) cercherà di erigere pretestualmente (ma sempre per difendere l'eccezione più che la regola). Né dovrà fermarsi, il gruppo dirigente, di fronte agli steccati esterni che - certamente - le altre forze politiche eleveranno negozialmente ritenendo il Partito prigioniero e impastoiato in un processo di omologazione al vigente sistema politico - tutto italiano - che mostra, ormai, tutta la sua inefficacia nel processo di crescita della società.
    Ma il congresso deve fare la sua parte impegnando il leader ed il gruppo dirigente con tutta una serie, precisa ed inderogabile, d'indirizzi vincolanti oltre che sul piano politico anche sulla necessaria riforma organizzativa.


    2.- LA QUESTIONE IDEOLOGICA
    Dal 1979 (Congresso di Oristano) sino ad oggi la questione ideologica ha sempre avuto un unico enunciato: l'indipendenza della Sardegna. E' l'enunciato che l'intero Partito ha fatto proprio: lo ha "codificato" con l'art 1 del suo Statuto.
    Nei dibattiti politici, anche in Consiglio regionale, viene da noi spesso richiamato ed indicato come obiettivo strategico".
    Ci si è fermati sempre su quel ciglio senza voler (o poter?) saltare il fosso dell'approfondimento: ciascuno si ritiene "abilitato" a dare la propria interpretazione ed è così che nasce una sorta di Babele nel linguaggio suato per dare corpo e contenuto a quell ... obiettivo" che resta ancora un'enunciazione di principio ed un'enunciazione verbale. Doveva essere compito del congresso di Carbonia, nel 1984, dare contenuto all'enunciato ma non se ne fece nulla e così avvenne, nel 1986, a Quartu; è sperabile che il 23' congresso si faccia carico di sollecitare la discussione per definire significato e valenza univoci. Anche per fare chiarezza al fine d'evitare confusioni ed affermazioni molto avventuristiche come quella, ad esempio, che l'indipendenza si realizzerebbe con il 51% dei voti assegnati al Partito Sardo d'Azione quasi che il restante 49% dei sardi votanti dovesse supinamente accettare un cambiamento radicale, così radicale, deciso per volontà di una sola parte.
    Chi sostiene questo "teorema" evidentemente trova un solo argomento a sostegno: la volontà della maggioranza. E' vero che in democrazia la regola del gioco è quella che assegna alla maggioranza il potere di decidere; è vera, però, anche l'altra faccia della democrazia, cioè quella che assegna lo stesso potere alla minoranza quando diviene maggioranza. Allora? Se quella regoletta è applicabile oggi, poniamo, dal 5 1 % è domani applicabile dal 49% che nel frattempo sia divenuto ancora un 5 1 % e così all'infinito o- -na sorta di gioco a fare, sfare e rifare: cosa? L'assetto statuale d'una Nazione, la sorta di un Popolo che vuole certezze nell'assetto dei proprio ordine sociale, civile ed economico. Impostato sul gioco della maggioranza, il disegno è folle ed ancor più mostruoso è insistere nel continuarlo a spiegare in tal modo.
    La conquista di un così alto traguardo non si raggiunge con il contrapporsi né adombrando, quasi, il partito unico che tutto può essere ma non democrazia (attenti, quindi, alle affermazioni avventate: meglio tacere) mentre è più sano, più logico costruire il cammino verso il traguardo disegnandone un percorso a tappe cercando, con il ragionamento su un programma politico, di aggiudicarsi i traguardi parziali la cui sommatoria sarà la realizzazione del progetto politico. Ragionamento e convincimento sono le armi con le quali combattere la battaglia puntando tutto sull'affermazione del principio dell'autodeterminazione: su questo occorre delineare il progetto così come su questo deve avvenire il confronto con le altre forze politiche, e con i Sardi, perché si combatte "per" e non "contro". Delineare il progetto, quindi, altrimenti tutto rischia di restare pura esercitazione accademica e la gente, nostra e non, finirebbe per capire sempre meno. Approfondire e progettare, chiarire e convincere per decidere le priorità del lavoro da fare nella costruzione delle tappe che ci portino ad uscire dalla dipendenza.
    Approfondire e chiarire anche al nostro interno perché si sciolga un'altra enunciazione di carattere interrogativo, quella che, in forma di domanda, suona così: "condizione per arrivare al federalismo è l'essere prima indipendenti o per essere tali bisogna realizzare il federalismoT' Ciascuno di noi ha una risposta, la sua; può averla il Partito (attraverso chi?); ma se tutte le risposte appaiono logiche (se argomentate), ad una domanda di quel genere appaiono logici (se argomentati) anche i contrari di quelle risposte. Perché? E' forse riduttivo ma semplice: perché il dibattito interno non si è mai attivato! E non solo quello interno: vedremo più avanti come si potrebbe attivare anche quello esterno.
    L'unica cosa chiara è il fatto che né l'indipendenza o il federalismo si ottengono presentando "domanda", ma ponendosi "domande" si arriva a capirli.
    Ma torniamo al federalismo.
    Forse, il dubbio è d'obbligo, al nostro interno (ma va verificato) non si "scontrano" due anime (indipendentista e federalista) ma non "s'incontrano" due linguaggi che, quasi certamente, vogliono dire le stesse cose o significare la stessa aspirazione ma entrambi partono, l'uno per dimostrare il contrario (?) dell'altro, da una premessa sbagliata, quella cioè di considerare il federalismo solo un semplice "modello costituzionale".
    Partendo da questa premessa certamente l'incontro non può esservi poiché con termini sbagliati nessuna equazione è capace di dare significato all'incognita.

    Dovremo tentare di capire dove stanno, eventualmente, le differenze se pensiamo:
    - allo stato federale come organizzazione della società partendo dalla considerazione che essa è costituita non solo da individui ma anche da un insieme di gruppi che devono coesistere;
    - al federalismo anche come teoria e politica della società in funzione di miglior condizione di vita per tutti avendo come punti base la democrazia economica, la trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto di collaborazione, lo sviluppo armonico di tutte le componenti sociali, la preparazione delle condizioni per affrontare l'era post industriale;
    - al federalismo non come ideologia di parte (ecco perché NO al 51%) ma interpretazione razionale e realistica del bene comune;
    - al federalismo come alterativa politica di terza via;
    - al federalismo come società semplice, attenta più all'essere che all'avere, rispettosa di quanto c'è di caratteristico e di peculiare nelle singole comunità.
    Se si legge il federalismo in quella "griglia", in esso si può trovare anche una forma di socialismo, da non confondere con quello utopico né con quello scientifico, con quelli - cioè - che sono mano mano divenuti movimento ideologico delle "classi oppresse" le quali, loro malgrado, si sono trovate confezionate un'ideologia limitativa. E', piuttosto, un socialismo da interpretare come sintesi fra istanze di libertà e di giustizia.
    Torniamo, ora, all'indipendenza e ci si pongano le domande: per fare cosa, per governare come, per andare dove. Le risposte non possono non avviarsi se non dallo spiegare immediatamente per la costruzione di quale società vogliamo combattere. Certamente è una risposta che non può esaurire il non facile tema che ci proponiamo e che, non va dimenticato, proponiamo anche agli altri.
    Se l'insieme delle risposte necessarie, che sicuramente vi sono ma bisogna darle, le compariamo con quanto detto prima forse potremo accorgerci dove stanno le differenze ed innanzitutto se vi sono, se esse sono marginali od altamente significative, mediabili od inconciliabili.
    Spingendo l'analisi probabilmente potremo anche arrivare a concludere: che nessuno ha tutto il torto così come la ragione; che non vi sono contrapposizioni ideologiche; che tutti vogliamo impedire la costruzione di una società di tipo feudale (è il tentativo italiano) basata sul clientelismo, sull'arroganza del potere e sul privilegio, su uno Stato senza obiettivi, centralizzatore e corporativo incapace di ogni seria riforma; che in tutti è radicata la volontà di dare significato preciso alla nostra diversità di Partito superando il processo di stagnazione nella quale ci siamo infilati.
    A questo punto è necessario dire che v'è un obbligo al quale dobbiamo adempiere: il dovere di chiarezza affrontando le questioni di linea politica, ideale ed ideologica.
    Questo paragrafo non dà risposte né pretende di fare lezioni: alcuni temi su cui discutere li enuncia e cerca di porre problemi concreti. Spetta al Partito orientarne le soluzioni. Forse si riuscirà a capire meglio che l'indipendenza è anche federalismo, è anche socialismo e che il federalismo non è antitetico alla uscita dalla dipendenza.
    E' interessante, ma non tanto per l'economia del discorso che dovrà farsi al nostro interno quanto per sgomberare il campo dall'oggetto di altra possibile argomentazione adatta solo a creare confusione, fare il parallelo fra confederazione e federazione; la federazione è un'associazione di Stati o territori autonomi ed è dotata di un potere proprio. La confederazione ha potere d'insieme o, in alcuni casi, ridotto al minimo ovvero assente totalmente. Quando il potere d'insieme non esiste è lasciata piena indipendenza ai componenti associati; quando è ridotto al minimo si rivela superflua una vera e propria struttura statale.
    Va da sè che affrontare una discussione su questo tema, mai postosi al nostro interno, è ozioso e perditempo.

    Prosegue nel post successivo…

  3. #23
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    Predefinito Re: 1989. XXIII° Congresso nazionale del PSd’Az.

    3. - GLI ORGANISMI
    Vengono in questo paragrafo considerati gli aggiornamenti" o le riforme auspicabili e possibili da attuare preferibilmente subito dopo la celebrazione dei congressi distrettuali. Ecco, proprio in senso distrettuale dovrebbe avviarsi l'ammodernamento, l'aggiornamento, la riforma degli organismi fermo restando quanto detto in precedenza per la Direzione e la Segreteria nazionali.
    E' appena il caso di dire che non sarebbe male il superamento della logica "cantonale" ma ciò porterebbe a ripensare tutta la struttura intermedia del Partito: è comunque una ipotesi da non scartare. Piuttosto va precisato che l'interpretazione datane è il fatto snaturante, con effetti spesso deleteri, le funzioni ed il campo d'azione delle federazioni distrettuali. Si è in precedenza fatto cenno al ritagliare fette di Partito producendo una serie di "piccole repubbliche autonome" che ai fini generali poco servono e che, per la formazione degli organismi superiori, hanno portato ad una forma, non tanto nascosta, di lottizzazione così come, l'interpretazione cantonale, ha prodotto il sorgere dì strutture quasi "corporative" che hanno reso difficile il realizzarsi di quel tessuto interscambiabile che avrebbe dovuto riportare il problema politico di vasta arca ad un livello d'interazione e con gli altri distretti e con la Direzione Nazionale per produrre, ove ve ne fosse la necessità, proposte d'intervento così interne come esterne.
    L'assenza di questi scambi ha indotto - più volte - a chiedersi se la linea politica per una serie di questioni, che potevano investire più distretti, fosse determinata in modi differenti nel Capo di Sopra, in quello di Sotto e nel Centro Sardegna assistendo, così, ad una sequela di pubblici interventi che oltre a disorientare ponevano disagio nell'azione complessiva del Partito.
    La proposta, o se si preferisce, il suggerimento è quello di strutturare diversamente il governo intermedio del Partito.
    A) Consiglio Federale: organismo di nuova creazione dovrebbe costituire il raccordo fra i vari distretti operanti nell'ambito provinciale. E' l'area geografica delle Province 1a federazione", il resto rimane "il distretto" al quale nulla è sottratto in fatto di autonomia. Il Consiglio Federale viene formato, in modo paritetico, con i rappresentanti eletti dai Consigli distrettuali e con voto limitato nel caso in cui i Consigli siano stati eletti sulla base di liste. Ne dovrebbero far parte di diritto i Segretari distrettuali, i rappresentanti eletti dal Partito nelle istituzioni (Provincia, Regione, Parlamento), uno per ciascun gruppo e da questo designato. Durerebbe in carica tre anni salvo il caso di scioglimento anticipato del Consiglio Distrettuale.
    Il Consiglio Federale elegge nel suo seno il Segretario Federale al quale spetta la convocazione del Consiglio stesso per l'esame dei problemi di vasta area che la conferenza dei Segretari distrettuali, da tenersi di norma una volta al mese presieduta dal Segretario federale, decide di porre all'ordine del giorno.
    Il Segretario di Federazione partecipa ai lavori della Direzione Nazionale con voto consultivo e rappresenta i Distretti coordinati. Per l'incarico di Segretario di Federazione valgono le stesse incompatibilità previste per i Segretari distrettuali. Non si prevede il Congresso di Federazione.
    B) Consiglio Distrettuale: nessuna particolare innovazione rispetto alla norma che attualmente ne regola l'elezione e la composizione. La novità regolamentare potrebbe essere quella relativa alla composizione dell'esecutivo nel caso in cui il congresso abbia eletto il Consiglio Distrettuale sulla base di liste: alla minoranza deve essere assicurata la presenza nell'organo esecutivo del Distretto. La maggioranza propone la lista dei propri rappresentanti così come la
    minoranza nel rapporto di 2/3 e 1/3 rispettivamente. Il Segretario distrettuale viene eletto dal Consiglio: convoca e presiede il Consiglio stesso e la conferenza dei Segretari di sezione. La conferenza, da tenersi di norma una volta al mese, esamina i problemi dell'area
    distrettuale (organizzativi, politici, sociali ecc.) e concorda gli argomenti da proporre per l'ordine del giorno del Consiglio Distrettuale ferma restando l'autorità dell'esecutivo distrettuale di formulare, in via definitiva, l'ordine del giorno per la riunione del Consiglio Distrettuale da tenersi, di norma, una volta al mese.
    C) Consiglio Direttivo di Sezione: la Sezione resta la struttura portante dell'organizzazione del Partito. la Sua Assemblea, da convocarsi di norma almeno due volte nell'arco dell'anno solare, elegge il Consiglio Direttivo che dura in carica, normalmente, per due anni salvo il caso di scioglimento anticipato, in qualunque forma esso avvenga. Restano le norme che regolano le attività del Commissario Straordinario.
    Il Consiglio Direttivo, nel caso d'elezione per liste, viene eletto con il sistema proporzionale ed i soci elettori dovrebbero esprimere un numero di preferenze non superiore ad 1/3 dei componenti da eleggere con arrotondamento dell'unità inferiore.
    Anche l'esecutivo di sezione deve essere formato, come quello distrettuale, sulla base delle rappresentanze, di maggioranza e minoranza, rispettivamente di 2/3 e 1/3.
    Compiti e funzioni restano quelli attualmente previsti.
    Nei Comuni ove operino più sezioni, viene costituito il Comitato cittadino. La sua costituzione avviene in forma paritetica; elegge nel proprio seno il Segretario del Comitato, il cui incarico resta incompatibile con qualunque altro di Partito od elettivo. Del Comitato, con voto consultivo, fanno parte di diritto i rappresentanti, uno per gruppo, degli eletti nelle assemblee istituzionali comprese quelle circoscrizionali ad elezione diretta. Il Segretario del Comitato convoca e presiede l'organismo, cura il necessario coordinamento fra i Segretari di Sezione, i capi gruppo nei Consigli comunali e circoscrizionali, i rappresentanti nelle assemblee provinciali, regionali e parlamentari eletti nell'area territoriale delle sezioni coordinate. Il Segretario tiene, almeno due volte al mese, la conferenza dei Segretari di sezione e con essi concorda gli argomenti che devono essere inseriti nell'ordine del giorno dei lavori del Comitato cittadino. La conferenza dei Segretari di sezione ha anche la funzione di ufficio politico e di ufficio del programma elettorale, per le consultazioni di livello comunale, coadiuvata in quest'ultimo caso da esperti del Partito. Dovrebbe restare stabilito, inoltre, che la formulazione dell'indirizzo programmatico per le elezioni comunali non si possa ritenere esecutiva senza il pronunciamento dell'assemblea di sezione: cioò risolve, certamente non in via definitiva, la questione della partecipazione del militante a concorrere nelle scelte.
    Almeno una volta ali 1 anno, in via straordinaria e non sostitutiva delle obbligatorie, l'Assemblea degli iscritti dovrebbe essere convocata con all'ordine del giorno un solo argomento: la verifica delle realizzazioni dei programmi e l'attività svolta dagli eletti nelle varie assemblee (comprese Province, Regione, Parlamento) e che fanno capo - come militanti - nelle sezioni cittadine. Così viene a realizzarsi anche il confronto fra iscritti votanti ed iscritti eletti ed una periodica informazione, almeno in sede locale, dovuta a tutti i sardisti.
    Verrebbero definiti, per come più sopra indicati, i tre livelli intermedi con il sub-livello del Comitato cittadino. Andrebbero aboliti, di conseguenza, gli interdistretti.

    La Direzione Nazionale dovrebbe proporre al Consiglio Nazionale l'approvazione dei regolamenti per il funzionamento coordinato degli organismi di decentramento.
    Si suggerisce, infine, la costituzione degli organismi di controllo e disciplinari. Non può esservi, infatti, uno strumento statutario che, prevedendo regole ben precise, non ne determini il controllo puntuale dell'osservanza. Per puntuale si intende anche tempestivo, poiché la violazione delle norme statutarie va contestata e sanzionata entro un tempo ragionevolmente congruo ma non lungo: altrimenti la violazione si consolida quale prassi ed avremmo, in tal modo, lo statuto non scritto (cui si è già fatto cenno) che origina il Partito "materiale".
    Ferma restando la norma istitutiva della Commissione Nazionale di Controllo (il cui funzionamento va, però, regolamentato) si raccomanda la costituzione della Commissione Federale di controllo i cui componenti vengono eletti dai congressi distrettuali secondo una ripartizione paritetica fissata dal regolamento di funzionamento approvato, anch'esso, dal Consiglio Nazionale su proposta della Direzione.
    In ogni Distretto ed in ciascuna Sezione, con la celebrazione dei Congressi e delle Assemblee, vengono eletti i "Garanti DistrettualP ed i "Garanti di Sezione". I collegi dei Garanti potrebbero essere costituiti da cinque componenti per il Distretto e tre per la Sezione. Ciascun collegio elegge nel proprio seno un presidente con il compito di coordinare l'attività.
    Queste riforme degli organismi, e le loro attribuzioni, sono importanti e dovrebbero essere considerate urgenti. Senza di esse non si riuscirà a rendere più penetrante ed incisiva la vita di Partito. Servono, anche, per sveltire l'azione politica ma assolutamente coordinata su tutti i territori. Non si tratta, come potrebbe qualcuno obiettare, di burocratizzare il Partito ma dargli strumenti di decentramento nel pieno rispetto del primato e dell'autorità politica degli organismi eletti dal Congresso e dal Consiglio Nazionale. E' un modello di organizzazione che vorrebbe realizzare l'orizzontalità dei momenti di proposta, di alcuni momenti decisionali tutti riconducibili, con le integrazioni opportune e necessarie, a diversi livelli successivi di governo politico del Partito mano a mano che i problemi, le questioni e le istanze aumentano il loro tasso d'interesse politico più generale che travalicano l'ancorché politicamente legittimo interesse del 1ocale" e del "territoriale".
    Si allontana, insomma, quella sorta di centralismo che, in modo strisciante, ha cercato di eleggersi a metodo di governo nel Partito: a tutti i livelli. Né i gruppi cosiddetti "parlamentari" ne sono stati immuni, si è già detto, contribuendo a quelle incertezze sulla legittimazione a decidere. E' auspicabile che la riforma degli organismi (senza alcuna pretesa particolare per questa illustrata, che vuol essere solo un'idea) si attui definitivamente, si affermi e la si veda applicata.


    4. LA LINEA, IL PROGRAMMA, IL PARTITO D'OPINIONE
    La storia insegna che con il populismo e la demagogia si raccolgono il malcontento e la protesta, non si aggrega né si convoglia il consenso né lo si cementa. Estemporaneamente può accadere di raccogliere quei due "umori" - anche per qualche tempo - ma essendo difficile cementarli il consenso passa e scompare.
    Questa è la sorte del partito d'opinione.
    Quella del partito ideologico è tutt'altra: quando perde, perde il consenso (?) fluttuante, cioè il voto d'opinione giacché malcontento e protesta - così come la clientela di bassa cucina - non sono certamente ideologie e meno ancora ideali.
    E' chiaro, pertanto, che il partito d'opinione è un qualcosa di debole ed episodico nel panorama politico, un panorama che non consente collocazione sicura né certa a chi limita l'analisi della società al solo elenco delle sue carenze e delle sue storture.
    Allora? Quantunque l'etichetta sia stata confezionata dalle affermazioni, fatte anche da sedi importanti, di uomini del Partito, essa va rispedita al mittente.
    Il Partito sardo non è mai stato, non è, né può divenire il partito del populismo, della demagogia, dell'estemporaneità e della bassa cucina. Gli inciampi elettorali vanno capiti, se ne debbono trarre gli opportuni insegnamenti facendosi aiutare, se necessario, ancora dalla storia.
    Insegna, inoltre, la storia che per un partito politico il successo non si misura soltanto con i voti. ma innanzitutto in termini di idee, di peso e di influenza; è come dire che lo si misura in rapporto alla capacità di elaborare progetti e di costruire alleanze per governare, ad ogni livello istituzionale, la società che - è bene ricordarlo - muta rapidamente e profondamente pertanto bisogna saperla leggere e capire. E' da questo insegnamento che noi dovremmo partire con la nostra analisi per approdare a un giudizio corretto, obiettivo, onesto e leale.
    Per approdare, soprattutto, a capire - finalmente - su quali aspetti, provocatori della scivolata elettorale (altro che la barzelletta "d'opinione"), bisogna scegliere per concentrarsi ad andare alla ricerca del rimedio. Su cosa avrebbe basato il proprio giudizio l'elettore: sulla linea politica o sul programma? Oppure su altro?
    Andiamo per ordine.
    - La linea politica è da ritenere che esista, una linea politica non inventata all'insegna dell'improvvisazione con colpi più o meno ad effetto - ma costruita giorno per giorno (e sono trascorsi 70 anni) sulle cose concrete, sui temi reali, sui bisogni della nostra società e sulle istanze. Il congresso di Carbonia disse all'intero universo che la linea c'è e costruita nel modo di cui sopra è detto (che bel congresso fu quello! Altro che populismo e demagogia). Disse anche altro, quel congresso, e lo vedremo più avanti.
    Il programma: già, il programma. E questo, più della linea, che forse va reso più esplicito se non vogliamo che resti un'araba fenice. Sempre a Carbonia enunciammo i famosi "punti programmatici” mai riempiti di contenuto, occorre dirlo, e mai tradotti in programmi di governo, va detto, anche se la proposta di zona franca potrebbe far pensare che almeno uno, di quei punti, sarebbe stato realizzato: è una proposta che troppo ha vagato nell'arcipelago compromissorio dal quale ha subito tutto l'inquinamento possibile. E' vero, sarebbe ingeneroso non riconoscerlo, il Partito ha sfornato diverse proposte su singole questioni ma esse, ancorché tante, non fanno un programma né una costruzione di progetto politico.
    Forse è qui che potrebbe essere spuntato il sassolino su cui si è inciampato: non sarebbe - comunque - solo su questo terreno e se fosse solo su di esso il congresso, volendolo, potrebbe tempestivamente rimediare.
    Dunque?
    Lasciato quel margine di colpa sulla seconda parte del primo interrogativo posto all'inizio ed accertato - come si è visto - che alla prima parte poco o nulla è da addebitare, la scivolata va addebitata soprattutto ad altra causa.
    Sarà lo schema di governo imperniato sul PCI? Sarà l'impressione equivoca - invece - di una nostra presunta indifferenza nelle alleanze, cioè quella sorta di gioco a tutto campo che ci vede alleati del compromesso storico, del pentapartito di centrosinistra, del bicolore con la DC, ora degli uni e poi degli altri con repentini passaggi da un quadro politico a quello opposto?
    Domande, interrogativi che hanno bisogno di risposte urgenti perché la campana dell'ultimo giro ha suonato ed il filo di lana è sempre più vicino. L'urgenza delle risposte và recepita dal congresso che deve dare indirizzi, trovare la formula che spieghi e mobiliti, indicare e rendere esplicito il programma del Partito, indicare la scelta dei progetti politici: gestire al meglio la società che eventualmente si andasse a governare, governare i cambiamenti già in atto, trasformare in profondità la società puntando al cambiamento delle coordinate sociali-economiche-istituzionali della Sardegna. Ci può essere ancora dell'altro ed è compito del congresso ricercarlo.
    Uno dei compiti principali resta, comunque, quello di sapere discernere l'utopico dal realistico per dare una risposta chiara, per riaffermare l'identità precisa, per definire il ruolo del Partito nei diversi piccoli mondi di cui si compone la società. Tornare alla politica, quindi, per riacquisire il necessario consenso politico ed un sempre più accentuato consenso sociale: due elementi fondamentali per un Partito che non ha mai rinunciato, ne rinuncia a porsi ed a porre degli obiettivi, che si sente sempre più convinto delle proprie ragioni, forte della consapevolezza di dover concorrere alla costruzione di un futuro.
    Un futuro che è già iniziato; concorrere alla sua realizzazione significa, prima di ogni altra cosa, fare chiarezza per noi e per gli altri, soprattutto nel comportamento che non può essere - insieme - governo ed opposizione. In politica il 'Tai tutto da te" è una pessima abitudine.


    5. - INFORMAZIONE
    La superficialità dell'informazione finisce con lo sviare qualsiasi proposta politica, con lo squalificare attraverso termini impropri qualunque iniziativa: accade in quest'ultimo periodo - ad esempio - per quanto riguarda le due proposte di legge sulla riforma dello Statuto e sulla flotta sarda, bollate ambedue come "manovra elettoralistica" del PSD'AZ.
    Restando all'esempio recente si può dire che questo accade poiché manca nell'informazione, cosiddetta pubblica, qualsiasi interesse a richiamare e qualificare quanto il Partito fà nella sua azione politica. E' vero che quello dell'informazione è un caso tutto "italiano" dei settore dentro ed attorno al quale ruotano, per questioni palesi ed occulte, accese battaglie per monopoli, oligopoli, lottizzazioni di vario genere, pertanto toccherebbe a noi, partito politico 'TuorC dai grandi giri, subire le conseguenze, palesi ed occulte, dell'influenza che il "grande" potere politico-economico esercita nei confronti dei mezzi d'informazione.
    In Sardegna - ove è più facile esercitare quell'influenza - quel "grande potere" trova più semplice che in altri siti fare "opinione". E' un grande potere che non limita attacchi al nostro Partito, attacchi che trovano sempre pronta 9'informazione" ad ospitarli ed anche ad amplificarli. Contro di noi si tuona sempre ed il rumore più amplificato è, senza dubbio, quello dei cosiddetti "alleatP, forse in omaggio a quanto affermava il Macchiavelli allorché sosteneva che l'aggressività degli avversari "è più grande in quelli che ti somigliano, che in quelli da sempre nemici".
    La nostra voce, invece, al grosso pubblico appare totalmente assente, o sporadicamente presente, nella battaglia civile, sociale e politica.
    Quello del l'informazione è un problema che il Partito deve esaminare e risolvere adeguatamente.
    Non v'è dubbio, però, che soluzione adeguata debba essere data anche all'informazione "privata" che, con la puntuale replica a quella pubblica, dia ai sardisti ed ai sardi la possibilità di attingere al patrimonio ideale, culturale e politico di cui il Partito è depositario. Bisogna tornare al nostro giornale quale strumento d'informazione interna ed esterna. Un giornale che riattivi il dibattito, che riprende l'azione di stimolo, di sensibilizzazione e di critica; un giornale che si lasci leggere, che sia rispettoso del pluralismo interno, che non sia monopolio di gruppo o di singoli e, soprattutto, che venga "pagato" dai sardisti, diffuso dai sardisti, sostenuto dai sardisti. Questo deve essere l'impegno di tutti altrimenti non serve lamentarsi, poi e sempre, della mancanza d'informazione entro e fuori del Partito.
    Da alcuni settori del Partito si fa rilevare che quello del giornale nostro è un nodo intricato, reso ancor più inestricabile dalla presenza rigida d'impossibilità a coprire le spese necessarie. Può darsi che anche quello sia un problema nel problema però, se si fà chiarezza sui conti del Partito, è probabile che il nodo di quella che appare una matassa intricata possa essere sciolto.
    Si tratta di stabilire per cosa e per come si vogliono spendere le piccole risorse del Partito; si tratta di stabilire quale impegno si deve chiedere ai sardisti; si tratta di tirare le somme per stabilire l'entità delle risorse necessarie per ridare voce ed informazione al Partito ed ai suoi militanti.
    L'uscita dal silenzio è possibile se non pensiamo ad un organo d'informazione dalle grandi pretese d'immagine tipografica, d'eleganza di forma, dallo spessore "volumetrico" delle pagine concorrenziale all'enciclopedie. Noi dobbiamo puntare ad altro: ad un giornale che sia veicolo e stimolo di formazione politica, culturale e civile piuttosto che occasione solo di sfoggio d'altra arte di composizione.


    6. - IL RAPPORTO INTERNAZIONALE
    Quante volte abbiamo sentito affermare che il Partito Sardo è un fenomeno 9ocalistico", chiuso - pertanto nell'ambito geografico dell'isola, portatore d'istanze .1 antistoriche" ed altro ancora ma sempre e tutto in negativo.
    I nostri "alleati", quelli che ci dovrebbero somigliare almeno per collocazione nell'emiciclo, non hanno risparmiato fiato nell'unirsi al coro cantilenante.
    Abbiamo risposto respingendo - giustamente - quei giudizi ed abbiamo sostenuto d'essere portatori di valori universali; si tratta, ormai, di dimostrare tutta la verità della nostra affermazione.
    Sul piano generale siamo saldamente e consapevolmente europei. Siamo europei per tradizione, per maturità democratica, per le caratteristiche del nostro patrimonio ideale: la Sardegna con il suo popolo vuole vivere nell'Europa. E'il momento, pertanto, di chiamare a raccolta tutte le forze "europee" che perseguono obiettivi, trasformazioni della società, nuovi assetti istituzionali aventi fondamento su base comune alla nostra: è tempo, quindi, di farci promotori del dibattito esterno che vada "dentro" l'Europa, anche per riaffermare la nostra visione europea e per affermare che noi possiamo essere il cemento della costruzione di una forza politica europea, quella forza che sin'ora non è esistita e che deve essere capace d'intervenire con successo sui grandi problemi dei 'popoli d'Europa, della società ch'essi formano e di cui occorre correggere gli squilibri governandone, correttamente appunto, lo sviluppo. Su questo terreno va condotta la nostra iniziativa politica "estera" tentando un'alleanza "naturale" di tutti i partiti e movimenti che si richiamano alle istanze autonomiste, federaliste, etnonazionalitarie: l'unione, cioè, di tante piccole forze per proporre un unico programma politico, di grande respiro, per abbattere gli ostacoli comuni e raggiungere comuni obiettivi.
    Senza allungare di molto il discorso, basta - per esemplificare - citare due diversi ostacoli che a breve faranno sentire, o potrebbero far sentire, tutto il loro peso; il recupero del centralismo da parte degli Stati nazionali (in Italia è recente l'approvazione della legge di riordino della presidenza del consiglio dei ministri) e l'offensiva, per il momento solo annunciata, a cui si apprestano i cosiddetti "partiti tradizionali” proponendo lo sbarramento della soglia minima percentuale, nel caso di elezioni regionali, nazionali ed europee, che creerà scogli ancor più insuperabili rispetto a quelli che già esistono (l'elezione diretta di almeno un parlamentare per non perdere tutti i voti avuti ed i 300 mila voti per accedere ai resti).
    Il tempo dei "giuochi", attraverso le riforme istituzionali, è già iniziato e le vittime designate appaiono -senza dubbio- i movimenti ed i partiti come il nostro.
    In solitudine è una battaglia impossibile da sostenere da parte di ciascuna delle forze che si richiamano agli stessi nostri principi di fondo; necessita lavorare per unirle, dentro e fuori d'Italia, perché rilevante divenga il peso politico nel momento in cui le decisioni dovranno essere prese.
    Si chiede al Partito di lanciarsi su un terreno politico quasi senza confini. Può essere questa l'ora e 1’occasione non va perduta.
    Chiamare quindi a raccolta tutti coloro che, sul piano dei principi generali, sono a noi vicini, organizzando una grande assemblea per avviare, nel concreto, quella che più sopra è stata definita 1 ... alleanza naturale"; è un suggerimento sul quale non sarebbe fuori luogo riflettere.


    7. - GOVERNO O OPPOSIZIONE
    Dal congresso di Carbonia (ancora quello!) il Partito non ebbe tentennamenti nel lanciare l'ipotesi dell'alternativa di governo in Sardegna. Lo stesso congresso, molto avvedutamente, pose in guardia il Partito dal pericolo d'una semplice e più modesta alternanza. Questo pericolo risiedeva e risiede, soprattutto, nel fatto di trovarci dentro un sistema politico al centro del quale è determinante il potere dei Partiti, quel potere cioè, definito da più parti Il partitocrazia", che è il veicolo attraverso cui lo Stato centralista fà valere la propria volontà ovunque. Non è avventata l'affermazione se si riflette, anche per un attimo, sul fatto che non vi è Partito "nazionale" immune dal centralismo: cioò che decide la sua direziona nazionale vale per ogni dove. Di quel fatto, poi, maggiormente si risente quando, secondo schemi non omologhi, alcuni Partiti stanno comunque al governo: ecco, allora, la difficoltà nel cogliere pienamente l'obiettivo dell'alternativa e come lo Stato, in realtà, trovi facilitato il disegno "accentratore" ed ancor più quando gli interessi delle forze d'opposizione in campo Il nazionale" devono potersi conciliare con quelli in campo "regionale" ove nel frattempo quelle forze politiche sono divenute componenti di governo; e non si dica che anche questa è affermazione avventata.
    Si è ricordato, in precedenza, il caso della legge di riordino sulla Presidenza del Consiglio. Una legge che, con i nuovi indirizzi del governo sul tema dei rapporti con le Regioni a Statuto speciale, rischia di svuotare di contenuto e significato l'ombra d'autonomia disegnata quarant'anni or sono: è opportuno vedersi gli atti parlamentari ed in questi annotare il comportamento ed il pronunciamento di molti dei Partiti con i quali si è pensata l'alternativa piuttosto che l'alternanza. L'esempio testè fatto non è sufficiente, ancorché emblematico, per capire quanto si è voluto in precedenza affermare. Si vada ancora, e con molta attenzione, a verificare cosa è stato concordato per la legge sulla tutela delle minoranze linguistiche. Per curiosare ancora sulla tendenza centralistica di alcuni "alternativi" è da ricordare, per chi lo avesse dimenticato, quanto sia vera la affermazione che la 'Direzione nazionale" dei Partiti decide per ogni dove allorché si tocca l'argomento del bicameralismo si o no. In Sardegna il PCI si attesta sulla trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, riprendendo una nostra vecchia proposta, e solennizza la scelta in un suo congresso regionale; a Roma il PCI decide e presenta in Parlamento (alla Camera) un suo disegno di legge per un sistema monocamerale in linea, pare, con la decisione della direzione nazionale. E' solo un altro esempio.
    Delle due leggi citate in precedenza, nessuna ha visto il gruppo parlamentare sardista con esse concordare e questo fatto ha prodotto qualche fastidio ai partners regionali.
    Ecco perché, allora, ad un Partito come il nostro, quando conquista in forza delle sue proposte il vantaggio della "centralità politica" sottraendola alla consuetudine dei Partiti "nazionali", si pone - sempre - il dilemma: governo od opposizione? E' anche vero che l'interpretazione dei risultati elettorali deve poter dare l'indicazione di rotta precisa, ma è altrettanto vero che la rotta, se appare perigliosa, può essere anche corretta studiando il modo di conciliare indicazione e realizzazione pratica.
    Uno di questi modi è quello di preporre al problema di schieramento quello del programma tanto più, come nel 1984, quando lo "spostamento elettorale" avviene sulla base delle proposte del Partito che ottiene, con il risultato, la centralità. E' fondamentale, pertanto, trovare l'accordo sul programma prima che sullo schieramento e bisogna che il programma su cui si costruisce l'accordo sia buono, sia un disegno coerente all'azione di governo che s'intende condurre, abbia un ordine delle priorità ed una strategia degli obiettivi be precisata e sia manifesta la volontà tenace di perseguirli: un rapporto Il pattizio" di governo che deve tenere nel doveroso conto la linea (che nel nostro caso fu premessa del risultato elettorale) dichiarata dalla forza politica che si propone, per indicazione delle urne, alla guida dei governo pur nel rispetto - dovuto più che concordato - della dignità di tutte le proposte che vengono avanzate dai concorrenti alla costruzione del "patto".
    Forse tutto questo nel 1984 non fu fatto ed è una verifica che deve essere compiuta anche per trovare, più che giustificazione. una risposta al dubbio che a distanza di quattro anni, è innegabile, attraversa il Partito. Una risposta per il Partito e per gli elettori che ad esso fecero riferimento quale forza politica capace di poter costituire la grande novità della seconda metà degli anni ottanta nel programma, nella strategia, nell'azione di governo.
    Più che delle cose fatte (senza comunque trascurarle) è necessario fare l’analisi di quelle non realizzate dandone chiara la spiegazione del perché continuano a restare nell'elenco dello "ancora dovuto". Un bilancio, quindi, con le due canoniche voci dell'entrate e delle uscite per capire, anche, se 1 'investimento fatto dal Partito nel governo dell'isola possa far poggiare su basi credibili due concetti espressi da non molto tempo e mai abbondantemente approfondite. Ci si riferisce alla considerazione che 1a regione è lo stato in Sardegna" ed all'altra che 1a indipendenza passa anche attraverso la guida dell'esecutivo sardo".
    Due concetti all'apparenza antitetici (almeno per gli argomenti ed i comportamenti ch'erano in discussione) dì cui va chiarito -senza indugio- il reale significato
    giacché il primo è mutuato dalle posizioni della cosiddetta "sinistra storica", in Sardegna come in Italia profondamente "unitaria" tanto da arrivare in ritardo al tiepido "autonomismo" che tutti conosciamo.
    L'altro concetto, invece, può apparire come tentativo di giustificare verso il Partito (che poi scelse) le scelte "Bauladesi " del 1984 e le polemiche che le precedettero e le seguirono. Ecco, pertanto, che l'analisi del bilancio deve essere ampia e condotta senza preoccupazioni per l'eventuale fastidio di chicchessia. Nostro dovere è quello di capire se i "grandi " progetti debbono essere o no archiviati, se sì possono , quindi, materializzare o meno, se è necessario correggere o modificare qualcosa nei rapporti esterni e se abbisognano "aggiornamenti" anche interni e come tenere ben distinti i ruoli del Partito da quelli del Governo, per evitare pericolosi appiattimenti ed interpretazioni confuse della 'Torte caratterizzazione sardista" che sarebbe dovuta diventare un fatto programmatico nel "patto" di governo per garantire, anche, l'identità di linea politica tra Partito e governo e non tra linea di governo e partito.
    E' pur nostro compito verificare come la 'Forte caratterizzazione sardista", se bene intesa, possa avere un suo peso anche fuori dal governo: è un'ipotesi - dopo quattro anni d'esperienza dentro il governo - sulla quale può essere opportuno soffermarsi.

    Tutto ciò che precede non vuole essere contro l'attuale formula né incondizionatamente a favore; non vuole essere incondizionatamente a favore della formula opposta né contro. Vuole solamente essere piccolo argomento di grande riflessione non ignorando che alcune divisioni sul pro e sul contro per l'attuale formula, come per l'opposto di essa, all'interno del Partito esistono così come esistono "pensieri" sull'opportunità d'opposizione in questa ed in fase successiva. Naturalmente tutte opinabili ancorché rispettabili posizioni. Ma al Partito deve interessare l'essenziale e badarvi: non vi possono essere scelte di campo pregiudiziali e costruire, poi, i contenuti delle carte da giocare su quel campo. Il tutto va modificato, scegliendo il campo sulla base di come è consentito il giuoco e può essere, conseguentemente, che il campo di giuoco sia anche quello dell'opposizione. E non sarebbe una sconfitta, né una rinuncia: vi sono momenti storici e politici durante i quali si governa anche stando all'opposizione.
    Chiaro deve essere, inoltre, che a volte non importa con chi camminiamo: importa, invece, la direzione in cui andiamo.
    Lo sforzo, senza opinioni preconcette che potrebbero vanificarlo, deve essere fatto per individuare la direzione più giusta, altrimenti si rischia di navigare in un mare d'indifferenza, ed una volta individuata la direzione giusta le scelte non possono essere irrilevanti pena il prevalere della confezione sul contenuto accontentandosi (ma è politicamente accettabile?) di gestire ordinaria amministrazione. E' pure vero che non esiste la perfezione del contenuto, esso si rinnova ogni giorno.
    Ciò non toglie che un Partito come il nostro non può rinunciare a raccordare comportamenti ed iniziative nella logica dei valori peculiari di cui è portatore, senza pretendere di conciliare l'inconciliabile ma neppure rischiando l'omologazione ad un sistema politico che si pone l'obiettivo di renderci - se non del tutto ad esso subalterni - almeno marginali, cioè d'importanza limitata e non determinante; questa sì, sarebbe sconfitta!
    La nostra sfida è anche quella di rendere irrealizzabile questo disegno.

  4. #24
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    Predefinito Re: 1989. XXIII° Congresso nazionale del PSd’Az.

    Piccola antologia dei pensiero sardista indipendentista
    Contributo dei firmatari la mozione 'Democratzia e Indipendèmzia per l'autogoverno perfetto.


    I. L'indipendenza della Comunità etnica sarda e il Federalismo europeo.

    " LA NOSTRA INDIPENDENZA, CIOE' LA NOSTRA AUTONOMIA POLITICA, SI DEVE INQUADRARE NEL CONCETTO DI UN FEDERALISMO AMPIO E MODERNO IN CUI LA COMUNITA' DEL POPOLO SARDO, COMUNITA'ETNICA CHE LO STESSO STATUTO SPECIALE NEBULOSAMENTE RICONOSCE, ACQUISTI LA PARITA' DI DIRITTI NON SOLTANTO DEI CITTADINI DI UNO STATO, MA DEI POPOLI CHE CONCORRONO ALLA REALE INTEGRAZIONE EUROPEA".

    Antonio Simon Mossa (Da '7ntervento al Convegno Sardista" di Bosa, del 29 Ottobre 1967)


    2. Le Comunità Etniche e il diritto all'autodeterminazione.

    "DUE CORRENTI SIMULTANEE AGITANO LO SPIRITO DEGLI UOMINI DEL NOSTRO TEMPO. UNA DI QUESTE SI ISPIRA CHIARAMENTE ALLA NECESSITA' DI RISTABILIRE LA GIUSTIZIA NELLE RELAZIONI FRA LE DIVERSE FAMIGLIE UMANE, PICCOLE E GRANDI, E NEGA OGNI LEGITTIMITA' AL "DIRITTO DEL PIU' FORTE" CHE AVEVA FALSATO IL CARATTERE NATURALE DEI RAPPORTI UMANI. IL POSTULATO DEL "DIRITTO DEI POPOLF' DI DISPORRE DEL LORO PROPRIO DESTINO NON SI PUO' MANTENERE NEI LIMITI DELLA SEMPLICE "DECOLONIZZAZIONE" DEI POPOLI DI COLORE SOTTOMESSI ALLE VECCHIE POTENZE "BIANCHE".
    LA DOTTRINA DEL "DIRITTO ALL'AUTODETERMINAZIONE" TROVA ATTUALMENTE UN'APPLICAZIONE RELATIVAMENTE FACILE SOLAMENTE IN CASI DI "DECOLONIZZAZIONE", MENTRE NON NE TROVA AFFATTO PER CIO' CHE CONCERNE L'EMANCIPAZIONE DELLE MINORANZE E COMUNITA' ETNICHE SOTTOPOSTE A MAGGIORANZE "NAZIONALE'...
    IL PROBLEMA DELLE "MINORANZE E COMUNITA' ETNICHE" NON SI PRESENTA, EVIDENTEMENTE, ALLO STESSO MODO, 1 POPOLI DOMINATI IN QUESTO CASO, HANNO LO STESSO COLORE DELLA PELLE DEI DOMINATORI, VIVONO ENTRO LA STESSA CORNICE GEOGRAFICA E POLITICA, SONO STATI RACCHIUSI ENTRO UN SISTEMA ARTIFICIOSO DI FRONTIERE STATALI E SOTTOPOSTI A CONTROLLO PERMANENTE, CON EVIDENTI FINI DI "SPERSONALIZZAZIONE" (SE NON ... ADDIRITTURA DI "DENAZIONALIZZAZIONE") ...
    TUTTAVIA L'IDEA DELLA GIUSTIZIA NELLE RELAZIONI TRA 1 POPOLI CHE SI TROVA ALL'ORIGINE DELLA "DOTTRINA DELL'AUTODETERMINAZIONE" NON CESSA DI ALLARGARSI E RAFFORZARSI. NON SOLO NEL CUORE E NELLO SPIRITO DEI POPOLI SOTTOMESSI, MA ANCHE NEL vivo DELL'INTELLIGHENTZIA MONDIALE. IDEA DELLA GIUSTIZIA CHE NON CESSA DI AGITARE LE COSCIENZE, RISVEGLIANDO IL SENTIMENTO DI DECISA RIVENDICAZIONE PERFINO ENTRO CERTE FAMIGLIE ETNICHE CHE ERANO CADUTE NEL LIMBO DI UNA TRISTE E SORDA RASSEGNAZIONE".

    Antonio Simon Mossa (Da "Autodeterminazione e Federalismo delle Comunità", saggio scritto nel 1968 e apparso in SARDEGNA LIBERA, Mensile di Formazione Politica e di Preparazione Rivoluzionaria diretto da Giampiero Marras. Anno I, numero 1, Marzo 1971)


    3. Il Federalismo Europeo il "sistema chiuso".

    "NOI CONSIDERIAMO LA FORMA ATTUALE DEL FEDERALISMO EUROPEO COME UN SISTEMA CHIUSO, UNA CONCENTRAZIONE DI NAZIONALISMI, OVE NON VI E'POSTO PER LE ETNIE, COME NON VI E' POSTO PER UNA NUOVA STRUTTURA SOCIALE. E'IL FEDERALISMO DI VERTICE, UNA SORTA DI CONSORZIO DI PROPRIETARI. E' IL FEDERALISMO CHE ESCLUDE UN DIALOGO APERTO CON L'ORIENTE EUROPEO E CON IL NORD EUROPEO COME CON IL SUD MEDITERRANEO (CIOE' IL MEDIO ORIENTE E L'AFRICA SETTENTRIONALE, CHE GRAVITANO ECONOMICAMENTE SULL'EUROPA)".

    Antonio Simon Mossa (Da un Intervento svolto ad un Convegno di Indipendentisti, in San Leonardo di Siete Fuentes, il 22 Giugno 1969)



    4. Lo Statuto Federale d'Europa e il diritto all'Autogovemo delle Comunità Etniche.

    "LA TENDENZA CHE OGGI SI PUO' CONSIDERARE COME UNA NECESSITA'VITALE PER L'INTERA UMANITA', SE QUESTA DEVE TROVARE UNA SOLUZIONE Al TREMENDI PROBLEMI POSTI DALL'ERA ATOMICA, SE VUOLE SALVARE LA PACE E LA CIVILTA', E' SOLTANTO QUELLA CHE PORTA – INNANZITUTTO ALLA FORMAZIONE DEI GRANDI COMPLESSI SOPRA-NAZIONALI IN VIRTU' DI UN'ASSOCIAZIONE DI TIPO FEDERALE, E - IN SECONDO LUOGO - ALLA CONFEDERAZIONE PIU' AMPIA DEI DIVERSI COMPLESSI E GRUPPI SOPRA-NAZIONALI SINO AL TRAGUARDO-LIMITE DELLA CONFEDERAZIONE UNIVERSALE. MA QUESTO PUO' AVVENIRE ( ... ) SOLTANTO SE ABBIAMO IL CORAGGIO DI ATTACCARE E DISTRUGGERE LA ANACRONISTICA FORMA DELLO STATO ATTUALE, MOSTRUOSO RETAGGIO DEI SECOLI PASSATI, QUELLO "STATO NAZIONALE PER DIRITTO DIVINO", MONARCHICO E IMPERIALISTA, SOPRAFFATTORE E COLONIALISTA, EGEMONICO E SFRUTTATORE, QUALE E'RESTATO SINO A QUESTO GIORNO E CHE TENTA DI GIUNGERE ALLA CONCENTRAZIONE SOPRA-NAZIONALE DI STATI, PER MANTENERE NEI TEMPI AVVENIRE UN REGIME DI SQUILIBRIO E DI CONQUISTA. IL POTENZIAMENTO E IL SUCCESSO DELL'ORGANISMO SOPRA-NAZIONALE EUROPEO DIPENDERA' ESCLUSIVAMENTE DALLA CONCESSIONE NELLO "STATUTO FEDERALE D'EUROPA" DEL DIRITTO ALL'AUTOGOVERNO DELLE COMUNITA' ETNICHE ATTRAVERSO L'AUTODETERMINAZIONE".

    Antonio Simon Mossa (Da 'Autodeterminazione e Federalismo delle Comunità", saggio scritto nel 1968 e apparso in SARDEGNA LIBERA, Mensile di Formazione Politica e di Preparazione Rivoluzionaria diretto da Giampiero Marras, Anno I, numero 1, Marzo 1971)


    5. La Sardegna e la sua coscienza nazionale.

    "NELLA SOLITUDINE MORALE IN CUI LA SARDEGNA HA VISSUTO 1 MILLENNI DELLA SUA STORIA; PUR NELL'ATMOSFERA DI TRAGEDIA E DI DESOLAZIONE DEI SUOI GIORNI PIU' TRISTI; E PERSINO NELLA MALCERTA SINISTRA LUCE CREPUSCOLARE DI UNA TIRANNIDE VENTENNALE SENZA PRECEDENTI NELLA STORIA, L'ISOLA SERBO'SEMPRE PIU'INTATTA CHE MAI LA SUA COSCIENZA NAZIONALE. INTENDO DIRE LA SUA COSCIENZA DI PICCOLA NAZIONE DI CUI LA SUA STORIA SI ILLUMINA SPLENDIDAMENTE, RETAGGIO DI TEMPI PIUGLORIOSI E REMOTI. DALLA FIERA REAZIONE A CARTAGINE E A ROMA, DALLA SANGUINOSA RESISTENZA DEI SARDI ALLA INVASIONI BARBARICHE NEL MEDIO EVO, DALLA EPOCA BIZANTINA (IN CUI SI AFFERMO' DI FATTO E DECISAMENTE LA PRIMA FORMA DI AUTONOMIA), DAL PERIODO DEI GIUDICATI, FINO AL PERIODO PIU' RECENTE DEL REGNO SEPARATO, FINO ALLA FALLITA INVASIONE DELL'ISOLA DA PARTE DEI FRANCESI (1792-93), FINO ALLA CACCIATA DEI PIEMONTESI DALL'ISOLA NEL 1794, TUTTA LA STORIA DI SARDEGNA - CHE E' STORIA DI DOLORI E DI TRADIMENTI, DI MALVERSAZIONI E DI BARATTI - E'PERMEATA DI QUESTO INSOPPRIMIBILE SENTIMENTO DELLA SUA NAZIONALITA'. SENTIMENTO CHE TALVOLTA SERPEGGIA, TAL ALTRA COVA, MA SPESSO GRANDEGGIA ADDIRITTURA E RESISTE Al CONTRASTANTI EVENTI E LI SOGGIOGA".

    Nicola Valle (Da "L’dea Autonomista in Sardegna", Edizioni-Amici del Libro, Cagliari 1947)



    6. Il Partito Sardo d'Azione per la rivoluzione sociale e l'affrancamento dell'Isola della schiavitù coloniale.

    "NOI SIAMO UN PARTITO RIVOLUZIONARIO A FORTE CONTENUTO SOCIALE. NOI INTENDIAMO MOBILITARE A FINI DI RISCATTO SOCIALE TUTTO IL POPOLO SARDO PER LIBERARLO DALLA MISERIA E DALLA SCHIAVITU' COLONIALE E NEOCOLONIALE CHE LO OPPRIME; INTENDIAMO AFFRANCARLO DALLA SEGREGAZIONE RAZZIALE E SOCIALE... INTENDIAMO CREARE UN BENESSERE DIFFUSO...VOGLIAMO CHE I BENI DI PRODUZIONE SIANO DATI Al LAVORATORI.... VOGLIAMO CHE LA PRODUZIONE E LA CONSEGUENTE RICCHEZZA CHE NE DERIVA SIA EQUAMENTE RIPARTITA FRA TUTTI QUELLI CHE LAVORANO E PRODUCONO".

    Antonio Simon Mossa (Dalla Relazione al Convegno Precongressuale Sardista di Padria, ciclostilato del 31 dicembre 1967)


    7. L'Indipendenza e l'Autogoverno della Nazione Sarda.

    "NOI RITENIAMO CHE L'INDIPENDENZA DELLA COMUNITA' SARDA INDISPENSABILE PER LA RIFORMA RADICALE DELLA STRUTTURA SOCIALE E LA POSSIBILITA'DI UNA REALE CRESCITA ECONOMICA DEL POPOLO SARDO. OTTENERE L'INDIPENDENZA SIGNIFICA ACQUISIRE 1 POTERI DELLO STATO, QUINDI PROMUOVERE E ATTUARE RIFORME, DISPORRE DELL'AVVENIRE DEL POPOLO SARDO.
    L’INDIPENDENZA SIGNIFICHEREBBE PER I SARDI ESSERE OLLETTIVAMENTE PADRONI DEL LORO DESTINO IN UN MONDO DI LIBERI DI UGUALI, SOTTRAENDOSI DEFINITIVAMENTE ALLA TUTELA DI UNA POTENZA COLONIALE".

    Antonio Simon Mossa (Da un "Intervento svolto ad un Convegno di Indipendentisti, in San Leonardo di Siete Fuentes, il 22 Giugno del 1967)


    8. L'indipendenza per il rifiorimento della Sardegna.

    "UN'ISOLA QUALUNQUE NON PUO' PRO SPERARE, OVE NON ABBIA TUTTA
    L'INDIPENDENZA CHE PUO' CONCILIARSI COLLE PREROGATIVE DEL POTERE CENTRALE PIU'LIMITATO".

    Giovanni Battista Tuveri (1867)

  5. #25
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    Predefinito Re: 1989. XXIII° Congresso nazionale del PSd’Az.

    Contributo per il XXIII Congresso della sezione di Ittireddu

    Uno dei cardini dell'offensiva liberista, portata avanti a livello internazionale dal duo Reagan-Thatcher e a livello italiano dal duo De Mita-Craxi (con la complicità di intellettuali pentiti, spesso dell'ultrasinistra, sia nella penisola che nella nostra isola) è stato, sul piano materiale, la liquidazione degli automatismi salariali e delle garanzie del potere sindacale nel posto di lavoro e nella società; mentre su quello culturale, la negazione del ruolo del lavoro in una società tecnologicamente avanzata. Certamente, l'iniziativa dei lavoratori in questo decennio è stata carente, perché i gruppi dirigenti (politici e sindacali) a cui i lavoratori avevano dato la delega, hanno condotto il movimento alla sconfitta.
    La smentita a questa tesi politica e culturale è venuta, in Sardegna, dalla lotta dei lavoratori forestali per l'inquadramento nelle fasce funzionali del Ruolo Unico Regionale, per l'ampliamento della pianta organica, per il momento, fino a 12.000 unità lavorative e l'estensione dei perimetri forestali fino a una superficie di 900.000 ettari, per portare la Sardegna a un indice di boscosità vicino a quello europeo, che è del 47%, e quindi per ripristinare il patrimonio boschivo sardo.
    La lotta dei lavoratori forestali, su questi obiettivi, si è data il suo strumento organizzativo che è il Coordinamento Generale dei Lavoratori Forestali della Regione Autonoma della Sardegna. In questo modo i lavoratori forestali si sono sottratti al comando dei sindacati italiani e governativi, costituendo così le basi, come è stato affermato nell'assemblea di Nuoro del 10 aprile 1988, di un grande e unico sindacato dei lavoratori sardi.

    Questi obiettivi si sostanziano dei contenuti di liberazione nazionale e sociale propri del sardismo. E ciò al di là del credo politico professato dai lavoratori.
    Spesso ci si riempie la bocca di indipendenza e socialismo, ma quando ciò scaturisce dalla pratica reale di lotta dei lavoratori, allora si storce il naso e spesso si va contro di loro.
    La richiesta dell'inquadramento nella L.R. 17.8.1978 n. 5 1, che è bene ricordare nei tempi passati è stata uno strumento per creare dei privilegi, non è una richiesta corporativa, ma i lavoratori l'hanno individuata in quanto gli permette miglioramenti salariali e normativi, sotto la tutela dello Stato.
    Le lotte per la democrazia, hanno avuto sempre come obiettivo, l'estensione dei privilegi dei pochi a favore dei molti, cioè una democrazia sostanziale esiste solo con posti di lavoro stabili e garantiti e con la piena utilizzazione della forza-lavoro.
    L'inquadramento degli attuali lavoratori forestali e di quelli che dovranno essere assunti, per avere una pianta organica che comprenda per il momento 12.000 unità lavorative, creerebbe una categoria forte e per niente ricattabile sul mercato del lavoro. Solo con un movimento dei lavoratori che si riorganizzi sulla rigidità salariale, è possibile e realistico mandare avanti il progetto dei Partito Sardo d'Azione.
    Non è pensabile, per la liberazione dal colonialismo, un "piano straordinario per il lavoro", come quello enunciato tra le priorità programmatiche dell'attuale Giunta regionale, che non fa altro che legalizzare ciò che il colonialismo ha sempre fatto in Sardegna, cioè occupazione precaria, sottoposta ad ogni ricatto e al selezionamento dei partiti politici italiani * 1 lavoratori sardi questa strutturazione del mercato del lavoro, che nel piano straordinario per il lavoro" è definito, con contratti a termine non legati a momenti produttivP, lo conoscono da sempre. Solo che in questo "piano" è scritto in modo diverso. Ma per i nostri giovani il futuro è sempre quello del garzonato.
    L'avanzata verso il socialismo, perché l'affermazione di una Nazione Sarda sovrana non può esserci senza socialismo, la realizzerà solo un movimento dei lavoratori non ricattabile nel mercato del lavoro. Quindi, altro che "piano straordinario per il lavoro" instabile e a termine, ma un piano ordinario di lavoro stabile e garantito, non da "una copertura finanziaria assicurata dalla contrazione di mutui", ma da una copertura finanziaria prevista e compresa nel bilancio ordinario della Regione.
    Il Coordinamento Generale si è opposto, sin dalla sua nascita, al progetto avanzato inizialmente dalla CISI- e poi fatto proprio da CGIL e UIL, di trasformazione degli enti che fanno forestazione pubblica, da enti pubblici non economici in enti pubblici economici. La ragione di questa scelta dei sindacati italiani, è in armonia con la proposta di riforma della Regione, prevista tra le priorità programmatiche dell'attuale Giunta regionale che vuole trasformare tali enti in strutture subalterne alle regole del mercato.
    Da rimarcare il fatto che gli enti pubblici non economici perseguono esclusivamente finalità sociali e la forestazione, in una fascia pedoclimatica caldo-arida come quella sarda, che non consente un accrescimento rapido delle piante arboree, deve conservare connotati gestionali pubblici non economici finalizzati alla difesa dell'ambiente.
    La trasformazione da ente non economico in ente economico è l'anticamera dei licenziamenti, in quanto gli enti sarebbero vincolati alle leggi di mercato.
    Tali proposte i confederali italiani le hanno fatte in ossequio al progetto di riforma della Regione, fatta dall'attuale Giunta regionale, che prevede "una finalizzazione e rigorosa funzionalizzazione della contrattazione tra Regione e parti sociali agli obiettivi di sviluppo" da essa fissati. Tale contrattazione significa fare contratti di lavoro privatistici, che arrivino a forme di assunzione a termine.
    Tutto questo è ben lontano dal sardismo e collima perfettamente con la posizione del Governo romano. Infatti De Mita in una lettera al convegno della Confindustria italiana (Stato ed Economia, tenutosi a Napoli) affermava "intendo dire che il progetto di ricostruzione della politica, cominciando dai suoi termini istituzionali, deve cercare innanzitutto di fare propri i valori di efficienza, di comunicazione e di internazionalizzazione, che voi avete faticosamente conquistato in Italia attraverso le vostre imprese. Lo stato è qui in questo convegno, con il dovere di continuare a ricondurre alle condizioni generali del mercato il proprio settore imprenditoriale pubblico .... Il che significa la comunicazione con il privato attraverso l'apertura azionaria e, soprattutto, join-venture EniMontedison), ma internazionale, ha insegnato ai lavoratori forestali che dove si è andati avanti con le privatizzazioni (vedi Inghilterra), la disoccupazione è cresciuta.
    In Italia all'Alfa Romeo, dove si è privatizzato è scomparsa la democrazia sindacale, si sono intensificati i ritmi di sfruttamento, sono stati ridotti i salari e questo non per errore ma per ragioni inerenti all'accumulazione del capitale e alla formazione del profitto.
    Tutto ciò detto, vogliamo una Regione Sarda sostanziata dal potere democratico di un movimento dei lavoratori sardi, che estenda il suo controllo e la sua gestione dell'economia, ampliando il settore pubblico e non, come sostengono De Mita e Occhetto, uno Stato e una Regione che si limiti a dettare le regole per il buon funzionamento del privato e l'utilizzo delle risorse pubbliche a vantaggio di questo.
    Tenendo presente che presupposto dell'indipendenza è già da adesso la costruzione di elementi statuali, non sulla carta, ma sul reale potere popolare. Questo si realizza solo se la Regione Sarda diventa garante di questo potere e non ostacolo.
    Siamo ormai maturi per capire che, per quanto concerne l'oggetto principale di questa mozione, che la forestazione è uno strumento fondamentale per il riequilibrio ecologico e non può essere strutturata secondo il criterio costi/benefici, basato sul valore di scambio e sul profitto. E' stato proprio questo criterio di produzione a devastare il patrimonio boschivo della Sardegna.
    La lotta del Coordinamento Generale per lo sviluppo della forestazione pubblica, parte da un ragionamento dichiaratamente scientifico, legato alla questione dell'irreversibilità dei processi fisici. Per spiegarci meglio, siamo convinti che l'attuale situazione dei processi economici ponga l'umanità di fronte ad una scelta fondamentale: riequilibrare i tempi storico-economici con quelli biologici.
    Si tratta di governare l'economia, perché questa in pochi secoli ha accelerato a tal punto la crescita di entropia che i milioni di anni che la vita avrebbe naturalmente davanti a sè sul pianeta, rischiano di ridursi a qualche secolo. E' allora assolutamente necessario che i tempi dell'economia vengano cacciati dal ruolo assoluto che hanno nella società e vengano costretti al rispetto dei tempi biologici.
    Fare forestazione per noi significa soprattutto quella pubblica, in quanto favorirebbe insieme al riequilibrio ecologico la politica di piena occupazione.
    Con contratti non di tipo privatistico, peraltro illegali in un ente pubblico non economico, che sono l'anticamera di lavori precari e di licenziamenti, ma di carattere pubblicistico che serva a dare garanzie di stabilità e di sicurezza del posto di lavoro.
    Infine chiediamo che la politica dell'occupazione nella forestazione venga attuata in conformità alla direttiva CEE per prevede una unità lavorativo ogni 18 ettari, affinché la politica dell'occupazione diventi in Sardegna una cosa serie e che ampli la pianta organica in campo forestale fino a 12.000 unità.

  6. #26
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    Predefinito Re: 1989. XXIII° Congresso nazionale del PSd’Az.

    Partito sardo d'azione Partito patriottico e popolare
    Contributo alla discussione congressuale di Azeglio Murru

    ALCUNI DATI STORICI
    Congressi della Federazione combattenti sardi
    I° Nuoro - 2/3 Maggio 1918
    II° Cagliari - 7/8 Giugno 1919
    III° Macomer - 8/9 Agosto 1920

    Battaglie elettorali della F.C.S.
    Elezioni politiche del 1919: eleggono tre deputati.
    Elezioni amministrative del 1920: conquistano 150 Comuni e l'Amministrazione della provincia di Sassari.

    NASCITA DEL PARTITO SARDO D'AZIONE
    Il IV congresso della F.C.S., tenuto ad Oristano il 16/17 Aprile 1921 si trasforma in Costituente Sardista. Il 17 Aprile nasce il Partito Sardo d'Azione.

    PRIMA BATTAGLIA ELETTORALE SARDISTA
    Elezioni politiche del 1921: il Psd'az. elegge quattro deputati su 12: Orano, Mastino, Cao, Lussu.

    IL VENTENNIO FASCISTA
    Il fascismo conquista prima l'Italia del nord, poi quella meridionale e la Sicilia. Per conquistare la Sardegna, Mussolini manda un uomo di sua fiducia, il generale Gandolfo, con la carica di Prefetto di Cagliari. Promise e dette un miliardo alla Sardegna - il primo piano di rinascita! - e riusci a convincere una parte dei dirigenti sardisti, con in testa l'on. Pili, a passare al fascismo. Con le legge speciali fasciste, il Psd'az., come tutti i partiti democratici italiani, dovette passare alla clandestinità.

    SECONDO DOPOGUERRA
    Nel 1944 Lussu rientra in Sardegna, ma non è più sardista. Qualche anno dopo propone al partito sardo di sciogliersi e di confluire nel partito socialista italiano. Il partito resiste, ma una parte consistente segue Lussu. Questa scissione ebbe indubbiamente conseguenze negative sia sul Partito Sardo che sulla Sardegna.

    L'ERRORE DI EMILIO LUSSU E COMPAGNI
    Nel 1949 E. Lussu fondò, assieme ai suoi seguaci scissionisti, un partito - ponte, il Psdas (Partito sardo d'azione socialista), che confluì, qualche mese dopo la sua fondazione nel Psi. L'errore di E. Lussu aveva una radice ideologica, cioè Lussu confondeva la lotta sardista, cioè patriottica, con la 9otta di classe", cioè sociale. Con simili idee, il cambiamento di campo, se non inevitabile, risultava probabile. Nel Psd'az. di allora, gli italiani individuano due anime, una di sinistra (socialista) ed una piccolo - borghese, dimostrando la stessa incapacità di Lussu a distinguere tra lotta fra nazioni e lotta sociale.

    IL CONGRESSO DI ORISTANO DEL 1979
    Non ero presente a quel congresso, che determinò una effimera rinascita del nostro partito. I congressi successivi sono stati una brutta copia di esso.
    Tenterò di spiegare, dall'esterno, il suo significato. In base a quel che mi risulta, per le elezioni regionali del' 79, il Pci fece al nostro partito una ennesima e generosissima offerta, ci proposero l'elezione di ben tre consiglieri regionali, uno per ogni provincia. Era necessario però, dare tre nomi. Tale proposta non fu accettata, il partito decise di presentarsi in modo autonomo, col proprio simbolo.

    E' opportuno tener presente che in quel momento non avevamo neanche un consigliere regionale. nelle elezioni precedenti del '74, avevamo eletto un solo consigliere regionale, il nostro grande amico scomparso On. G.B. Melis, ma in seguito alla sua morte, gli subentrò il Dott. Bruno Fadda, ormai non più sardista ma repubblicano. Dunque, nel '79 eravamo a quota zero, a livello regionale.
    Perché, allora, questo grande rifiuto? Credo che due fossero i motivi principali. Primo: bisognava dare tre nomi e quindi tutti gli altri amici speranzosi venivano tagliati fuori senza pietà. Secondo: nei pochi che eravamo rimasti nel partito, la fede nel sardismo non era ancora spenta. Il problema era di individuare e correggere i nostri probabili errori del passato.
    Ci poniamo la domanda: col congresso di Oristano: il partito, individuò tali errori? La risposta è assolutamente negativa.
    Quali erano state le "novità" di quel congresso? Principalmente ci fu il rifiuto dell'ennesima alleanza Il elettorale" con un partito italiano ed in relazione a ciò, venne approvato un emendamento all'art. 6 dello Statuto, in forza del quale il partito non poteva più, tra l'altro, ripetere alleanze "elettorali" con partiti italiani, se non, eventualmente, a seguito di un pronunciamento positivo di un congresso.
    Questo emendamento ha un antefatto. Al XVII congresso di Cagliari del '74, nella risoluzione conclusiva, si stabilì, tra l'altro, che eventuali alleanze "elettoralC non potevano attuarsi se non in seguito ad una "determinante consultazione preventiva di base" E' noto che tale decisione di quel congresso venne disattesa, per cui, su delibera del comitato centrale, si fece una seconda alleanza elettorale col Pci, per le elezioni parlamentari italiana. Con l'emendamento all'art.6, penso si sia voluto codificare tale principio, nella illusione, forse, di impedire nuovi eventuali colpi di mano da parte del consiglio nazionale, come in passato dell'equivalente comitato centrale.
    Al gran rifiuto della proposta per l'ennesima alleanza elettorale con un partito italiano, si aggiunse un po' di contorno, del resto non sostanzialmente nuovo, quali le idee di indipendenza, socialismo e federalismo.
    Nel nostro partito, federalista per sua natura, si è sempre parlato di una società in cui "secondo l'originario programma sardista, la produzione sarà tutta dei lavoratori, assurti alla dignità e responsabilità di imprenditori". L'idea del socialismo "non marxista" non era, dunque, una novità.
    Rimane l'idea della indipendenza, ma anche qui di nuovo c'è ben poco. Infatti, in precedenza, si parlava di ', autonomia statuale, nell'ambito di un patto federativo con l'Italia e nella prospettiva di una Confederazione europea e mediterranea delle regioni e delle etnie":
    A tutto ciò si aggiunga la presenza costante nel partito di una corrente francamente indipendentista. Basta ricordare il compianto amico Antonio Simon Mossa, che si batteva per l'idea dell'indipendenza della Sardegna e non era il solo a sostenere questa idea, ma i consensi non arrivavano lo stesso.
    Se, dunque, non stiamo qui ad elucubrare, si può dire che il congresso di Oristano si limitò al gran rifiuto dell'ennesima letale alleanza elettorale con un partito italiano, nella circostanza, col Pci.

    L'EQUIVOCO DEL CONGRESSO DI ORISTANO
    Con le decisioni del congresso di Oristano, ebbi la convinzione - ma infondata - che il nostro partito avesse finalmente rotto i ponti sia sul piano organizzativo - le alleanze elettorali - sia sul piano ideologico - destra, sinistra, centro, etc... - con i partiti italiani.
    Avevo creduto, cioè, che il nostro partito avesse finalmente rotto ed in modo definitivo, strategico, con le alleanze elettorali letali del passato e che si presentasse nuovamente agli elettori sardi col volto originario di partito patriottico e popolare, di partito, quindi, di tutti i sardi che si riconoscessero nel nostro programma. Non era così. Il partito continuava a pensare in italiano e non in sardo. Non solo non abbiamo rotto con le ideologie dei partiti italiani, ma si ha l'impressione che il partito non abbia nemmeno rotto con le micidiali alleanze elettorali, e quindi sul piano organizzativo, con i partiti italiani, tant'è vero che la segreteria del partito ha avuto contatti con esponenti di Democrazia proletaria sarda che di sardo non ha nemmeno l'odore, salvo la eventuale buona fede di qualcuno di loro - col risultato concreto che tre "compagni" di Dps sono stati nelle nostre liste per le ultime regionali.
    Forse, miseramente, si pensava al vantaggio di un pugno di voti in più, senza tener conto dei contraccolpi che avrebbero resa sicuramente negativa tale operazione.

    IL VENTO DELLA SPERANZA DELUSA
    Il congresso di Oristano, come già rilevato, dette l'impressione che il nostro partito fosse diventato o ridiventato finalmente il partito di tutti i sardi, un partito patriottico e popolare, senza linee preferenziali, senza assi privilegiati, senza "sconti" per nessuno, e che quindi il nostro atteggiamento nei confronti di tutti i partiti democratici italiani fosse di equidistanza.
    Fu un'illusione, ma questa illusione momentanea aveva provocato il meraviglioso vento sardista, che fu il vento della speranza per un numero sempre crescente di sardi, che oggi si sentono amareggiati e traditi e quindi costretti a rientrare, umiliati, nelle file dei loro partiti di origine.

    L'INSIPIENZA DEL NOSTRO PARTITO
    Sui risultati elettorali delle regionali dell'84 e delle provinciale dell'85, si doveva fare l'analisi del voto ma non è stata fatta. Sul "Solco" si parlava di analisi del voto ma si trattava semplicemente dei conti della serva, sebbene utili sul piano organizzativo ma non su quello ideologico, perché si cercava di sapere se avevamo avuto più consensi nei grossi centri e nelle zone industriali piuttosto che nelle campagne.
    Anche qui si denota una mentalità italianista e non sardista. Noi dovevamo invece cercare di capire da quali aree politiche e quindi ideologiche ci provenivano i voti. Se avessimo fatto questa semplicissima e facilissima analisi, avremmo capito che i nostri voti provenivano da aree moderate ed in modo particolare e preminente dalla democrazia cristiana.
    Una volta acquisiti questi elementi sarebbe apparso chiaro anche ad un deficiente di manicomio che proclamare ai quattro venti e ad ogni piè sospinto, quasi in modo ossessivo, che il nostro partito era di sinistra e che di conseguenza seguiva una linea preferenziale di sinistra, equivaleva dire ai nostri elettori "badate che avete sbagliato porta, se non siete sinistra non vi vogliamo!".
    In realtà i nostri elettori non erano di "sinistra" e non sono di sinistra nemmeno quelli che ci sono rimasti, per adesso, e perciò se ne stanno andando ed anche rapidamente.
    Amici, la casa sta bruciando, a forza di spostarci a sinistra, siamo usciti fuori strada: bisogna rimettere il partito in carreggiata.
    Mi sembra evidente che se noi ci proclamiamo di sinistra, allora affermiamo che il "sinistrismo" è un valore".
    Ma se il sinistrismo è un valore, il "sardismo" non è più valore, per cui non solo siamo destinati a perdere i voti dei sardi che non si ritengono di sinistra, ma anche di quelli che si ritengono di sinistra e che ci hanno votato non per il nostro conclamato sinistrismo bensì per il nostro sardismo, che in realtà non c'è, se non nelle nostre intenzioni.
    La verità è che il partito fino ad oggi ha dimostrato di essere ignorantissimo in fatto di filosofia della storia, e si è comportato come se la Sardegna fosse già uno Stato indipendente e si dovesse quindi contrastare chissà quali forze conservatrici sarde, in nome del socialismo e magari della ipotetica 1otta di classe" di marxiana memoria.

    LOTTA FRA NAZIONI, LOTTA DI CLASSE, LOTTA DI RELIGIONE
    Scrive Marx, nel manifesto dei comunisti: 9a storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi". Ma che cos'è una lotta di classe?. Delio Cantimori, in un lunghissimo commento al manifesto, scrive: 'Tino a Lenin s'interpretava la lotta di classe come lotta millenaria fra ricchi e poveri Dunque per circa settant'anni i marxisti non avevano capito cos'era... il marxismo!. In verità, anche dopo Lenin, nessuno sa cosa sia la lotta di classe e ciò per due ragioni: non c'è logica nel principio della lotta di classe e non c'è riscontro di tali lotte nella storia di tutti i tempi e luoghi. Fu lotta di classe secondo Marx, l'antica lotta plurisecolare fra patrizi e plebei nella Roma antica. In realtà si trattava di lotte fra comunità umane etnicamente diverse. i plebei non erano i poveri, ma "gli estranei". Così sosteneva il Vico e così sostenevano il Niebuhr ed il Mommsen e così sostengo io, pur partendo da considerazioni diverse. Potrei continuare, ma questa non è la sede più adatta. Allo stesso modo si può affermare che non è mai esistita e non esiste, la lotta di religione, e non solo per ragioni logiche, ma anche e sopratutto perché ciò che viene indicato talvolta come lotta di religione, in realtà è lotta tra popoli diversi. La guerra civile, per esempio, ancora in atto nell'Irlanda del Nord, non è lotta di religione, ma lotta fra popoli diversi, cioè tra Irlandesi, di religione cattolica, ed oriundi britannici, di religione protestante. Concludendo su questo punto, ritengo di poter affermare che la storia dell'umanità di tutti i tempi e luoghi è stata sempre ed è una storia di lotte tra popoli diversi e più in generale fra comunità umane etnicamente diverse.
    tutte le lotte della storia sono patriottiche, comprese le cosiddette rivoluzioni (francese, sovietica, cinese ecc ... ).

    LA LOTTA SARDISTA
    Se è vero, come è vero, quanto testè affermato, la nostra lotta non può essere che patriottica, se non altro perché altri tipi di lotta non esistono, e non può essere che popolare, cioè che coinvolga tutto il popolo sardo, perché è nell'interesse di tutto il nostro popolo difendere i propri interessi materiali e spirituali, ed i nostri nemici non possono essere che altri popoli: ma quali?

    LOTTA PER L'INDIPENDENZA 0 PER L'AUTONOMIA STATUALE?
    L'idea dell'indipendenza nasce da due considerazioni: la Sardegna è una "nazione" e per poter stringere un patto federativo con l'Italia dobbiamo trovarci in condizioni di parità; dobbiamo essere cioè, indipendenti. Dunque noi non saremmo italiani. Ma che sarebbero gli "italiani"?. Forse i lombardi che discendono dagli antichi 1ongobardP, popolo barbaro di origine germanica? Gli
    italiani non esistono, ma esistono popoli diversi, che parlano lingue diverse e che insieme formano la Il nazione" italiana, cioè lo stato italiano. Se si dovesse realizzare l'indipendenza perfetta di tutte le nazionalità del mondo, tutti gli stati oggi esistenti andrebbero in frantumi, mentre si parla di unire e non di dividere popoli diversi e ciò in armonia con gli ideali costanti del nostro partito. L'indipendenza della Sardegna non sarebbe altro che la "conditio sine qua non", per poter stringere un patto federativo con l'Italia. Dunque, il punto d'arrivo rimarrebbe pur sempre l'autonomia statuale, rivendicata anche in passato dal nostro partito. non credo che la via contorta approvata al congresso di Oristano del '79 per arrivare all'autonomia statuale, confermata nei congressi successivi e codificata nell'attuale statuto del partito sia condivisa e sopratutto capita dalla stragrande maggioranza del partito e del popolo sardo. Non è forse evidente che col patto federativo con l'Italia, la Sardegna rinuncerebbe alla sua "indipendenza", una volta raggiunta? Ma anche sul "patto federativo" c'è molta confusione. Nel mondo esistono, di fatto, unicamente stati federali, con un governo centrale e larghe autonomie locali; non esistono patti federativi fra stati diversi - ed una ragione ci deve pur essere - di pari dignità ed autonomia, senza un governo centrale che di fatto limiti l'autonomia degli stati federati.

    CHE COSA SI DEVE INTENDERE PER INDIPENDENZA
    Fermo restando che nessun sardista ha mai parlato di separatismo", rimane dimostrato che nessuno di noi pensa ad un Sardegna "separata" dal resto dell'Italia. Ma allora, che cosa dobbiamo intendere per indipendenza, o se vogliamo, per autonomia statuale? Dobbiamo intendere semplicemente 9a parità, nel bene e nel male" con l'Italia o, ciò che è lo stesso, con tutte le altre regioni italiane.

    LO SCOPO DELLA LOTTA SARDISTA
    Risulta evidente lo scopo della nostra lotta: raggiungere gli stessi livelli economico - sociali dell'Italia nel suo complesso e conquistare il diritto alla sardità (bilinguismo perfetto ecc ... ). Ma questa parità deve essere conquistata giorno per giorno, gradualmente, passo dopo passo, promuovendo principalmente l'industrializzazione dell'isola. Non bisogna mai dimenticare che senza l'industrializzazione sii rimane terzo mondo, ed è compito del governo dei sardi promuovere lo sviluppo dell'economia della Sardegna: i privati, da soli, possono fare ben poco ed hanno sempre fatto ben poco. Si ha bisogno, quindi, di un governo sardo patriottico e ben cosciente dei suoi doveri e degli ostacoli che dovrà superare. E' noto che i partiti ed i sindacati italiani di tutti i tempi hanno sempre penalizzato l'Italia meridionale e le isole, a vantaggio dell'Italia del nord, e ciò è dovuto all'egemonia dei popoli del Nord su quelli del Sud. In realtà, si comprende che i partiti ed i sindacati italiani non hanno mai difeso il Sud, perché non possono", sia perché egemonizzati dal Nord, sia perché dare di più al Sud significa dare di meno al Nord. Attendersi aiuto dal Nord, e quindi dai loro partiti e sindacati è come se gli agnelli chiedessero protezione alle volpi! Per la Sardegna, come per la Sicilia e l'Italia meridionale, non rimane che la lotta autonoma, sull'esempio del nostro partito. E'necessario, perciò, che il nostro partito mobiliti tutto il popolo sardo intorno ai suoi problemi di sviluppo e di libertà, e per fare ciò occorre che il nostro partito sia credibile sia in base alle sue iniziative concrete, sia in base ai suoi messaggi.

    INIZIATIVE CONCRETE
    E' noto che il nostro partito ha posto, e non da oggi, alcuni grandi temi all'attenzione dei sardi: autonomia statuale, zona franca, continuità territoriale, flotta sarda ecc.- finalizzati alla rinascita della Sardegna; ma ciò che in parte non ha saputo fare è stato quello di affrontare anche i problemi del quotidiano. Dai dati statistici risulta, per esempio, che il turismo in Sardegna, a parità di popolazione, è all'incirca la metà di quello che si verifica nell'Italia centro - settentrionale. Ecco un campo vastissimo su cui operare e l'industria turistica è anche un'industria pulita. Mangiamo conigli 'Treschi di giornata" che arrivano dall'Ungheria. I coltelli di Pattada vengono fabbricati in Toscana. Circa il 90% del granito sardo viene lavorato fuori dalla Sardegna, ecc... perché non s'inizia ad affrontare concretamente e con decisione questi ed altri problemi simili? Sono cose, a mio avviso, alla portata della Regione e sarebbero delle ottime iniziative a favore dell'isola e del nostro partito che vedrebbe aumentare i consensi e quindi la sua capacità a difendere gli interessi dei sardi.

    MESSAGGI SBAGLIATI
    Come già chiarito, la sola lotta registrata dalla storia dell'umanità di ogni tempo e luogo è quella fra popoli diversi. Da qui discende che i possibili nemici del popolo sardo sono altri popoli. Un povero cristo di nome Gesù diceva che "un regno diviso contro se stesso va in rovina, ed una casa crolla sull'altra". E' necessaria, cioè, l'unità di un regno, di un popolo sardo intorno al nostro partito. Ma si può realizzare questa unità, considerando il nostro partito come partito di "sinistra"? Ma, a sinistra di chi, se siamo soli? Così come in passato l'errore più micidiale fu quello delle alleanze Il elettoralC con questo o con quel partito italiano (Comunità di Olivetti, Pri, Pci), oggi l'errore più grave che sta commettendo il partito è quello di dichiararsi di sinistra, e questo presunto sinistrismo ha generato un figlio che risulta anche più degenere del padre, cioè la linea preferenziale di sinistra: truncu de figu, astula de figu! Stiamo distruggendo per la seconda volta il nostro partito, come chiaramente si ricava dai risultati elettorali delle ultime tre votazioni: per il parlamento italiano, regionali ed europee:


    SINISTRISMO, MALATTIA INFANTILE DEL P.S.D'AZ.
    Il mio discorso è culturale e non di schieramento e per fugare ogni dubbio dirò che oltre a Lussu, sbagliò Gramsci quando accusava Stalin di "nazionalismo" e sbagliò anche Gandhi quando si opponeva all'indipendenza del Pakistan. la storia ha dato ragione ai sardisti e torto a Lussu: ha dato ragione a Stalin e torto a Gramsci; ha dato ragione ai Pakistani e torto a Gandhi. L'amico On. Michele Columbu e più, danno per scontata la nostra naturale e storica collocazione nell'ambito delle sinistre europee", dimostrando di non saper distinguere tra schieramenti di popoli e schieramenti di partiti, nonostante sia ampiamente dimostrato dalla storia che le "internazionali" di partiti sono poco più che fuochi di paglia: basti vedere come sono andate a finire le internazionali socialiste o comuniste!. Ed a nulla vale affermare poi, che ciò "non è sufficiente di per sé a far considerare a noi più vicini i partiti della sinistra italiana rispetto a quelli laici o di ispirazione cattolica", se non altro perché i partiti della sinistra italiana fanno parte, a pieno diritto, delle "sinistre" europee!. Un altro valoroso amico avrebbe dichiarato alla stampa che "il nostro partito è di sinistra e pesca a sinistra"! Qui la Sardegna viene immaginata cime un'immensa peschiera, ed il nostro partito pescherebbe dalla riva sinistra. A parte il fatto che su detta riva vi è un certo affollamento (comunisti, socialisti, socialdemocratici, ecc ... ), ci viene da chiederci se al centro ed alla destra peschiera è per caso, riserva di pesca della Democrazia Cristiana e di altri partiti non di sinistra italiani!

    COL SINISTRISMO SI PARTE SCONFITTI!
    Se, dunque, siamo di sinistra, dobbiamo naturalmente pescare a sinistra. In questo caso, visto l'affollamento di cui sopra, ci candideremmo a rappresentare una frazione della sinistra sarda: ma la sinistra sarda è già una frazione del popolo sardo e quindi si deve concludere che il nostro partito si candiderebbe a rappresentare una frazione del popolo sardo: ma in questo modo, amici, si è sconfitti in partenza! Ecco un modo infallibile per distruggere per la seconda volta il nostro partito!


    MA QUALE SOCIALISMO?
    L'idea del socialismo ha avuto sempre ospitalità nel nostro partito. Si parlava di socialismo "non marxista". Evidentemente il socialismo si può condire con salse diverse. Lo stesso Marx parlava di cinque socialismi diversi non consigliabili: solo quello proposto da lui era buono!. Di socialismo si discute da almeno duemila e quattrocento anni, ad iniziare da Platone, ed ancora non si è riusciti a sapere casa sia, almeno quello buono. L'ori. Carlo Sanna, segretario nazionale dei partito, ha affrontato il problema nella sua relazione al XXII congresso nazionale, relazione che è stata adottata come documento finale e quindi risulta per noi vangelo, fino ad eventuali nuove prese di posizione. Secondo questo documento -vangelo-, "se dobbiamo elaborare... una ideologia del socialismo è certo che possiamo trovare in abbondanza gli ingredienti necessari, nella tradizione storica della Sardegna e nella sua proiezione culturale". Qui si configura una via "sarda" al socialismo. Ma ai nostri eventuali critici - continua l'ori. Sanna - si potrebbe 'Tacilmente ribattere che il socialismo disponibile sul mercato ed eventualmente importabile... non è tutta merce di qualità pregiata". Infatti "quale dei tanti socialismi è oggi veramente allettante?. Il real - socialismo dell'Est, il socialismo consumistico dei Paesi Scandinavi o il socialismo militaristico di non pochi paesi del terzo mondo!T'. Non credo che l'ori. Sanna abbia tutti i torti, ma puntare ad una "quarta" via al socialismo non mi sembra cosa saggia, anche tenendo presente che il Pci si è arenato alla terza via ed ha dovuto ripiegare rapidamente sulla seconda via, cioè sulla socialdemocrazia consumistica europea. l'uomo nella sua storia ha espresso ed esprime due grandi desideri: un paradiso terrestre ed un paradiso celeste. Il primo paradiso terrestre durò poco, ma l'uomo ancora non si dà per vinto. Noi dobbiamo far politica e non religione; dobbiamo cioè, promuovere l'industrializzazione della Sardegna e più in generale il suo sviluppo economico e sociale.

    I NUOVI FERMENTI NEL P.S.D'AZ.
    La 1inea preferenziale di sinistra" attraversa una crisi che ritengo irreversibile: la base del partito si ribella in modo sempre più evidente e deciso a questa pastoia che i vertici del partito le hanno voluto imporre, in violazione talvolta anche delle norme statutarie del partito stesso. Ma anche al vertice del partito s'incomincia a parlare apertamente di "mani libere", ma la confusione ideologica rimane e si conferma. Infatti, che cosa si vuole dire con "mani libere"? Si vuole dire certamente che non si dà più per scontata la riconferma della 9inea preferenziale di sinistra". Era tempo!. Ma non si tratta ancora di una vera linea strategica, bensì di una linea tattica ugualmente di basso livello ideologico e culturale.

    EQUIDISTANZA E NON SCHIARIMENTI "PREFERENZIALE'
    Da quanto già detto, risulta chiaro che il nostro partito deve seguire, per quanto riguarda le alleanze di governo a tutti i livelli (Regione, province, comuni), un atteggiamento "strategico" - e non tattico - di equidistanza. E'questo il "messaggio" che dobbiamo comunicare al popolo sardo, diversamente il nostro partito apparirà ai sardi sempre meno sardo e sempre più italiano. Stiamo deludendo e amareggiando gli elettori sardi col sinistrismo e le linee preferenziali. E' in questo modo che si spiegano i nostri tre ultimi insuccessi elettorali.

    P.S.D'AZ. - PARTITO PATRIOTTICO E POPOLARE
    In conclusione, il nostro partito va concepito come partito patriottico e popolare, né di sinistra, né di centro, né di destra, cioè di tutti i sardi che accettano il nostro programma, che potrà anche essere discusso ed eventualmente migliorato. Tutti i partiti sono patriottici, bisogna vedere quale "patria" difendono. La nostra posizione rispetto ai partiti italiani deve essere di principio, ideale, strategica, deve essere cioè una linea di equidistanza, senza preferenze. Le convergenze di governo con altri partiti devono avvenire unicamente sulla base dei programmi e non di schieramenti preferenziali. Per il governo della Regione decide il Consiglio Nazionale, mentre per i governi delle province e dei comuni devono decidere autonomamente le federazioni e, rispettivamente, le sezioni, senza interferenze prevaricatrici da parte dei rispettivi organi superiori. La gestione del partito dovrà risultare più trasparente e democratica a tutti i livelli, perché spesso si è avuta l'impressione che il nostro fosse un partito senza legge.
    Bisogna affrontare con maggiore impegno i problemi del quotidiano ed a tale scopo ritengo particolarmente utile un appoggio leale e forte al sindacato sardo, che fino adesso non sembra abbia goduto di molta attenzione da parte del nostro partito. E' necessario organizzare sindacalmente tutte le categorie sociali della Sardegna, dai lavoratori salariati agli imprenditori. L'ori. M. Columbu propose diversi anni fa la creazione di una confindustria sarda, cioè autonoma da quella italiana, ma nessuno ne ha più parlato. Vorrei qui precisare che un sindacato "sardo" o è sardista o non è sardo.
    Amici, ripeto, se vogliamo distruggere il partito per la seconda volta, siamo sulla buona strada, ma se vogliamo fargli riprendere la marcia in avanti, allora buttiamo a mare il sinistrismo ed in un immondezzaio qualsiasi linea preferenziale.
    Prima o dopo capiremo come salvare il partito da una seconda distruzione, ma cerchiamo di non perdere troppo tempo, perché perdere troppo tempo non è nell'interesse del partito né della Sardegna.

  7. #27
    Sardista po s'Indipendentzia
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    Predefinito Re: 1989. XXIII° Congresso nazionale del PSd’Az.

    Per una tesi congressuale
    Contributo al dibattito congressuale di Antonello Pilloni


    L'attuale congresso cade in un momento di tensione all'interno del Partito, nella nostra zona e nell'intera Sardegna.
    Nelle ultime tornate elettorali abbiamo perso complessivamente circa il 25% dei voti. Le ragioni del mancato consenso elettorale sono da ricercare nella mancanza di un progetto politico che, dal vertice alla periferia, sia stato in grado di interessare e coinvolgere maggiormente la base sardista e l'elettorato più in generale. La mancanza di un progetto politico ha consentito ai singoli impegnati nella gestione del Partito e delle Istituzioni la facoltà di intendere ognuno per sé e di prendere iniziative autonome, necessariamente frammentarie, molto spesso divergenti fra loro, ingeneranti confusione all'interno ed all'esterno.
    La rappresentanza Sardista impegnata nelle Istituzioni in molte occasioni non è stata all'altezza di contrastare i programmi e gli atti di governo portati avanti dai Partiti alleati, anche quando questi erano non solo in contrasto, ma talvolta contrari agli interessi della Sardegna.
    Questo ha determinato negli stessi scoramento e li ha portati di volta in volta ad improvvisare affidandosi alla fantasia del momento ed all'estro dell'ora.
    Una situazione di questo tipo non poteva dare buoni frutti e, infatti, non ne ha dato.
    Il problema è stato reso più grave da un rapporto non corretto tenuto da molti uomini delegati a rappresentare il Partito nell'Ente Regione. la gravità dell'errore sta nella mancanza di spirito di servizio nei confronti della base sardista e delle sue forze attive.
    Insomma, possiamo affermare senza tema di smentite che hanno operato perlomeno con mal celata superbia.
    Il partito responsabilizzato da un notevole suffragio elettorale, delegato a gestire concretamente il cambiamento della conduzione politica e amministrativa della Sardegna, si è trovato nell'ora che era necessaria l'azione profonda per incidere nel tessuto culturale, ambientale, economico, sociale, di sviluppo e di progresso della nostra isola, di fronte sui grandi temi all'immancabile pervicace ostracismo del Governo italiano e alla resistenza rabbiosa dei Partiti di opposizione in Sardegna, nonché quella frontale o passiva dei Partiti alleati di Governo. Le difficoltà si sono estese perfino alla gestione del quotidiano, sia perché mancava parzialmente una cultura operativa di governo, sia sopratutto perché non si è riusciti agevolmente a superare le stratificate ragnatele burocratiche che di volta venivano stese per ritardare l'ideale azione rinnovatrice.
    Questi fenomeni hanno prima bloccato il nuovo slancio che si è creato, e poi frenato l'azione innovativa iniziale. In buona sostanza il Partito non è stato in grado di rispondere pienamente alle aspettative e alla effettiva domanda di cambiamento che i Sardi gli avevano affidato sopratutto nelle Elezioni Regionali del 1984. L'insieme di questi fatti hanno determinato disillusione nell'elettorato e portatd una parte considerevole di esso a non rinnovare la fiducia e il consenso nelle ultime elezioni.
    Partendo da questo assunto si capisce subito che gli sforzi e la buona volontà finora messi in atto dal Partito nella sua storia passata e recente non sono bastati a suscitare sufficientemente nel Popolo Sardo un più diffuso consenso, senza il quale nessuna battaglia politica può sperare in un duraturo e progressivo successo.

    PROPOSTE POLITICHE
    Si rende, pertanto, necessario e improrogabile che il partito si doti di un nuovo progetto politico, capace di dare corpo ad alcuni punti qualificanti dei congresso di Carbonia e ad altri di maggiore respiro Politico. Dentro questa logica va collocata la immediata rivendicazione della Riforma Statuaria, che, dando per scontato e prendendo atto del profondo legame instauratosi nel tempo tra la nostra Regione, l'Italia e le rispettive Popolazioni, rassicuri, a un tempo, lo Stato Italiano e gli stesi Cittadini Sardi che non condividono il separatismo che non è prevista nelle rivendicazioni che il Partito Sardo d'Azione porta avanti, al momento, nessuna volontà politica di separazione dall'Italia, che tuttavia si conferma e si rilancia con rinnovamento vigore la rivendicazione della nostra etnia, della nostra cultura, della nostra lingua e il riconoscimento della nostra nazionalità, che comprenda il nostro diritto a trattare e autogovernare la nostra economia e di organizzare finalmente nella libertà e senza limitazioni o imposizioni la via dello sviluppo e del progresso più congeniale per la Sardegna e il suo Popolo.


    MOVIMENTO POLITICO - RELAZIONI E RAPPORTI CON 1 PARTITI NAZIONALI
    Il Partito Sardo deve già in questo congresso farsi carico della proposta ai Partiti Nazionali che operano in Sardegna di trasformarsi in Partiti Regionali, mantenendo ove lo ritengano opportuno, rapporti di collegamento o federativi con i Partiti Nazionali.
    L'introduzione di un elemento come questo susciterà sin dall'origine molte discussioni e polemiche, destinate a provocare chiarimenti di fondo all'interno delle altre Forze Politiche, dei Movimenti giovanili, delle Parti Sociali, degli intellettuali, di tutti i Sardi, insomma, che sono più avvertiti, più sensibili e più disponibili a lavorare concretamente perché in tempi brevi si introduca -nella legislatura una nuova concezione dei rapporti tra la Sardegna e lo Stato Italiano, che ne rafforzi sin dall'immediato la posizione politica nella particolare urgente rivendicazione di tutta la materia inerente la Zona Franca, i dazi doganali, la continuità territoriale, la riduzione delle servitù militari, e l'allontanamento delle basi nucleari.
    A questo punto si possono individuare alcune linee di economia politica che il Partito dovrebbe privilegiare, esse sono: Ambiente, Industria, Agricoltura, Trasporti e Turismo.
    Ambiente: L'ambiente essendo il punto principale della vita dell'uomo ha necessità di essere esaminato con particolare cautela e attenzione, per introdurre tutti quei sistemi atti ad individuare le correzioni necessarie a consentire un retto sviluppo industriale e agricolo del territorio a salvaguardia delle attività produttrici e di lavoro; particolarmente, dobbiamo operare per la valorizzazione di tutte le risorse locali ed al loro autentico decollo, tenendo sempre presente la compatibilità delle due fondamentali esigenze.
    Trasporti e Turismo: Il cardine essenziale della struttura economica della Sardegna rimane l'irrisolto problema dei trasporti, ed il mancato riconoscimento dell'auspicata continuità territoriale: questo fatto comporta una costante differenziazione dei prezzi sia nel trasporto delle merci che nel trasporto delle persone, sopratutto nel trasporto delle merci, nella situazione attuale, caricate come sono dai costi aggiuntivi rendono le Aziende isolane non concorrenziali, in quanto le merci da queste prodotte arrivano sui mercati nazionali ed esteri a prezzi non competitivi.
    Riferendosi poi al costo dei trasporti per le persone è rilevabile l'aspetto negativo che questo fatto incide negativamente in tutta la problematica dei trasporti e anche nei confronti del turismo che è di norma l'asse portante di ogni Nazione o Regione che si sia posta o si ponga l'adeguato sfruttamento di questa importantissima risorsa economica e naturale.
    Su questi fondamentali valori il Partito deve condurre una azione molto incisiva, sollecitando all'azione stessa, non solo tutte le proprie forze attive, ma anche le altri parti politiche e i Sindacati operanti in Sardegna, ma sopratutto il più vasto consenso delle popolazioni della nostra Isola e dei suoi emigrati.
    Questo documento non può sviluppare adeguatamente i concetti in esso contenuti, per ovvie ragioni
    tecniche e temporali. Si auspica che il Partito dia finalmente corso alla istituzione delle previste Commissioni di studio e programmazione nei diversi settori della vita culturale, sociale ed economica della Sardegna.
    Questi strumenti dovrebbero consentire al Partito di preparare la classe dirigente sulle singole materie e metterle in grado di affrontare le discussioni sulle tematiche presenti e future, e quindi non solo di confrontare le proprie tesi con le altre forze politiche sarde, ma di studiare per tempo le tendenze dei mercati che si muovono a ritmi sostenuti nel mondo moderno e non consentono a nessuno i in modo particolare a noi che viviamo come si può facilmente constatare, anche geograficamente ai margini delle Nazioni o Regioni economicamente avanzate.
    Detti programmi possono trovare applicazione e pratica di governo, se il Partito per svilupparli realmente baderà più ai programmi che alle formule politiche, evitando, per quanto possibile, di essere troppo spesso, come talvolta avviene il Partito della crisi.
    Il varo di un progetto politico di così vasta portata non può prescindere da una grande unità tesa anche ad aggiornare le regole organizzative, strutturali, finanziarie e gestionali del Partito, che veda le sue varie componenti ed i singoli impegnati nella gestione interna e nelle Istituzioni preparati e disponibili al dialogo costruttivo volto ad evitare qualsiasi lacerazione, capace di mobilitarsi con tutte le proprie energie per provocare nella quotidiana azione politica l'espandersi nella società Sarda della domanda sempre più diffusa dell'esigenza di un radicale cambiamento. Infatti si deve ribadire il principio che l'atteso cambiamento in grado di rivitalizzare e far prosperare la nostra cultura e di riaffermare il diritto dei Sardi a vedere la loro lingua insegnata nelle scuole ed il suo uso negli uffici, completa oltre all'importantissima salvaguardia dell'ambiente, lo sviluppo del progresso sociale.
    Il tutto passa e si afferma in modo insopprimibile solo col radicarsi nella nostra coscienza di Sardi del diritto ad autogovernarci, in buona sostanza con la conquista del nostro diritto ad essere Nazione e ad essere in definitiva artefici del nostro avvenire.

 

 
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