di Alessandro Galante Garrone – In “Nuova Antologia”, fasc. 2155, luglio-settembre 1985, Le Monnier, Firenze, pp. 115-121.
Quarantotto anni fa, nella foresta di Bagnoles-de-l’Orne, furono trucidati a colpi di pugnale, da prezzolati sicari, Carlo e Nello Rosselli. Dietro i sicari, c’erano gli uomini dei servizi segreti fascisti (e quanti misfatti si debbono ai servizi segreti di ogni paese e di ogni tempo, anche nei nostri giorni?); dietro costoro, i vertici stessi del regime. Il fascismo, non c’è che dire, sapeva scegliere bene i nemici da stroncare; riconosceva, «come le querce più gagliarde che il taglialegna segna di rosso prima di abbatterle, gli uomini migliori che era indispensabile assassinare uno ad uno»: sono parole di Calamandrei. Non è lontano il cinquantenario della loro morte. Dovremmo cominciare a ricordarli un po’ meglio, a meditare sull’insegnamento che ci hanno lasciato, ancora vivo e attuale. In questo anniversario, vorrei soltanto rievocare alcuni aspetti e momenti della loro vita, che ci possono aiutare a far giustizia di tanti luoghi comuni accumulatisi sul loro conto.
1. Non si dimentichi, prima di tutto, l’influenza dell’ambiente in cui crebbero i due fratelli, immersi in un’atmosfera ovattata e rarefatta, satura di ideali civili e patriottici. Il vigore morale di questa ricca famiglia ebraica, i cui ascendenti erano stati assai vicini a Mazzini, la forza intellettuale dei più stretti amici e parenti risaltano con stupenda evidenza dal bellissimo Epistolario familiare pubblicato qualche anno fa.
Spicca, su tutte, al figura della madre Amelia. Non la si può definire, come qualcuno troppo spicciativamente ha fatto, una nazionalista, anche se alcuni dei motivi del nazionalismo nostrano non le fossero estranei, e lo stesso figlio Carlo talvolta l’accusasse di eccessiva indulgenza per Gioacchino Volpe.
È più esatto parlare di passione nazionale, di patriottismo ancora percorso da una vena risorgimentale: quello stesso che, negli anni della grande guerra, scorgiamo in uomini come Salvemini, Bissolati, Battisti, Ernesto Rossi, e tanti altri che allora si illusero nell’attesa di una pace di giustizia fra le nazioni risorte a libertà (e che fosse solo una generosa illusione lo si vide più tardi).
Nessun bollore bellicoso, e tanto meno esaltazione dannunziana, in Amelia Rosselli. Lontana dai furori, inizialmente filogermanici, dei nostri nazionalisti, essa fu subito angosciata dalla guerra in Europa, dalla repentina «visione di sangue e di orrore»; e il 9 agosto 1914 si rallegrava della prima resistenza opposta ai tedeschi. Per lei, si trattava di una guerra di «principî», che mazzinianamente «sale dalla patria all’umanità tutta».
All’indomani della vittoria, già diffidava dei «dalmatomani», voleva che Salvemini le chiarisse le idee, ammirava Wilson, e nel gennaio del 1919 si indignava perché alla Scala di Milano Mussolini e gli arditi avevano impedito a Bissolati di parlare («è una vergogna incancellabile, pensare che si è combattuto e sono morti milioni d’uomini per la libertà, e che si calpesta questa stessa libertà nella sua prima espressione, il pensiero e la parola!»).
Fra lei e i nazionalisti, si era già spalancato un abisso. E poi, l’educazione austera, perfino severa, dei figli. Amelia soffocava in sé lo strazio per la morte del primogenito Aldo in guerra, e consigliava, ammoniva, spronava Carlo e Nello ancora adolescenti, li richiamava a un modo serio e virile di affrontare la vita. Scriveva a uno di loro, all’inizio del 1919: «Lo scetticismo distrugge, non crea; e abbiamo tanto bisogno di creare, e di credere».
Anche nei momenti più duri, quando i due figli erano in carcere, al confine, in esilio, essa aveva scatti di bellissima fierezza, di coraggio indomito. Dopo il processo di Savona, che aveva rivelato la forza morale di Carlo e dei suoi compagni, esclamava: «È stata una cosa grande». In altri momenti, di fronte a una ignobile persecuzione del suo Nello, scaraventato senza alcun serio motivo al confino, sprofondava in una amarezza indignata: e quasi le pareva di odiare Firenze, «dolce e perfida», la bella casa, la gente intorno a sé. Ma subito si riprendeva.
Al principio del ’30, incitava Carlo da pochi mesi in Francia: «Abbi la forza e il coraggio di sentirti solo». Pur tra gli spasimi del cuore, una madre di acciaio. Potente fu il segno da lei lasciato su Carlo e Nello, che pur – dobbiamo riconoscerlo – seppero e vollero, a un certo momento, rompere i condizionamenti posti dall’ambiente in cui erano cresciuti, rinnovandone le tradizioni un po’stanche e allargando sempre più gli orizzonti della loro cultura e della loro azione, in un senso veramente europeo.
(...)