di Alberto Cavallari – In “Nuova Antologia”, «Per Giovanni Spadolini», a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 305-309.


Nell’Italia sconvolta dallo scandalo P2 Giovanni Spadolini venne incaricato da Pertini di formare un nuovo governo l’11 giugno 1981, e lo varò il 28 giugno. Negli stessi giorni Pertini si adoperò perché fosse risolto il problema del «Corriere della Sera» che lo scandalo P2 aveva precipitato in una crisi drammatica, mi chiese di accettare la direzione del giornale, che assunsi il 19 giugno. Entrambi ci trovammo quindi impegnati, parallelamente, nella battaglia pertiniana sulla «questione morale» che tra violente tensioni cominciò, e nella quale Spadolini si mosse con un esemplare «stile di governo» che qui voglio ricordare.
Nel lungo periodo dei suoi due ministeri, durati fino al novembre 1982, seguì le tempestose vicende del giornale «con un sentimento di sofferenza personale», come ebbe a dire in Parlamento. Le inquadrò con mano ferma nell’ambito della Costituzione e del rispetto delle leggi. Gestì col massimo di discrezione e di eleganza gli stessi nostri rapporti personali legati a una vecchia amicizia. Non telefonò mai per chiedere appoggio o consenso al suo governo, e rarissimi furono i nostri incontri. Infatti sapeva quanto me (anche questo lo disse in Parlamento) come la direzione del «Corriere» «dovesse svolgersi in un clima di accigliata indipendenza, anzi di alterezza, verso il potere politico: in una linea connaturata al vecchio e un po’ mitico ‘Corriere’ che portava il direttore a rarefare estremamente i viaggi a Roma per non avere contatti col presidente del Consiglio, secondo quell’eredità albertiniana che si era tradotta in una concezione orgogliosa e magari esclusiva della direzione del grande giornale considerato punto di riferimento dell’opinione pubblica, per taluni aspetti alternativa o correttiva della classe politica».
Ci vedemmo quindi solo sette volte nei diciassette mesi del suo governo, e nei tre anni della mia direzione. Ma ciò non significò indifferenza per le sorti del giornale che aveva diretto dal ’68 al ’72, né per la mia persona, né che vi fossero divergenze su come batterci insieme nella «questione morale», né mancanza di solidarietà per la mia direzione tribolata. La settima volta fu il 27 aprile 1984, dopo la mia denuncia della corruzione craxiana, dopo che Craxi presidente del Consiglio mi fece condannare in tribunale. Spadolini venne a Milano, rese visita al direttore condannato, rese omaggio col suo prestigio d’ex presidente al «Corriere» avvilito, sfidò con coraggio la violenza politica del regime che gestiva Tangentopoli: un gesto nobile, generoso, poco noto, che voglio ricordare dato che nessuno se ne ricorda.
La battaglia per la questione morale che combattemmo nei diciassette mesi dei suoi due governi registrò fasi drammatiche e convulse. Dilagava il terrorismo passato per le tensioni del recente affare D’Urso. Lo Stato viveva il collasso prodotto da ciò che Pertini definì subito «il colpo di stato piduista». Il «Corriere» era stato compromesso nello scandalo perché risultarono iscritti alla P2 il suo direttore, i suoi editori, alcuni redattori, e si avviava al fallimento. Gli editori Rizzoli erano stati «impicciati», il loro socio Calvi era stato arrestato, la mia nomina era avvenuta tramite un garante (l’ex magistrato Branca) che godeva della fiducia di Pertini. Mi trovai quindi sullo stesso percorso di Spadolini che aveva lanciato una massiccia offensiva contro i poteri occulti, epurando i vertici militari compromessi, mentre la magistratura milanese muovendosi lungo la pista Sindona aveva realizzato l’operazione Gelli-Calvi sequestrando le liste P2, aveva mandato Calvi in prigione e al processo per traffico di valuta, mentre iniziava l’assalto al «Corriere» da parte di partiti e gruppi economici attratti dal fallimento imminente, mentre i socialisti e la P2 attaccavano i magistrati, difendevano Calvi, assediavano Spadolini e me con attacchi durissimi. Spadolini era infatti sospettato di favorire con l’inflessibile linea antipiduista adottata la conquista del «Corriere» da parte di Visentini e De Benedetti. Io ero sospettato di favorire i comunisti data la garanzia di Branca, ex presidente della corte costituzionale, senatore della sinistra indipendente. Così ci trovammo insieme, per tutta l’estate e l’autunno, al centro di un furioso fuoco incrociato.
Spadolini m’invitò a cena a Palazzo Chigi la sera del 20 ottobre dopo due incontri occasionali avvenuti il 30 agosto a Treviso e il [30] settembre a Milano: il primo per la festa di compleanno di Visentini, il secondo per una colazione ufficiale col sindaco. La cena era probabilmente un segnale di solidarietà per la mia direzione, dato che correva voce di un mio prossimo licenziamento. Oppure una risposta al fuoco incrociato che ci bersagliava entrambi. Lui stesso si trovava in difficoltà, per il groviglio di problemi che il «Corriere» creava al governo. Il 10 luglio, durante il dibattito sulla fiducia, Longo, Piccoli, e soprattutto Craxi, avevano avviato un furibondo attacco contro la magistratura milanese che aveva arrestato Calvi. Il banchiere in prigione era stato protagonista di un misterioso tentato suicidio, e Craxi ne aveva gettato la responsabilità morale sui magistrati di Milano. Il 9 ottobre Craxi aveva poi minacciato la crisi di governo se Visentini e De Benedetti avessero acquistato quote del «Corriere». E ciò aveva messo in luce il dilemma in cui si trovava il ministero Spadolini. Calvi, già socio dei Rizzoli, aveva aumentato le sue partecipazioni con una ricapitalizzazione resa nota a marzo. Governo, Tesoro, Banca d’Italia, Magistratura, potevano bloccarla o approvarla in base alle leggi vigenti sulle partecipazioni bancarie nell’editoria. Ma se la bloccavano, Spadolini sarebbe stato accusato di favorire Visentini. Se l’approvavano, avrebbero violato le leggi vigenti, il provvedimento sarebbe apparso come una resa alla difesa di Calvi fatta da Craxi in Parlamento, una sconfessione della magistratura.
Durante la cena Spadolini mi anticipò che presto avrebbe affrontato in Parlamento l’esplosiva questione del «Corriere» per rispondere alla pioggia di interrogazioni che nel frattempo l’aveva investito. Sapeva che non sarebbe stata un’operazione facile. Sapeva che qualche democristiano (come Marcora) premeva perché si applicasse al «Corriere» in bancarotta la legge Prodi, e che c’era quindi un disegno per far assorbire l’azienda dalle partecipazioni statali. Sapeva che Craxi si muoveva su due linee: il rafforzamento di Calvi, quindi del tandem Calvi/Marcinkus, e al tempo stesso la creazione di cordate filosocialiste, con Cabassi in testa. Sapeva che le trattative Visentini-De Benedetti lo esponevano al sospetto di una collusione tra il suo Partito repubblicano e questa cordata. Ma la sua decisione era di «prendere il toro per le corna siccome le corna erano tante»; di rispondere alla sfida senza dilazioni per quanto la risposta fosse piena di rischi dato che (come avrebbe ripetuto in Parlamento) «rimaneva sempre valida la linea di inflessibile opposizione del governo, di questo governo, alle influenze palesi o nascoste, dirette o indirette, misurabili e meno, di quel centro di potere occulto e corruttore che corrisponde alla loggia P2 e ai suoi addentellati nel settore della stampa». Nel congedarmi mi abbracciò con una raccomandazione: «Stai attento, i poteri occulti hanno propaggini criminose. Si preparano giorni di grande pericolo, e ho già chiesto al prefetto di Milano di raddoppiarti la scorta. In questo momento può succederci di tutto».
Nei giorni seguenti, Spadolini portò la questione «Corriere» in Parlamento con un discorso nobile, appassionato, ricco di rigore intellettuale e politico. La sua tesi fu che il groviglio «Corriere» andava affrontato solo alla luce della Costituzione che garantisce a tutti la libertà di stampa. Quindi il governo si sarebbe opposto a qualsiasi statalizzazione del giornale, e avrebbe lasciato che i privati regolassero sul terreno privatistico la questione delle trattative in corso per i mutamenti proprietari e gestionali. Per contro, proprio perché previste dalla Costituzione, il governo avrebbe vigilato perché fossero applicate le leggi elaborate dal Parlamento a tutela della trasparenza editoriale, delle partecipazioni degli istituti bancari nelle proprietà giornalistiche, e non avrebbe mai impedito alla magistratura di vegliare sulle operazioni editoriali sospette, soprattutto dopo la legge del 5 agosto sulla disciplina delle imprese editoriali, alla Banca d’Italia di controllare l’operazione Calvi-«Corriere», al ministero del Tesoro di disporre che le azioni sottoscritte dalla Centrale di Calvi fossero prive di diritto di voto come la legge voleva, e di vigilare perché il Banco Ambrosiano informasse la Banca d’Italia della dismissione dell’intera partecipazione della Centrale nella società Rizzoli/«Corriere», come previsto dalle leggi.
Spadolini lesse le sue trentasei cartelle senza nascondere «lo speciale pathos che in questa questione coinvolgeva il presidente del Consiglio», rese conto delle trattative Visentini, raccontò che il 30 settembre Craxi l’aveva «cortesemente avvertito» dell’apertura di queste trattative, che la sera stessa Visentini gli aveva garantito l’assoluta estraneità del Partito repubblicano all’operazione, e che considerava con ciò chiusa la questione. Fece una limpida analisi del problema «Corriere» che doveva essere considerato un «problema nazionale», e condivise la mia testi sul «Corriere» come istituzione della società civile che meritava l’attenzione del Parlamento «nei limiti» prima fissati. Costituzione e legalità erano le strade maestre da seguire.
Poi passarono i mesi, ci rivedemmo brevemente solo due volte, il 22 gennaio 1982 alla prefettura di Milano, il 26 maggio nel tardo pomeriggio a Palazzo Chigi. S’interessò della mia sicurezza personale, della possibilità di resistenza del giornale che, dovendo procedere sul filo della Costituzione e dei rigori della legge, era sempre più povero, sempre più privo di risorse. Infine lo sentii solo una volta, al telefono, la notte del 18 giugno, quando mi cercò a Levanto per anticiparmi la notizia della morte di Calvi. A voce bassa mi disse: «Il governo apprende in questo momento che il cadavere di Calvi è stato trovato nelle acque limacciose del Tamigi. Sappi che sono vicino al giornale e a te mentre attraversate questa nuova crisi, dato che il fatto getta altro discredito sulla testata che disperatamente cercate di riscattare dal fango in cui l’ha sprofondata una proprietà che chiude la sua parabola con un finale tanto sinistro». In seguito non lo vidi più, non lo sentii più, per tutto il tormentato periodo del suo secondo governo.
Alla fine dell’anno ’82 Spadolini uscì di scena, lasciò l’esecutivo, il «Corriere» entrò in amministrazione giudiziaria controllata, all’ombra della magistratura milanese cominciò il cammino verso una resurrezione che molti non volevano. Come ho già detto, solo nell’84, Spadolini apparve in via Solferino dopo che Craxi mi fece condannare perché denunciai la corruzione del suo regime con dieci anni di anticipo su Tangentopoli. Salì le scale lento, entrò sorridendo nella stanza albertiniana dove era stato direttore, si guardò intorno come se compisse un pellegrinaggio a ritroso nella sua giovinezza, come se facesse un inventario delle cose mutate o rimaste uguali. Ed è così che voglio ricordarlo, leale e coraggioso, giusto e sorridente, solidale col «suo» «Corriere» ferito nella comune battaglia per la «questione morale», nel momento in cui gli amici rendono omaggio alla sua figura scomparsa.


Alberto Cavallari



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