Carlo Levi (Torino, 1902 - Roma, 1975)
di Norberto Bobbio – In “Nuova Antologia”, fasc. 2155, luglio-settembre 1985, Le Monnier, Firenze, pp. 76-88.
Carlo Levi ha raccontato più volte il suo primo incontro con Gobetti, usando quasi sempre le stesse parole, precisando gli stessi particolari. E lo ha sempre presentato, oggettivamente, come un evento decisivo nella propria vita; soggettivamente, come una folgorazione[1].
Era un adolescente, poco più che un ragazzo, che non sapeva nulla o pressoché nulla della vita. Ma sentiva in sé una grande energia indeterminata, una potenza diffusa e inconsapevole, che nel più ampio di questi racconti egli paragona a quella forza della natura che fa sbocciare le gemme degli ippocastani e corre con il vento per i viali della città, diritti nel freddo sole d’inverno (il rapporto con Gobetti non può essere concepito al di fuori dell’ambiente torinese): «Com’era potente il bisogno di mutare le cose coi nostri mutamenti di ogni istante, d’impadronirci, creandolo, di un mondo che ci somigliasse»[2]. Aveva 16 anni (nato il 29 novembre 1902), quando appare il primo numero della prima rivista gobettiana «Energie Nuove», che reca la data 1-15 novembre 1918. La grande guerra che aveva insanguinato l’Europa, sconvolto secolari imperi, creato le condizioni per la rivoluzione in Russia, stava per finire. La rivista si rivolge ai giovani, appunto alle energie nuove, che la guerra non ha spento, e a cui è affidato il grande compito storico della rinascita: «Noi vorremmo – sono le prime parole di Gobetti a commento di un breve esordio di Balbino Giuliano, suo professore di filosofia al Liceo ‘Gioberti’, intitolato Rinnovamento – portare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura d’oggi, suscitare movimenti nuovi d’idee, recare alla società, alla patria, le aspirazioni e il pensiero nostro di giovani, mentre altri offre il sangue e mentre ci apprestiamo ad offrirlo anche noi». Non bisogna avere paura delle difficoltà: «Gli ostacoli si superano: esistono solo in quanto si superano. E a superarli ci è sprone la giovane età e l’ardore della coscienza di non far opera vana». Nell’ultima pagina, in un appello ai collaboratori e ai lettori scrive: «Ai collaboratori chiediamo giovinezza di pensiero, originalità, sincerità, chiediamo energie nuove, cioè giovani, rigogliose, fresche e forti».
Levi è affascinato da questo appello. Gli pare che l’impulso ad agire, ancora indeterminato, non ancora risolto in azioni concrete, «si determinasse in ogni riga della rivistina, diventasse da muta spinta e impulso, parole, argomenti, ragione». Decide di scrivere al direttore una lettera di ammirazione e di approvazione. Con sua meraviglia riceve subito una risposta: Gobetti lo invita ad andarlo a trovare. L’incontro avviene nell’alloggetto dove Piero abita con i genitori in via XX settembre 60. L’adolescente si aspetta di trovarsi dinnanzi un uomo maturo, e invece è accolto da «un ragazzo, alto, magro, con una gran testa di capelli scarruffati biondo-castani, un paio di occhiali di metallo sul naso aguzzo, e occhi vivacissimi e penetranti dietro le lenti». Tanto che è tentato di chiedere di suo padre, quando è subito apostrofato con un «Gobetti sono io, tu sei quello che mi ha scritto, sei Levi». (Nella storia della formazione del gruppo gobettiano, l’episodio si ripete: quando Augusto Monti legge i primi numeri di «La rivoluzione liberale», si domanda chi mai «potesse essere il senatore, non so, o professore, capace di tanto» e poi scopre che si tratta di «un esile biondo miope ragazzino che, se fosse stato bresciano, l’avrei avuto io ancora in quel 1918-19 sotto di me»[3].
Levi entra dunque subito nella cerchia degli amici di Gobetti che hanno tutti su per giù la stessa età (Piero e Sapegno hanno un anno più di lui, ma nessuno è ancora ventenne). «Fin da quel primo giorno – commenta – Gobetti diventò il più caro dei miei amici». Ma a differenza di Sapegno, di Mario Fubini e di altri, non collabora alla rivista. Si trovano la domenica mattina a leggere Kant e altri filosofi. Vanno a teatro, l’opera al Regio, la commedia in uno dei tanti teatri torinesi che ospitano le più celebri compagnie del tempo, da Zacconi alla Melato, da Ruggeri alle sorelle Gramatica. Una sera dell’ottobre o novembre 1922, Carlo tornato da un viaggio in Italia insieme col fratello minore Riccardo, va a sentire una commedia di Sem Benelli (uno degli scrittori più tartassati da Gobetti critico teatrale), fischia rumorosamente e viene arrestato, anche se poi è subito rilasciato[4]. Negli intervalli tra un atto e l’altro dell’opera, fanno gare velocissime di corsa in Piazza Castello intorno al Palazzo Madama. Gobetti, esilissimo al loro confronto, vince sempre: la sua volontà «inesorabile» moltiplica le sue forze. Un giorno che sono saliti al Monte dei Cappuccini, di fronte al Po e alla grande Piazza Vittorio, Gobetti, con naturalezza, dice: «Vedi, adesso faccio un salto e arrivo al di là del fiume».
Esisteva a Torino sin dal 1890 una Società di cultura presieduta da illustri docenti dell’università, da Gaetano Mosca a Giulio Bertoni, frequentata da Gozzano e dai suoi amici, animata in quegli anni (anche al mio ricordo solo di pochi anni posteriore) da Zino Zini. La Società aveva un’ottima biblioteca ed era abbonata a riviste filosofiche e letterarie anche francesi (come la «Revue de deux mondes» e la «Nouvelle revue française» che una persona colta non poteva non conoscere ed era quasi in obbligo di citare nelle dotte conversazioni tra amici). Faceva venire conferenzieri anche da fuori Torino. Gobetti entra a far parte del consiglio della Società nel novembre 1920 e l’anno dopo decide, insieme con il suo gruppo, di «occupare» la società per ravvivarne l’attività, in realtà per invitare a tenere conferenze uomini che rappresentino la cultura militante e non soltanto quella accademica, come Croce, Gentile, Salvemini, Prezzolini. All’occupazione partecipa anche Carlo Levi che la descrive come un «colpo di stato». Gobetti vi tiene le sue lezioni sulla rivoluzione russa. Più tardi, il 15 gennaio 1922, vi espone il programma della nuova rivista «La rivoluzione liberale», il cui primo numero ha la data del 12 febbraio. Alla conferenza, annunziata su «L’ordine nuovo» il 12 gennaio, assiste Umberto Calosso che ne fa un rendiconto critico sulla stessa rivista il 16 gennaio[5]. Alla conferenza sulla rivoluzione russa assiste l’ing. Gurevitch, russo emigrato, che critica un accenno fatto da Gobetti alla scarsa conoscenza e comprensione di Hegel da parte della filosofia russa. Nonostante che Gobetti non avesse letto Hegel, e lo conoscesse solo di seconda mano, tiene testa al suo interlocutore con tale bravura da indurlo a non replicare[6].
(...)
[1] C. LEVI, Gli anni di Energie Nove, in «Il contemporaneo», III, 1956, n. 7, 18 febbraio, p. 3; Ritratto di Piero Gobetti, in «Terzo Programma», 1964, n. 3, pp. 203-206 (si tratta dell’intervento di Levi in una trasmissione radiofonica, con la partecipazione di G. Alberti, M. Fubini, Augusto Monti, A. Passerin d’Entrèves, a cura di U. MORRA); Gli anni di Energie Nove, Intervista di C. Levi e N. Sapegno, a cura di Carla e Paolo Gobetti, e di G. Risso, in «Mezzosecolo». Materiali di ricerca storica, n. 1, pp. 465-479.
[2]
[3] A. MONTI, I miei conti con la scuola. Cronaca scolastica del secolo XX, Einaudi, Torino, 1965, p. 171. Ho raccontato l’episodio in Monti e Gobetti in «Belfagor», XXXVI, 1981, p. 85.
[4] Per questo episodio vedi RICCARDO LEVI, Ricordi politici di un ingegnere, Vangelista, Milano, 1981, p. 16.
[5] Per altri particolari rinvio al mio articolo, Umberto Calosso e Piero Gobetti, in «Belfagor», XXXV, 1980, pp. 329-338. – Su tutta la vicenda vedi G. BERGAMI, La Società di cultura nella vita civile e intellettuale torinese, in «Studi piemontesi», VIII, novembre 1979, pp. 345-364.
[6] I due principali episodi gobettiani narrati da Carlo Levi, il primo incontro e l’occupazione della Società di cultura, hanno fornito alcuni spunti al romanzo di Manlio Cancogni, La gioventù, Milano, Rizzoli, 1981, che racconta la vita di Gobetti (Enzo Bonello) ambientata nella Torino del tempo. La famiglia Levi (Artom), composta dai genitori e da tre figli (Sara, Riccardo e Carlo), compare per la prima volta a p. 98. L’incontro di Carlo con Gobetti dopo la lettura di «Energie Nove», è raccontato a cominciare da p. 102. Molto più a lungo l’autore si sofferma sui rapporti fra il gruppo gobettiano e la Società di cultura (Il Circolo della cultura), da p. 123 in poi. A p. 127 c’è l’episodio del salto oltre il Po, narrato così (Gobetti rivolto a Carlo): «Non mi sento nulla io! E poi non è nemmeno questo; mi sento tutto. Sì, sento di potere tutto. Tu non hai idea a volte… Ecco vedi laggiù». Indicava oltre il fiume verso l’ampio vuoto scuro della Piazza Vittorio delimitata da due file di luci. «Sono convinto che se facessi un salto da qui, adesso ci arriverei. So di poterlo fare, capisci? mi sento come Dio».