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    Predefinito Carlo Levi e Gobetti (1985)



    Carlo Levi (Torino, 1902 - Roma, 1975)



    di Norberto Bobbio – In “Nuova Antologia”, fasc. 2155, luglio-settembre 1985, Le Monnier, Firenze, pp. 76-88.


    Carlo Levi ha raccontato più volte il suo primo incontro con Gobetti, usando quasi sempre le stesse parole, precisando gli stessi particolari. E lo ha sempre presentato, oggettivamente, come un evento decisivo nella propria vita; soggettivamente, come una folgorazione[1].
    Era un adolescente, poco più che un ragazzo, che non sapeva nulla o pressoché nulla della vita. Ma sentiva in sé una grande energia indeterminata, una potenza diffusa e inconsapevole, che nel più ampio di questi racconti egli paragona a quella forza della natura che fa sbocciare le gemme degli ippocastani e corre con il vento per i viali della città, diritti nel freddo sole d’inverno (il rapporto con Gobetti non può essere concepito al di fuori dell’ambiente torinese): «Com’era potente il bisogno di mutare le cose coi nostri mutamenti di ogni istante, d’impadronirci, creandolo, di un mondo che ci somigliasse»[2]. Aveva 16 anni (nato il 29 novembre 1902), quando appare il primo numero della prima rivista gobettiana «Energie Nuove», che reca la data 1-15 novembre 1918. La grande guerra che aveva insanguinato l’Europa, sconvolto secolari imperi, creato le condizioni per la rivoluzione in Russia, stava per finire. La rivista si rivolge ai giovani, appunto alle energie nuove, che la guerra non ha spento, e a cui è affidato il grande compito storico della rinascita: «Noi vorremmo – sono le prime parole di Gobetti a commento di un breve esordio di Balbino Giuliano, suo professore di filosofia al Liceo ‘Gioberti’, intitolato Rinnovamento – portare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura d’oggi, suscitare movimenti nuovi d’idee, recare alla società, alla patria, le aspirazioni e il pensiero nostro di giovani, mentre altri offre il sangue e mentre ci apprestiamo ad offrirlo anche noi». Non bisogna avere paura delle difficoltà: «Gli ostacoli si superano: esistono solo in quanto si superano. E a superarli ci è sprone la giovane età e l’ardore della coscienza di non far opera vana». Nell’ultima pagina, in un appello ai collaboratori e ai lettori scrive: «Ai collaboratori chiediamo giovinezza di pensiero, originalità, sincerità, chiediamo energie nuove, cioè giovani, rigogliose, fresche e forti».
    Levi è affascinato da questo appello. Gli pare che l’impulso ad agire, ancora indeterminato, non ancora risolto in azioni concrete, «si determinasse in ogni riga della rivistina, diventasse da muta spinta e impulso, parole, argomenti, ragione». Decide di scrivere al direttore una lettera di ammirazione e di approvazione. Con sua meraviglia riceve subito una risposta: Gobetti lo invita ad andarlo a trovare. L’incontro avviene nell’alloggetto dove Piero abita con i genitori in via XX settembre 60. L’adolescente si aspetta di trovarsi dinnanzi un uomo maturo, e invece è accolto da «un ragazzo, alto, magro, con una gran testa di capelli scarruffati biondo-castani, un paio di occhiali di metallo sul naso aguzzo, e occhi vivacissimi e penetranti dietro le lenti». Tanto che è tentato di chiedere di suo padre, quando è subito apostrofato con un «Gobetti sono io, tu sei quello che mi ha scritto, sei Levi». (Nella storia della formazione del gruppo gobettiano, l’episodio si ripete: quando Augusto Monti legge i primi numeri di «La rivoluzione liberale», si domanda chi mai «potesse essere il senatore, non so, o professore, capace di tanto» e poi scopre che si tratta di «un esile biondo miope ragazzino che, se fosse stato bresciano, l’avrei avuto io ancora in quel 1918-19 sotto di me»[3].
    Levi entra dunque subito nella cerchia degli amici di Gobetti che hanno tutti su per giù la stessa età (Piero e Sapegno hanno un anno più di lui, ma nessuno è ancora ventenne). «Fin da quel primo giorno – commenta – Gobetti diventò il più caro dei miei amici». Ma a differenza di Sapegno, di Mario Fubini e di altri, non collabora alla rivista. Si trovano la domenica mattina a leggere Kant e altri filosofi. Vanno a teatro, l’opera al Regio, la commedia in uno dei tanti teatri torinesi che ospitano le più celebri compagnie del tempo, da Zacconi alla Melato, da Ruggeri alle sorelle Gramatica. Una sera dell’ottobre o novembre 1922, Carlo tornato da un viaggio in Italia insieme col fratello minore Riccardo, va a sentire una commedia di Sem Benelli (uno degli scrittori più tartassati da Gobetti critico teatrale), fischia rumorosamente e viene arrestato, anche se poi è subito rilasciato[4]. Negli intervalli tra un atto e l’altro dell’opera, fanno gare velocissime di corsa in Piazza Castello intorno al Palazzo Madama. Gobetti, esilissimo al loro confronto, vince sempre: la sua volontà «inesorabile» moltiplica le sue forze. Un giorno che sono saliti al Monte dei Cappuccini, di fronte al Po e alla grande Piazza Vittorio, Gobetti, con naturalezza, dice: «Vedi, adesso faccio un salto e arrivo al di là del fiume».
    Esisteva a Torino sin dal 1890 una Società di cultura presieduta da illustri docenti dell’università, da Gaetano Mosca a Giulio Bertoni, frequentata da Gozzano e dai suoi amici, animata in quegli anni (anche al mio ricordo solo di pochi anni posteriore) da Zino Zini. La Società aveva un’ottima biblioteca ed era abbonata a riviste filosofiche e letterarie anche francesi (come la «Revue de deux mondes» e la «Nouvelle revue française» che una persona colta non poteva non conoscere ed era quasi in obbligo di citare nelle dotte conversazioni tra amici). Faceva venire conferenzieri anche da fuori Torino. Gobetti entra a far parte del consiglio della Società nel novembre 1920 e l’anno dopo decide, insieme con il suo gruppo, di «occupare» la società per ravvivarne l’attività, in realtà per invitare a tenere conferenze uomini che rappresentino la cultura militante e non soltanto quella accademica, come Croce, Gentile, Salvemini, Prezzolini. All’occupazione partecipa anche Carlo Levi che la descrive come un «colpo di stato». Gobetti vi tiene le sue lezioni sulla rivoluzione russa. Più tardi, il 15 gennaio 1922, vi espone il programma della nuova rivista «La rivoluzione liberale», il cui primo numero ha la data del 12 febbraio. Alla conferenza, annunziata su «L’ordine nuovo» il 12 gennaio, assiste Umberto Calosso che ne fa un rendiconto critico sulla stessa rivista il 16 gennaio[5]. Alla conferenza sulla rivoluzione russa assiste l’ing. Gurevitch, russo emigrato, che critica un accenno fatto da Gobetti alla scarsa conoscenza e comprensione di Hegel da parte della filosofia russa. Nonostante che Gobetti non avesse letto Hegel, e lo conoscesse solo di seconda mano, tiene testa al suo interlocutore con tale bravura da indurlo a non replicare[6].

    (...)


    [1] C. LEVI, Gli anni di Energie Nove, in «Il contemporaneo», III, 1956, n. 7, 18 febbraio, p. 3; Ritratto di Piero Gobetti, in «Terzo Programma», 1964, n. 3, pp. 203-206 (si tratta dell’intervento di Levi in una trasmissione radiofonica, con la partecipazione di G. Alberti, M. Fubini, Augusto Monti, A. Passerin d’Entrèves, a cura di U. MORRA); Gli anni di Energie Nove, Intervista di C. Levi e N. Sapegno, a cura di Carla e Paolo Gobetti, e di G. Risso, in «Mezzosecolo». Materiali di ricerca storica, n. 1, pp. 465-479.

    [2]

    [3] A. MONTI, I miei conti con la scuola. Cronaca scolastica del secolo XX, Einaudi, Torino, 1965, p. 171. Ho raccontato l’episodio in Monti e Gobetti in «Belfagor», XXXVI, 1981, p. 85.

    [4] Per questo episodio vedi RICCARDO LEVI, Ricordi politici di un ingegnere, Vangelista, Milano, 1981, p. 16.

    [5] Per altri particolari rinvio al mio articolo, Umberto Calosso e Piero Gobetti, in «Belfagor», XXXV, 1980, pp. 329-338. – Su tutta la vicenda vedi G. BERGAMI, La Società di cultura nella vita civile e intellettuale torinese, in «Studi piemontesi», VIII, novembre 1979, pp. 345-364.

    [6] I due principali episodi gobettiani narrati da Carlo Levi, il primo incontro e l’occupazione della Società di cultura, hanno fornito alcuni spunti al romanzo di Manlio Cancogni, La gioventù, Milano, Rizzoli, 1981, che racconta la vita di Gobetti (Enzo Bonello) ambientata nella Torino del tempo. La famiglia Levi (Artom), composta dai genitori e da tre figli (Sara, Riccardo e Carlo), compare per la prima volta a p. 98. L’incontro di Carlo con Gobetti dopo la lettura di «Energie Nove», è raccontato a cominciare da p. 102. Molto più a lungo l’autore si sofferma sui rapporti fra il gruppo gobettiano e la Società di cultura (Il Circolo della cultura), da p. 123 in poi. A p. 127 c’è l’episodio del salto oltre il Po, narrato così (Gobetti rivolto a Carlo): «Non mi sento nulla io! E poi non è nemmeno questo; mi sento tutto. Sì, sento di potere tutto. Tu non hai idea a volte… Ecco vedi laggiù». Indicava oltre il fiume verso l’ampio vuoto scuro della Piazza Vittorio delimitata da due file di luci. «Sono convinto che se facessi un salto da qui, adesso ci arriverei. So di poterlo fare, capisci? mi sento come Dio».
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    Predefinito Re: Carlo Levi e Gobetti (1985)

    Quando Levi incontrò Gobetti stava per uscire dal liceo (il Liceo Alfieri) e iscriversi alla facoltà di medicina. Una scelta che non era andata molto a genio a Gobetti il quale, con sussiego crociano, aveva cercato di dissuaderlo dicendogli che erano «pseudo-concetti». (Su questa frase ci sarebbe da fare una bella digressione a proposito dell’ipse dixit crociano: lo stesso rimprovero muovevamo noi alla cultura giuridica). Negli stessi anni Levi aveva cominciato a dipingere. Il primo quadro accolto alla Quadriennale d’arte moderna a Torino nel 1923 è un ritratto del padre. Racconta che Gobetti tessendone l’elogio (non sono però riuscito a trovare traccia di questo scritto nelle opere complete) avrebbe detto che era «pieno d’aridità», che per Gobetti era un complimento, anche se probabilmente non compreso dal pubblico: il tema dell’aridità e dell’«aridezza» è un classico tema gobettiano sul quale mi sono soffermato altrove[1]. Questa attività di pittore fu una ragione ulteriore di dimestichezza con Piero che attraverso Casorati, conosciuto in quello stesso periodo di tempo intorno all’uscita di «Energie Nove», si era venuto interessando alla pittura contemporanea, acquistando subito quella sicurezza di giudizio, quella competenza, quell’autorevolezza, che gli permisero di scrivere il primo importante saggio, ancor oggi tenuto in gran conto, sull’amico pittore.
    Tra gli studi di medicina e gli esordi dell’attività di pittore, Levi scrisse poco in quegli anni, tanto meno di politica. In tutte le descrizioni del suo incontro con Gobetti, il tema della politica non affiora mai. Nel breve intensissimo saggio che scriverà molti anni dopo in morte di Claudio Treves, che alla politica aveva dedicato tutta la vita, dice: «Noi non siamo giunti alla politica per natura, ma quasi a malincuore per il dovere dei tempi»[2]. Con ciò non si vuol dire che non avesse interessi politici, ma altro è l’interesse, altro l’impegno, com’era quello gobettiano, severo, serio, totale. L’interesse per la politica era naturale in una famiglia come quella di Carlo, socialista, affettuosamente legata allo zio Claudio (Claudio Treves), fratello della madre. Racconta il fratello Riccardo che quando i genitori annunciarono allo zio la nascita di Carlo, questi rispose con una cartolina raffigurante Mazzini, quasi a proporlo come esempio al neonato; la cartolina incorniciata fu appesa sopra il suo letto dove rimase per anni. Riccardo aggiunge che Carlo non dimostrò mai molta simpatia per Mazzini (come Gobetti, del resto) ma rispettò l’augurio di impegno politico che quella cartolina indicava[3]. Rispetto agli anni gobettiani, però, l’impegno venne più tardi.
    Non fu neppure fra i più assidui collaboratori di «La rivoluzione liberale», specie in paragone con gli amici della stessa cerchia, come Sapegno, Fubini, Morra, Lamberti. Scrisse in realtà un solo articolo-saggio di notevole rilievo, il primo, che avrebbe potuto far prevedere una collaborazione più assidua e più impegnativa, che invece non ci fu. Gli scritti apparsi di poi furono schizzi, rendiconti, noterelle di costume, piuttosto marginali rispetto all’indirizzo politico della rivista. Il tema di questo primo (e unico) saggio è abbastanza sorprendente per chi conosca lo scrittore politico della maturità: il pensiero politico di Antionio Salandra[4]. Sorprendente però soltanto se si ignora che Gobetti assegnava imperiosamente ai suoi collaboratori i temi di cui avrebbero dovuto occuparsi, ritenuti essenziali alla sua battaglia politica: com’è stato più volte notato, Gobetti era l’autore delle proprie riviste non soltanto perché vi scriveva una buona parte degli articoli ma anche perché molti articoli dei suoi collaboratori erano stati da lui commessi. Che il pensiero politico di Salandra fosse un tema suggerito o addirittura imposto da Gobetti, lo confessa lo stesso Levi: «Fu Piero a dirmi ‘Tu devi scrivermi un saggio sul liberalismo meridionale’»[5]; un argomento di cui Levi stesso riconosce che allora non sapeva nulla. Salandra, come del resto Giolitti, apparteneva a quella classe politica italiana di cui Gobetti diede sempre un giudizio complessivamente negativo, perché la riteneva responsabile della crisi dello stato liberale, e che pertanto doveva essere sottoposta a un esame critico spregiudicato, senza orpelli patriottici. In una lettera datata 11 settembre 1921, da Alassio, nell’anno d’intervallo tra la fine di «Energie Nove» e l’inizio di «La rivoluzione liberale», il periodo in cui Gobetti si occupa tra l’altro di storia del Piemonte e del Risorgimento, Levi scrive che si sta occupando di Salandra, ma riprenderà il lavoro quando sarà a Torino[6]. Nel frattempo ha letto Silvio Spaventa e Fortunato di cui molto si è servito: «In Spaventa le solenni affermazioni dei principi dello stato moderno – che non è esterno ma intrinseco a noi, in quanto le sue funzioni essenziali non sono altro che morale volere umano, volontà nostra che si fa superiore per sforzarci al bene comune – non sono schemi vuoti ma prendono forza e colore in esami di questioni singole». Precisa di aver pensato ai grandi problemi lasciati dal Risorgimento in eredità alla Destra e alla Sinistra, e conclude esprimendo la sua ammirazione per Fortunato il cui studio richiede ancora molto lavoro.
    È impressionante in questa lettera la ricalcatura dello stile filosofico allora dominante in Italia, lo stile gentiliano, se pure filtrato attraverso l’hegelismo napoletano degli Spaventa: la frase sullo Stato «che non è qualcosa di esterno a noi, di divino e fatale, di causale e di convenzionale, ma è l’intrinseco a noi come il nostro naturale organismo» si trova pari pari in un discorso di Silvio Spaventa[7]. Quanto a Fortunato è un autore che attraverso Einaudi e Salvemini è di casa fra i gobettiani: Gobetti e Augusto Monti sono suoi assidui lettori e ammiratori. Non è difficile pensare che anche il consiglio di leggere Fortunato gli sia stato dato da Gobetti.
    L’articolo di Levi su Salandra, che Gobetti pubblica come articolo di fondo, lascia intravedere e prevedere, come dicevo, una collaborazione impegnativa sui grandi temi della rivista, ma resta isolato. Gobettiano è nel saggio, prima ancora che il modo di ragionare e l’impianto generale, lo stile, fatto di frasi secche e taglienti, di giudizi perentori, intercalati di tanto in tanto da una sferzata. Nel complesso è una critica radicale dell’uomo e della sua opera politica: Salandra è il vecchio conservatore, tenace assertore dei valori della famiglia e della patria, «amante piuttosto delle forme che delle forze, del diritto che della politica». Non ha seguito l’amico suo Fortunato nell’analisi del nostro corpo sociale. La sua coerenza è immobilità. Il suo liberalismo non si è mai trasformato in pratica liberale. Il suo problema centrale è sempre stato l’unità nazionale. Conservatore attardato, anacronistico, sorpassato, che ha concepito la guerra come continuazione del Risorgimento, e quindi come guerra monarchica, non può capire la rivoluzione che è invece necessaria per risolvere i problemi italiani: «Come il Risorgimento fu opera dello Stato, opera dello Stato sarà la nostra politica nuova» (ma una frase come questa non è gobettiana). La lotta di classe, lo sciopero generale, l’internazionalismo (qui ritorna Gobetti) sono i miti attraverso i quali si sta educando il nostro popolo[8].

    (...)


    [1] In una relazione su Gozzano e Gobetti al convegno gozziano del novembre 1983, i cui atti non sono ancora apparsi.

    [2] Anonimo (ma Carlo Levi), In morte di Claudio Treves, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», serie II, n. 7, giugno 1933, p.n.n.

    [3] R. LEVI, Ricordi politici di un ingegnere, cit., p. 8. Una testimonianza importante su Gobetti e il suo gruppo, pp. 11-13.

    [4] C. LEVI, Antonio Salandra, in «La rivoluzione liberale», I, n. 25, 27 agosto 1922, pp. 91-92.

    [5] Gli anni di Energie Nove, in «Mezzosecolo», cit., p. 467.

    [6] Questa ed altre lettere citate in seguito di Carlo Levi a Gobetti sono custodite presso il Centro studi Piero Gobetti di Torino.

    [7] S. SPAVENTA, La politica della Destra. Scritti e discorsi, raccolti da B. Croce, Laterza, Bari, 1910, p. 108.

    [8] Val la pena confrontare questo giudizio su Salandra con quello che Gobetti darà in «La rivoluzione liberale» (1924): «Anche Antonio Salandra non sa vedere nel partito liberale molto più che l’idealità della patria e il sentimento della nazione, anch’egli protesta che il partito liberale non è un partito di classe, salvo a confessare poi che attinge le sue forze dalla classe media: intento al solo problema dell’autorità e del potere, egli non si stanca di rivolgere le sue esortazioni alla borghesia perché essa di svegli dalla sua inerzia politica. Confonde il sintomo col problema e non avverte la sostanza della crisi che sta nell’assenza di libertà e di attitudine alla lotta. L’esperimento governativo di Salandra, che ci ha dato una tirannide demagogica e retorica, è la conferma dei suoi vizi mentali» (Scritti politici, Einaudi, Torino, 1960, p. 962; nella recente edizione critica del testo gobettiano, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, a cura di E. ALESSANDRONE PERONA, Einaudi, Torino, 1983, p. 53). Una lettera di Salandra a Gobetti che lo aveva invitato a collaborare a «La rivoluzione liberale» è stata pubblicata da N. VALERI, in Antologia della Rivoluzione liberale, Francesco De Silva, Torino, 1948, p. 25.
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    Predefinito Re: Carlo Levi e Gobetti (1985)

    Degli altri cinque articoli, brevi o addirittura brevissimi, pubblicati su «La rivoluzione liberale» tra il 1923 e il 1924, l’unico ancor oggi interessante è la recensione del libro di Sergio Panunzio, Diritto, forza, violenza (Cappelli 1922) che esce con una prefazione di Rodolfo Mondolfo[1]. Discepolo di Sorel e di Proudhon, uno dei teorici più dotti del sindacalismo rivoluzionario, Panunzio si rivela, secondo Levi, agli antipodi dei suoi maestri. L’unico pregio del libro è che ci permette di capire perché i nostri sindacalisti rivoluzionari siano passati al fascismo. Gli adoratori della violenza proletaria si sono trasformati in zelatori di una violenza del tutto generica e scolorita, donde il passo è breve alla violenza antiproletaria che è appunto la violenza fascista, la violenza dei «disoccupati amatori della violenza». In fondo tutto questo discorso di Panunzio sulla contrapposizione tra forza e violenza torna in lode del tiranno che è dottrina, conclude la recensione, in perfetto accordo coi tempi.
    Il giovanissimo medico in fieri e pittore esordiente (ha solo ventun anni) dà prova, non c’è che dire, di saper scrivere con efficacia: ha adeguato il proprio stile allo stile battagliero della rivista. In un resoconto del Congresso del partito popolare svoltosi a Torino tra il 12 e il 13 marzo 1923, in cui viene approvata una politica di appoggio critico al fascismo, ecco il ritratto di De Gasperi: «Freddo, sarcastico e burocratico» ha aiutato don Sturzo nella difficile impresa di salvare il partito fra destra collaborazionista e sinistra ostile; «Asciutto e occhialuto è privo d’intuito e agilità, qualità che si leggono, invece, sul viso di don Sturzo, femminile, mobile, espressivo». Il giudizio conclusivo, ironico, si risolve nell’affermazione che non c’è differenza sostanziale fra destra, centro e sinistra, perché «hanno tutti lo stesso viso, la stessa bocca storta: il partito ha un’unità quasi di razza»[2].
    Un’attività politica vera e propria sarà intrapresa da Levi soltanto dopo la morte di Gobetti quando il fascismo, imposta in seguito al delitto Matteotti una dittatura che sopprime tutte libertà civili, costringe l’opposizione all’illegalità e a sfidare la polizia del regime. Levi è uno dei fondatori del gruppo di «Giustizia e Libertà» che si costituisce a Torino, ne diventa se non il capo nel senso proprio della parola, un punto di riferimento, una specie di «padre nobile»[3] o di «animatore»[4], come lo definisce Vittorio Foa che lo conosce tramite Leone Ginzburg e gli è compagno nell’attività clandestina sino agli arresti del 1934 e 1935. Aldo Garosci, che rievoca i rapporti continui avuti con lui tra la morte di Gobetti e la sua fuga in Francia (1932), scrive che per quegli anni si potrebbe parlare di una Torino di Carlo Levi come si è parlato per gli anni precedenti di una Torino di Gramsci e di Gobetti[5]. Tra il 1929 e il 1932, infatti, ha insieme con Mario Andreis la responsabilità organizzativa del gruppo torinese di GL. Quando fu elaborato il programma di GL a Parigi, poi pubblicato nel primo numero dei «Quaderni» nel gennaio 1932, presente tutto lo stato maggiore del movimento, era arrivato da Torino Carlo Levi come rappresentante del maggior gruppo interno che era appunto quello torinese. Arrestato due volte, la prima nel marzo 1934, la seconda nel maggio 1935, viene mandato al confino prima a Grassano, poi a Aliano, donde uscirà un anno dopo con le note e le memorie del suo primo libro, Cristo si è fermato a Eboli (1946). Il suo impegno politico peraltro non è mai esclusivo, anche nei momenti più drammatici. Nel 1942 aderisce al Partito d’Azione e viene arrestato una terza volta a Firenze nella primavera del 1943. Secondo Vittorio Foa c’era sempre stata in lui una certa contraddizione tra l’impegno e il rifiuto degli strumenti naturali della politica, fra partecipazione e distacco. Appartiene sempre, anche negli anni della Resistenza e della militanza nel Partito d’Azione, alla schiera di coloro che Foa chiama i poeti della politica, in contrapposizione ai tecnici[6].
    Mi è accaduto altre volte di parlare della «leggenda» gobettiana, alla cui formazione e trasmissione contribuirono in maggiore o minore misura i suoi amici. Uno dei maggiori creatori di questa leggenda è stato Carlo Levi. Ho ricordato all’inizio il modo con cui egli aveva raccontato il primo incontro. Non vi è momento della sua vita successiva in cui per le ragioni più diverse non gli sia balenato il ricordo di Gobetti: questa costante rammemorazione e viene sempre rappresentata come lo schiudersi della giovinezza, dell’eterna giovinezza di chi muore giovane dopo aver vissuto in una meravigliosa creazione di se stesso. Piero è il simbolo perenne dei giorni più belli della nostra vita, quando viviamo in uno stato di continuo entusiasmo per la conoscenza del mondo che si espande, per la consapevolezza di sé che si irrobustisce. Una prima testimonianza del fascino che Gobetti suscita tra gli amici si può leggere in una brano di lettera a Sapegno del 3 settembre 1920: «Soprattutto sono contento che Gobetti è a Torino. Egli lavora continuamente e ha pur nel suo lavoro tanta comunicativa e tanto entusiasmo che lo rendono davvero apostolo. Egli è amico di tutti, anche se noi e lui non ce ne accorgiamo perché la fede che egli predica non ha bisogno di molte parole, ed egli è sano e giovane e l’inferno (il non agire) non ha per lui tentazioni»[7]. La lettera a Gobetti dell’11 settembre 1921, già citata, termina con queste parole: «La comunione con te è cosa invero assai bella». Quando Gobetti è aggredito sulla soglia di casa da un gruppo di fascisti il 5 settembre 1924, in seguito alla campagna di stampa per le pretese ingiurie all’on. Delcroix, Levi, che è ad Alassio, gli scrive di essere d’accordo con lui e si rammarica di non essere stato sulla porta di casa con le sue braccia robuste e una certa attitudine a fare a pugni.

    (...)


    [1] C. LEVI, Letture. Pensiero fascista, in «La rivoluzione liberale», II, n. 10, 17 aprile 1923, p. 42.

    [2] C. LEVI, Il congresso dei popolari, in «La rivoluzione liberale», II, n. 11, 24 aprile 1923, p. 48. – Altri scritti di Levi sulla stessa rivista, Il cappone ripieno, III, n. 9, 26 febbraio 1924, p. 33; I torinesi di Carlo Felice, III, n. 17, 22 aprile 1924, p. 68; L’impresario, l’asino e la scimmia, III, n. 41, 4 novembre 1924, p. 165. Su «Il Baretti» un solo articolo: Soffici a Venezia, III, 7 luglio 1926, p. 97.

    [3] Così in L. SALVATORELLI e G. MIRA, Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1956, p. 625.

    [4] V. FOA, Carlo Levi uomo politico, in «Galleria», numero speciale dedicato a C. Levi, a cura di A. Marcovecchio, n. 3-6 maggio 1947, pp. 203-213.

    [5] A. GAROSCI, L’era di Carlo Levi, in Carlo Levi, Disegni dal carcere, Materiali per una storia, Roma, De Luce, 1983, pp. 5-29. Altre notizie sull’attività politica di Carlo Levi: C. VALLAURI, Il contributo alla lotta per il rinnovamento della libertà, eodem, pp. 30-42; e G. DE LUNA, Una cospirazione alla luce del sole, in AA. VV., Carlo Levi. Un’esperienza culturale politica nella Torino degli anni trenta, Archivio di stato, Torino, 1985, pp. 71-86.

    [6] V. FOA, Carlo Levi uomo politico, cit., «Ci dividemmo allora [dopo la guerra di liberazione] fra chi credeva nella tecnica politica e chi riaffermava il valore della poesia e della verità. E cademmo tutti insieme, i poeti (come Carlo Levi, Emilio Lussu, Guido Dorso e Ferruccio Parri) e i tecnici» (p. 212).

    [7] Citata da N. SAPEGNO, Piero Gobetti il mio amico, in AA. VV., Colloquio gobettiano, La Pietra, Milano, 1979, p. 30.
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    Predefinito Re: Carlo Levi e Gobetti (1985)

    L’inizio della leggenda c’è già in una lettera a Sapegno del 27 febbraio 1926 scritta in occasione della morte: «Egli era veramente l’unità viva della nostra generazione […] Fu lui veramente ad aprirmi le porte della giovinezza; e a lui debbo tutto quel po’ che sono. Lo cercai (ora si sorride al ricordo) con molto pudore e speranza, come un amico, ma più come un maggiore: trovai l’uno e l’altro insieme […] Quello che egli sia stato per me, allora e più tardi lo sai […] In ogni cosa il più perfetto uomo che mai più incontreremo in vita»[1]. Sul numero di giugno 1933 dei «Quaderni di GL», scrive un saggio che resta, a mio giudizio, ancor oggi uno dei maggiori contributi alla conoscenza e alla penetrazione della personalità di Gobetti[2]. Coglie esattamente quali erano state le fonti del suo pensiero, Einaudi, Salvemini, Croce, ma anche gli elitisti, Mosca e Pareto. Anche Marx, negli ultimi anni, ma interpretato da liberale; di qui la vicinanza al socialismo liberale di Rosselli. Il gruppo che si forma attorno a Gobetti sin dagli anni di «Energie Nove» è una libera scuola di autoformazione. Con la pubblicazione di «La rivoluzione liberale», attorno a cui si radunano «i migliori giovani torinesi» e che diventa a poco a poco «la più bella rivista politica italiana», Gobetti ha dato agli italiani una teoria politica, una morale della libertà, lo strumento per la creazione di una classe politica, una morale della libertà, lo strumento per la creazione di una classe politica. Scrivere di Gobetti è fare dell’autobiografia, rievocare la propria formazione morale e politica, ritrovare la propria giovinezza. Gobetti è stato esemplare perché ha fatto della sua stessa vita un esempio per gli altri. Il suo insegnamento è consistito nel far sentire la debolezza come un male, nell’educare al senso dell’autonomia e della responsabilità. Mai più gli sarebbe riuscito di trovare un altro uomo che sapesse incarnare più di Gobetti l’ideale della libertà, se pure in una solitudine eroica quale solo poteva essere quella di un «sacerdote di se stesso». Tra le altre osservazioni questo splendido ritratto: «Era un giovane alto e sottile; disdegnava l’eleganza, portava occhiali a stanghetta da modesto studioso; i lunghi capelli arruffati, dai riflessi rossi, gli ombreggiavano la fronte e gli occhi vivissimi, così penetranti che era difficile sostenerne lo sguardo a chi non fosse ben sicuro di sé. Il complesso della persona, malgrado lo sdegno mondano, splendeva di una particolare bellezza, fatta soprattutto di certezza, di ascetismo e di giovanile potenza»[3].
    Ripubblicando l’articolo dopo molti anni sul numero de «Il Ponte» dedicato al Piemonte (luglio-agosto 1949), ne mette in rilievo i limiti che consistono soprattutto nell’essere un ritratto di Gobetti scritto in modo gobettiano, vale a dire pieno di caratteri della giovinezza: ideologismo, entusiasmo, pudore, astrattezza e simulato distacco. Oggi invece, prosegue, bisognerebbe distinguere quello che è ancora vivo nell’opera gobettiana da quello che risente del tempo in cui fu composta. Resta a ogni modo la concezione di una società molteplice, libera, articolata, viva per l’interna dialettica delle sue forze, realizzantesi contro ogni forma di paternalismo in infinite autonomie. Alla fine ancora una volta appare il tema della giovinezza: «Anche la Resistenza, come la vita di Gobetti, ha avuto un carattere giovanile. Ma la maturità degli uomini veri non contraddice la loro giovinezza[4]». In una testimonianza di qualche anno più tardi, il tema della giovinezza ricompare come tema centrale di una nuova rievocazione, ove Gobetti «rimane ancora per noi l’immagine non soltanto di un passato e di una memoria carissima, ma un qualche cosa che è vivo in noi e che ha salvato per ciascuno di noi questa permanenza di giovinezza, di capacità di rinnovamento e di creazione». Subito dopo, con insistenza (ma si tratta di una testimonianza orale): «La figura di Piero Gobetti è proprio questo: l’elemento della giovinezza che egli ha rappresentato e che ha vissuto»[5].
    Invano si cercherebbe negli scritti politici di Levi, anche in quelli che scrive su «La nazione del popolo» di Firenze e su «L’Italia libera» di Roma durante gli anni del maggiore impegno, tra il 1943 e il 1946, un programma politico. Ma il problema che lo assilla sin dai primi anni, e poi, nella scoperta del mondo contadino in Lucania, e infine nella battaglia in seno al Partito d’Azione, è il problema dell’autonomia, del potere dal basso, della libertà contro lo Stato burocratico, oppressivo, esigente e non generoso, che è un tema tipicamente gobettiano. D’ispirazione gobettiana sono gli articoli che scrive sui «Quaderni di GL». Nella Seconda lettera dall’Italia parla del fascismo come del regime in cui è confluita tutta una tradizione storica italiana di malgoverno e definisce il regime, gobettianamente, «autobiografia della nazione»[6]. Di gusto gobettiano il ritratto ironico di Curzio Malaparte, che Mussolini aveva fatto diventare direttore de «La Stampa», per levarselo di torno[7]. Gobettiano sopra ogni altra cosa l’afflato etico che ispira ogni sua pagina politica e trova uno degli accenti più commossi e convinti nel necrologio di Claudio Treves: «Nulla in lui del tiranno o del servo. Né comandare né obbedire, ma, invece, assumere su di sé, con coraggio e pazienza, le prove e le responsabilità»[8]. In un articolo di «Italia libera» non dimentica il giudizio sferzante che Gobetti aveva dato di Bonomi[9]. In un articolo successivo ricorda il giudizio di Gobetti sui non politici che hanno sempre torto[10]. Il suo interesse per il Mezzogiorno non era forse nato negli anni dell’apprendistato accanto a Gobetti che aveva voluto fare della sua rivista un tramite tra il Nord e il Sud? Guido Dorso recensisce Cristo si è fermato e Eboli con caldissime parole d’elogio: «… un’opera come quella di Levi può agevolare la comprensione della questione meridionale assai più della teorizzazione politica»[11]. Lui, Carlo Levi, dedica a Dorso, «questo realistico sostenitore di quella che egli chiama ‘irrealtà’», alcune pagine ove riprende il libro La rivoluzione meridionale, pubblicato da Gobetti nel 1924, e mostra di condividerne il nucleo del pensiero per quel che riguarda sia la diagnosi dei mali del Mezzogiorno sia i rimedi[12].
    Quando alla caduta di Mussolini Giulio Einaudi progetta nuovi libri e pensa a un’antologia di scritti gobettiani ne affida la cura a Carlo Levi, considerato evidentemente l’autore più adatto all’impresa[13]. Per quali ragioni questa antologia non sia mai venuta alla luce, non saprei dire: uscirà nel 1947 da Einaudi La rivoluzione liberale, a cura di Umberto Morra, e un’antologia della rivista gobettiana, a cura di Nino Valeri, presso l’editore Francesco De Silva, idest Franco Antonicelli, nel 1948.

    (...)


    [1] art. cit., p. 30.

    [2] C. LEVI, Piero Gobetti e la rivoluzione liberale, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», serie II, n. 7, giugno 1933, pp. 33-47. – Questo articolo viene presentato come la prima parte di un saggio la cui seconda parte non uscirà mai. – Da una lettera di Lussu a Carlo Rosselli risulta che Caffi avrebbe voluto scrivere un articolo su Gobetti che «egli vede in modo del tutto diverso da Trapassi [pseudonimo di Carlo Levi] e che egli vorrebbe esaminare secondo lo spirito d’un movimento rivoluzionario come GL» (E. LUSSU, Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di Giustizia e Libertà, a cura di M. Brigaglia, Sassari, Dessì, 1970, p. 85).

    [3] articolo cit., pp. 38-39.

    [4] Dalla lettera a Calamandrei, premessa alla ristampa dell’articolo Piero Gobetti e la rivoluzione liberale, in «Il Ponte», V, 1949, p. 1010. – Su un episodio della vita di Levi, vedi di P. CALAMANDREI, Diario 1930-1945, Firenze , La Nuova Italia, 1982, a cura di Giorgio Agosti, vol. II, p.95.

    [5] C. LEVI, Ritratto di Piero Gobetti, cit., p. 203.

    [6] C. LEVI, Seconda lettera dall’Italia, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», n. 2, marzo 1932, p. 1.

    [7] C. LEVI, Malaparte e Bonaparte ossia l’Italia letteraria, in «Quaderni di Giustizia e Libertà», n. 2; Marzo 1932, pp. 36-41.

    [8] C. LEVI, In morte di Claudio Treves, cit., p.n.n.

    [9] C. LEVI, La crisi dei galantuomini, in «Italia libera», III, 6 novembre 1945.

    [10] C. LEVI, Giolittismo ideale, in «Italia libera», III, 1° dicembre 1945.

    [11] G. DORSO, L’occasione storica, Einaudi, Torino, 1949, p. 173. Questa recensione era stata pubblicata su «Il Nuovo Risorgimento» di Bari, 20 aprile 1946.

    [12] C. LEVI, Guido Dorso, saggio inedito, pubblicato postumo da Gigliola De Donato, curatrice del volume C. LEVI, Coraggio dei miti. Scritti contemporanei 1922-1974, De Donato, Bari, 1975, pp. 130-135.

    [13] Da una lettera di Pavese a Carlo Muscetta del 13 agosto 1943 (così in una lettera successiva del 17 agosto), in C. PAVESE, Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino, 1966, p. 721 e p. 726. – La stessa notizia in una testimonianza di O. BELTRAMI, Sodalizio con Carlo Levi, in «Fiera Letteraria», 18 gennaio 1976 (in occasione della morte di Carlo Levi). Racconta Beltrami che nell’agosto 1944 rifugiatosi a Lanzo con sua moglie ospita Levi il quale chiede di prestargli la sua collezione di «La rivoluzione liberale» perché Giulio Einaudi lo avrebbe incaricato di fare una scelta di scritti di Gobetti. Beltrami gli dà la collezione che non riavrà più perché Levi parte per Firenze e si rivedranno soltanto dopo la liberazione. Vedi anche I limiti del consenso: la casa editrice Einaudi, in G. TURI, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 321.
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    Predefinito Re: Carlo Levi e Gobetti (1985)

    Tra Gobetti e Carlo Levi l’amicizia fu indubbiamente profonda, nonostante la diversità dei sue personaggi. Levi era un uomo molto sicuro di sé, e dava la sensazione di una grande forza interiore. Pur essendo convinto della sua superiore intelligenza, di cui del resto diede tante prove, come scrittore, come pittore, come critico d’arte e di politica, non era altezzoso, anzi appariva o voleva apparire bonario, e non sempre si riusciva a capire se il suo sorriso fosse segno di sufficienza o prova di affabilità. Noventa scrisse: «A lungo sono stato forse particolarmente ingiusto verso Carlo Levi. Nei tempi dei tempi, quando cominciavano ad apparire a Torino ed essere letti in Italia i primi numeri di ‘Rivoluzione liberale’, il suo sorriso m’irritava»[1]. (Ma Noventa, come annotò Gramsci che gli era amico, «dall’alto della sua esperienza di guerra guardava allo stesso gruppo gobettiano come a giovani inesperti»[2]. Era quello stesso sorriso che aveva fatto dire un giorno a Umberto Saba di Gobetti che era «il coraggio che sorride». Anche Levi fu uomo di grande coraggio, naturaliter coraggioso: aveva il coraggio degli uomini liberi. Sfidò il potente avversario con fierezza e accettò le persecuzioni con dignità. Certo il suo linguaggio non è mai stato né tormentato né profetico, come quello di Gobetti (anche questa è un’annotazione di Foa). Ma Gobetti fu un uomo di grandi contrasti interiori, con un fondo di disperazione riscattata da quella suprema energia da cui gli amici, a cominciare da Levi, erano rimasti avvinti, con un senso tragico della storia cui ci si poteva sottrarre soltanto con una indomita volontà.
    Ma proprio questa diversità ripropone ancora una volta il problema di quel sodalizio così composito e insieme così compatto, che pur essendo durato pochi anni, avrebbe lasciato tracce profonde non solo nella memoria dei superstiti ma nel grande libro dove si racconta la storia della libertà d’Italia, e degli italiani.

    Norberto Bobbio


    https://www.facebook.com/notes/norbe...8418724534857/


    [1] G. NOVENTA, Discorso su Carlo Levi e la situazione spirituale italiana (1950), pubblicato come Introduzione a Nulla di nuovo, Il Saggiatore, Milano, 1960, p. 10.

    [2] A. GAROSCI, L’era di Carlo Levi, cit., p. 6.
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