Giustino Fortunato (Rionero in Vulture, Potenza, 1848 - Napoli, 1932)
di Enzo Tagliacozzo – In “Nuova Antologia”, fasc. 2155, luglio-settembre 1985, Le Monnier, Firenze, pp. 142-152.
Tra il 1927 e gli anni seguenti, in compagnia di Emilio Sereni, Manlio Rossi e Giorgio Amendola, salii come tanti altri le scale di via Vittoria Colonna a Napoli per rendere omaggio a don Giustino Fortunato. E, potete immaginare quale impressione facesse su un giovane di diciotto anni la vivacità, la cultura, la tenace memoria di uomini e cose di quel profondo conoscitore del regime liberale e parlamentare che era stato da pochi anni abbattuto dalla dittatura fascista.
Leggendo nelle scorse settimane il bel volume Giustino Fortunato composto da un gruppo di amici intimi tra i quali Umberto Zanotti Bianco, Ettore Ciccotti, Giuseppe Isnardi, Raffaele Ciasca, i quali tutti hanno degnamente commemorato Fortunato pochi mesi dopo la sua scomparsa, ci si può meravigliare che non uno di questi scrittori, i quali sapevano assai bene degli stretti rapporti esistenti tra Salvemini e Fortunato, avesse ritenuto opportuno di menzionarne il nome. Finanche Vincenzo Della Sala, nel saggio minutissimo Giustino Fortunato intimo, ritenne di tacere dei suoi rapporti con Salvemini. Il nome di questi si ritrova soltanto a proposito de L’autobiografia di un brigante (a cura di G. Salvemini, Roma, 1914), nella bibliografia anonima degli scritti di e su Fortunato, alla fine del fascicolo commemorativo dell’«Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», ristampato nel gennaio del 1962.
Il silenzio sul nome di Salvemini non dovette essere casuale. Fin dal 1925 egli era esule, e conduceva una incessante propaganda all’estero contro il fascismo. Zanotti Bianco e gli altri amici dovettero pensare che non era opportuno abbinare il nome di Fortunato, ben noto come avversario del fascismo, a quello di Salvemini odiatissimo dai fascisti. Se si voleva assicurare larga diffusione al fascicolo commemorativo, bisognava cautelarsi contro il rischio di un sequestro, o di una congiura del silenzio a proposito di una serie di saggi che miravano a mettere in valore il pensiero e l’opera di un esaltatore del regime liberale e parlamentare come Fortunato. Nei giornali fascisti si potevano leggere ripetuti inviti a sbarazzarsi di un avversario molesto come Salvemini. Il londinese «Times» riportò una di queste esortazioni a usare «freddo ferro» contro di lui. Nel 1926 Salvemini era stato privato della cittadinanza italiana. I fascisti, che non avevano il senso del ridicolo, inviarono Costanzo Ciano in persona a Molfetta a ricevere la nomina a cittadino onorario in luogo di Salvemini[1]. Per questo mi sembra opportuno gettare un po’ di luce sui rapporti che legarono le due personalità, e che furono strettissimi, come risulta dalle lettere che si scambiarono negli anni della «prima Unità» e cioè tra il 1912 e il 1915.
Salvemini era di venticinque anni più giovane di Fortunato. Come mai due uomini di così diversa provenienza politica come il monarchico liberale Fortunato, fermissimamente unitario, e il socialista Salvemini, negli anni di fine secolo repubblicano e federalista alla Cattaneo, finirono per incontrarsi e collaborare negli anni precedenti la prima guerra mondiale?
Quali punti di contatto iniziali esistevano tra il ricco proprietario di terre di Rionero, nominato senatore dopo un trentennio di ininterrotta milizia alla Camera dei deputati, e lo storico che aveva iniziato la sua vita come primogenito di una numerosa e modestissima famiglia di minuscoli proprietari di terre in Puglia, aveva studiato in Seminario, poi aveva vinto una borsa di studio per la Facoltà di Lettere a Firenze e dopo la laurea era stato professorino di ginnasio e di liceo, prima di divenire insegnante universitario a Messina? Fortunato non era mai stato marxista e socialista, mentre Salvemini lo era stato negli anni novanta del secolo scorso. Fortunato aveva acquistato una vasta e varia cultura umanistica prima di entrare alla Camera, nonché una conoscenza di prima mano dei problemi del Mezzogiorno continentale, che aveva percorso in molte zone a piedi, prima di studiarli sui libri. Era entrato alla Camera socialista della cattedra e fautore dell’intervento dello Stato nell’economia, ma poi, persuasosi che ogni socializzazione e nazionalizzazione equivaleva a crescente burocratizzazione ed era quindi da scartarsi, era pervenuto ad una visione liberistica dell’economia, che avrebbe giovato soprattutto al Mezzogiorno. Come è noto, la sua conoscenza delle necessità del Sud d’Italia non si arrestavano alla storia e alla politica, ma risalivano più su, alla geologia e alla geografia, dei cui dati si era impossessato fin nei capillari. La multiformità delle sue conoscenze in fatto di Mezzogiorno ne faceva una maestro senza rivali, dal quale Salvemini non esiterà a mettersi a scuola, quando lo conoscerà di persona e negli scritti.
La cultura era in entrambi di matrice positivistica, ma quel «moralismo solenne» che Gobetti attribuiva a Salvemini lo ritroviamo anche in Fortunato, benché accompagnato ad un’indole più dubitativa. Fortunato aveva ascoltato le lezioni di Francesco De Sanctis, e Salvemini, negli anni di Seminario, era già stato fortemente impressionato dai Saggi critici, dai quali assorbirà l’esigenza a cementare i fatti col «mastice» delle idee generali. Comune l’avversione alle astruserie metafisiche, e certa mentalità afilosofica se non proprio antifilosofica. Non troviamo – è vero – in Fortunato, che pure dedicherà la sua vita alla politica, quella focosa passionalità e quella vena polemica che Salvemini conserverà fino agli ultimi anni. Ma, sia nell’uno che nell’altro, visione della politica come dovere, e come azione educativa, e non come ambizione e come sete di potere. Sia nell’uno che nell’altro concezione della deputazione politica come messa al servizio del bene dell’intera collettività e non come considerazione del deputato, «sbriga faccende degli elettori». Il «concretismo» salveminiano trova un riscontro nella passione e nel rispetto dei fatti, che in Fortunato comprende i dati naturalistici geologico-geografici oltre che storico-politici dei problemi meridionali.
Le dolorose esperienze del brigantaggio, vissute da Fortunato fin dagli anni dell’adolescenza, sono il punto di partenza di un processo di pensiero che lo condurrà ad una ricerca appassionata, durata una vita intera, per sforzarsi di dare una risposta ai quesiti di quel che valessero moralmente il Mezzogiorno e l’Italia intera, e di cosa servisse meglio ad elevarli intellettualmente e moralmente oltre che economicamente. E la risposta, specie per quanto riguarda l’esame della realtà, fu dolorosamente negativa. Non che non vi fosse nulla da fare; ma panacee per i mali del Sud Fortunato non ne vedeva. Egli era quindi convinto che solo uno sforzo serio e tenace dell’intero popolo, e una politica estera di raccoglimento, di economia e di sgravi fiscali, potessero servire come graduali rimedi ai mali fisici e morali del paese. L’«unitarismo» di Fortunato discendeva da queste premesse. C’era da sperare che le due parti del paese strette, nel vincolo unitario progredissero insieme, e che assieme mescolate, la parte più avanzata sarebbe riuscita gradatamente a portare al suo livello quella più arretrata.
Anche Salvemini aveva avuto esperienze negative dall’essere stato immerso nell’ambiente della piccola borghesia della città natale. Ma la sua natura impetuosa, e la fede giovanile in un rimescolìo rivoluzionario della società italiana lo portavano a non disperare del futuro del paese e del Mezzogiorno, salvo che le successive dolorose esperienze sarebbero valse ad attenuare l’ingenuo ottimismo giovanile.
Accomunava i due la persuasione che la rovina morale del Mezzogiorno risiedesse nella piccola borghesia delle professioni e degli impieghi, che dominava nelle amministrazioni locali. Da sponde opposte Fortunato e Salvemini inveivano contro i difetti intellettuali e morali degli pseudo-intellettuali esponenti della piccola borghesia del Mezzogiorno.
Fortunato insisteva sull’abbassamento del livello politico e morale della società italiana dopo la caduta della Destra, e Salvemini, negli scritti della sua prima fase socialista, descriveva con brio la batraconomiachia tra le fazioni avverse per l’accaparramento dei bilanci comunali, e il clientelismo dei partiti locali, privi di alcuna luce di ideali, o piuttosto nascondenti sotto una retorica altisonante il vuoto delle idee e la fame di impieghi. Chi non ricorda la gustosa satira salveminiana, apparsa nel 1908 sulla «Voce», intitolata Cocò all’Università di Napoli?
Altro punto di contatto tra il liberale Fortunato e il socialista Salvemini: il rispetto per il ceto dei contadini, per la serietà, per la durezza della loro vita di stenti e di incessanti fatiche, in contrasto con l’esosità e rapacità della borghesia piccola e media che si accompagnavano alla dappocaggine intellettuale e morale.
Dopo la fase marxista di acceso rivoluzionarismo durata solo qualche anno, sulle tracce di Bissolati di Turati e della sua «Critica Sociale» Salvemini era pervenuto a posizioni di socialismo gradualistico e riformista, dalle quali non si sarebbe discostato, neppure dopo essersi allontanato dal partito socialista. Le sue lotte contro la corruzione elettorale e per il suffragio universale erano tali da soddisfare Fortunato il quale, fin dai tempi della «Rassegna settimanale», aveva auspicato un notevole allargamento del suffragio. Salvemini si era accorto che tra il ’98 e i primi anni di questo secolo, negli anni migliori della sua azione e della penetrazione delle sue idee, il partito socialista aveva combattuto con bandiera socialista delle battaglie che erano state battaglie per la libertà e la democrazia. Inoltre, nuove esperienze culturali quali lo studio di Mosca, di Pareto, e delle riviste economiche liberiste, erano andate ad arricchire la conoscenza di Marx e di Cattaneo. E mentre, nella iniziale fase marxista, le masse erano in primo piano, il loro posto nella storiografia salveminiana veniva preso dalle minoranze organizzate. Erano queste le vere protagoniste degli avvenimenti storici, mentre le masse venivano da esse guidate e organizzate. Quindi, a un paio di decenni di distanza, Fortunato e Salvemini avevano percorso mentalmente un analogo tratto di strada, e le loro posizioni finivano per essere assai più riavvicinate. Con l’avvento al trono di Vittorio Emanuele, presentatosi in veste di sovrano liberale, si attenuò pure il repubblicanesimo di Salvemini, il quale negli scritti storici di fine secolo aveva dipinto la monarchia come un centro di reazione politica coi suoi circoli civili e militari stretti attorno al re. E persino si poteva notare in Salvemini un’attenuazione del federalismo giovanile visto come panacea ai mali nel Mezzogiorno. Alte preoccupazioni, altri problemi lo occupavano ora: la politica estera, la lotta al giolittismo, l’accento posto sul suffragio universale come riforma più urgente da ottenere, la lotta contro il protezionismo.
L’avversione alla retorica, alla megalomania, alle avventure africane, era altra convinzione comune ad entrambi, sicché quando si fossero conosciuti avrebbero riconosciuto che ciò che li separava era cosa di poco conto a paragone di quel che li univa. Dopo il terremoto del 1908 che distrusse l’intera famiglia di Salvemini, e la successiva fondazione dell’Associazione per gli interessi nel Mezzogiorno d’Italia, i due uomini si conobbero, e una stretta intesa non tardò a verificarsi tra loro.
Dopo il terremoto Salvemini si salvò a stento dal perdere la ragione, gettandosi a capofitto nel lavoro. Oramai, come scrisse ai suoi amici, la vita non poteva avere alcun senso per lui se non spendendola a favore degli altri. Per un triennio collaborò assiduamente alla fiorentina «Voce» trattandovi i temi che più gli erano cari: questione meridionale in tutti i suoi aspetti, problemi scolastici, agitazione per il suffragio universale. Egli persuase Fortunato ad esporre le sue idee sulla Questione meridionale per un numero unico collettivo della «Voce» dedicato ai problemi del Mezzogiorno, di cui si fece organizzatore. Si fece quindi banditore delle idee sulle quali Fortunato aveva insistito per decenni, che lo avevano persuaso, in quanto ponevano al centro della questione meridionale la maggiore povertà del Mezzogiorno rispetto al Nord. Dovuta a fattori naturali e geografici prima ancora che a cause politiche e sociali. Il Sud, «sacro alle frane, ai terremoti e alla malaria» di Fortunato, acquistò sempre maggior rilievo anche per Salvemini, che usciva appena dalle tragiche esperienze del terremoto di Reggio e Messina.
Salvemini ed i suoi amici, tra cui Luzzatto e Maranelli, non solo consideravano Fortunato oramai come una figura di maestro e anticipatore, ma si trovarono d’accordo anche collo stesso Fortunato nel giudizio da darsi sulla prezzoliniana «Voce». Vi venivano dibattuti troppi problemi della cultura più disparata, e tra essi la questione meridionale finiva per rimanere marginale. Essi pensarono dapprima alla pubblicazione a Bari di un giornale principalmente dedicato a dibattere i problemi meridionalistici, ma finirono poi per preferire un settimanale politico con Salvemini direttore che si sarebbe pubblicato a Firenze.
(...)
[1] G. S., Memorie di un fuoriuscito, ora in Scritti vari, Opere VIII, pp. 604-605.