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    Predefinito I rapporti fra Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini (1985)



    Giustino Fortunato (Rionero in Vulture, Potenza, 1848 - Napoli, 1932)



    di Enzo Tagliacozzo – In “Nuova Antologia”, fasc. 2155, luglio-settembre 1985, Le Monnier, Firenze, pp. 142-152.


    Tra il 1927 e gli anni seguenti, in compagnia di Emilio Sereni, Manlio Rossi e Giorgio Amendola, salii come tanti altri le scale di via Vittoria Colonna a Napoli per rendere omaggio a don Giustino Fortunato. E, potete immaginare quale impressione facesse su un giovane di diciotto anni la vivacità, la cultura, la tenace memoria di uomini e cose di quel profondo conoscitore del regime liberale e parlamentare che era stato da pochi anni abbattuto dalla dittatura fascista.
    Leggendo nelle scorse settimane il bel volume Giustino Fortunato composto da un gruppo di amici intimi tra i quali Umberto Zanotti Bianco, Ettore Ciccotti, Giuseppe Isnardi, Raffaele Ciasca, i quali tutti hanno degnamente commemorato Fortunato pochi mesi dopo la sua scomparsa, ci si può meravigliare che non uno di questi scrittori, i quali sapevano assai bene degli stretti rapporti esistenti tra Salvemini e Fortunato, avesse ritenuto opportuno di menzionarne il nome. Finanche Vincenzo Della Sala, nel saggio minutissimo Giustino Fortunato intimo, ritenne di tacere dei suoi rapporti con Salvemini. Il nome di questi si ritrova soltanto a proposito de L’autobiografia di un brigante (a cura di G. Salvemini, Roma, 1914), nella bibliografia anonima degli scritti di e su Fortunato, alla fine del fascicolo commemorativo dell’«Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», ristampato nel gennaio del 1962.
    Il silenzio sul nome di Salvemini non dovette essere casuale. Fin dal 1925 egli era esule, e conduceva una incessante propaganda all’estero contro il fascismo. Zanotti Bianco e gli altri amici dovettero pensare che non era opportuno abbinare il nome di Fortunato, ben noto come avversario del fascismo, a quello di Salvemini odiatissimo dai fascisti. Se si voleva assicurare larga diffusione al fascicolo commemorativo, bisognava cautelarsi contro il rischio di un sequestro, o di una congiura del silenzio a proposito di una serie di saggi che miravano a mettere in valore il pensiero e l’opera di un esaltatore del regime liberale e parlamentare come Fortunato. Nei giornali fascisti si potevano leggere ripetuti inviti a sbarazzarsi di un avversario molesto come Salvemini. Il londinese «Times» riportò una di queste esortazioni a usare «freddo ferro» contro di lui. Nel 1926 Salvemini era stato privato della cittadinanza italiana. I fascisti, che non avevano il senso del ridicolo, inviarono Costanzo Ciano in persona a Molfetta a ricevere la nomina a cittadino onorario in luogo di Salvemini[1]. Per questo mi sembra opportuno gettare un po’ di luce sui rapporti che legarono le due personalità, e che furono strettissimi, come risulta dalle lettere che si scambiarono negli anni della «prima Unità» e cioè tra il 1912 e il 1915.
    Salvemini era di venticinque anni più giovane di Fortunato. Come mai due uomini di così diversa provenienza politica come il monarchico liberale Fortunato, fermissimamente unitario, e il socialista Salvemini, negli anni di fine secolo repubblicano e federalista alla Cattaneo, finirono per incontrarsi e collaborare negli anni precedenti la prima guerra mondiale?
    Quali punti di contatto iniziali esistevano tra il ricco proprietario di terre di Rionero, nominato senatore dopo un trentennio di ininterrotta milizia alla Camera dei deputati, e lo storico che aveva iniziato la sua vita come primogenito di una numerosa e modestissima famiglia di minuscoli proprietari di terre in Puglia, aveva studiato in Seminario, poi aveva vinto una borsa di studio per la Facoltà di Lettere a Firenze e dopo la laurea era stato professorino di ginnasio e di liceo, prima di divenire insegnante universitario a Messina? Fortunato non era mai stato marxista e socialista, mentre Salvemini lo era stato negli anni novanta del secolo scorso. Fortunato aveva acquistato una vasta e varia cultura umanistica prima di entrare alla Camera, nonché una conoscenza di prima mano dei problemi del Mezzogiorno continentale, che aveva percorso in molte zone a piedi, prima di studiarli sui libri. Era entrato alla Camera socialista della cattedra e fautore dell’intervento dello Stato nell’economia, ma poi, persuasosi che ogni socializzazione e nazionalizzazione equivaleva a crescente burocratizzazione ed era quindi da scartarsi, era pervenuto ad una visione liberistica dell’economia, che avrebbe giovato soprattutto al Mezzogiorno. Come è noto, la sua conoscenza delle necessità del Sud d’Italia non si arrestavano alla storia e alla politica, ma risalivano più su, alla geologia e alla geografia, dei cui dati si era impossessato fin nei capillari. La multiformità delle sue conoscenze in fatto di Mezzogiorno ne faceva una maestro senza rivali, dal quale Salvemini non esiterà a mettersi a scuola, quando lo conoscerà di persona e negli scritti.
    La cultura era in entrambi di matrice positivistica, ma quel «moralismo solenne» che Gobetti attribuiva a Salvemini lo ritroviamo anche in Fortunato, benché accompagnato ad un’indole più dubitativa. Fortunato aveva ascoltato le lezioni di Francesco De Sanctis, e Salvemini, negli anni di Seminario, era già stato fortemente impressionato dai Saggi critici, dai quali assorbirà l’esigenza a cementare i fatti col «mastice» delle idee generali. Comune l’avversione alle astruserie metafisiche, e certa mentalità afilosofica se non proprio antifilosofica. Non troviamo – è vero – in Fortunato, che pure dedicherà la sua vita alla politica, quella focosa passionalità e quella vena polemica che Salvemini conserverà fino agli ultimi anni. Ma, sia nell’uno che nell’altro, visione della politica come dovere, e come azione educativa, e non come ambizione e come sete di potere. Sia nell’uno che nell’altro concezione della deputazione politica come messa al servizio del bene dell’intera collettività e non come considerazione del deputato, «sbriga faccende degli elettori». Il «concretismo» salveminiano trova un riscontro nella passione e nel rispetto dei fatti, che in Fortunato comprende i dati naturalistici geologico-geografici oltre che storico-politici dei problemi meridionali.
    Le dolorose esperienze del brigantaggio, vissute da Fortunato fin dagli anni dell’adolescenza, sono il punto di partenza di un processo di pensiero che lo condurrà ad una ricerca appassionata, durata una vita intera, per sforzarsi di dare una risposta ai quesiti di quel che valessero moralmente il Mezzogiorno e l’Italia intera, e di cosa servisse meglio ad elevarli intellettualmente e moralmente oltre che economicamente. E la risposta, specie per quanto riguarda l’esame della realtà, fu dolorosamente negativa. Non che non vi fosse nulla da fare; ma panacee per i mali del Sud Fortunato non ne vedeva. Egli era quindi convinto che solo uno sforzo serio e tenace dell’intero popolo, e una politica estera di raccoglimento, di economia e di sgravi fiscali, potessero servire come graduali rimedi ai mali fisici e morali del paese. L’«unitarismo» di Fortunato discendeva da queste premesse. C’era da sperare che le due parti del paese strette, nel vincolo unitario progredissero insieme, e che assieme mescolate, la parte più avanzata sarebbe riuscita gradatamente a portare al suo livello quella più arretrata.
    Anche Salvemini aveva avuto esperienze negative dall’essere stato immerso nell’ambiente della piccola borghesia della città natale. Ma la sua natura impetuosa, e la fede giovanile in un rimescolìo rivoluzionario della società italiana lo portavano a non disperare del futuro del paese e del Mezzogiorno, salvo che le successive dolorose esperienze sarebbero valse ad attenuare l’ingenuo ottimismo giovanile.
    Accomunava i due la persuasione che la rovina morale del Mezzogiorno risiedesse nella piccola borghesia delle professioni e degli impieghi, che dominava nelle amministrazioni locali. Da sponde opposte Fortunato e Salvemini inveivano contro i difetti intellettuali e morali degli pseudo-intellettuali esponenti della piccola borghesia del Mezzogiorno.
    Fortunato insisteva sull’abbassamento del livello politico e morale della società italiana dopo la caduta della Destra, e Salvemini, negli scritti della sua prima fase socialista, descriveva con brio la batraconomiachia tra le fazioni avverse per l’accaparramento dei bilanci comunali, e il clientelismo dei partiti locali, privi di alcuna luce di ideali, o piuttosto nascondenti sotto una retorica altisonante il vuoto delle idee e la fame di impieghi. Chi non ricorda la gustosa satira salveminiana, apparsa nel 1908 sulla «Voce», intitolata Cocò all’Università di Napoli?
    Altro punto di contatto tra il liberale Fortunato e il socialista Salvemini: il rispetto per il ceto dei contadini, per la serietà, per la durezza della loro vita di stenti e di incessanti fatiche, in contrasto con l’esosità e rapacità della borghesia piccola e media che si accompagnavano alla dappocaggine intellettuale e morale.
    Dopo la fase marxista di acceso rivoluzionarismo durata solo qualche anno, sulle tracce di Bissolati di Turati e della sua «Critica Sociale» Salvemini era pervenuto a posizioni di socialismo gradualistico e riformista, dalle quali non si sarebbe discostato, neppure dopo essersi allontanato dal partito socialista. Le sue lotte contro la corruzione elettorale e per il suffragio universale erano tali da soddisfare Fortunato il quale, fin dai tempi della «Rassegna settimanale», aveva auspicato un notevole allargamento del suffragio. Salvemini si era accorto che tra il ’98 e i primi anni di questo secolo, negli anni migliori della sua azione e della penetrazione delle sue idee, il partito socialista aveva combattuto con bandiera socialista delle battaglie che erano state battaglie per la libertà e la democrazia. Inoltre, nuove esperienze culturali quali lo studio di Mosca, di Pareto, e delle riviste economiche liberiste, erano andate ad arricchire la conoscenza di Marx e di Cattaneo. E mentre, nella iniziale fase marxista, le masse erano in primo piano, il loro posto nella storiografia salveminiana veniva preso dalle minoranze organizzate. Erano queste le vere protagoniste degli avvenimenti storici, mentre le masse venivano da esse guidate e organizzate. Quindi, a un paio di decenni di distanza, Fortunato e Salvemini avevano percorso mentalmente un analogo tratto di strada, e le loro posizioni finivano per essere assai più riavvicinate. Con l’avvento al trono di Vittorio Emanuele, presentatosi in veste di sovrano liberale, si attenuò pure il repubblicanesimo di Salvemini, il quale negli scritti storici di fine secolo aveva dipinto la monarchia come un centro di reazione politica coi suoi circoli civili e militari stretti attorno al re. E persino si poteva notare in Salvemini un’attenuazione del federalismo giovanile visto come panacea ai mali nel Mezzogiorno. Alte preoccupazioni, altri problemi lo occupavano ora: la politica estera, la lotta al giolittismo, l’accento posto sul suffragio universale come riforma più urgente da ottenere, la lotta contro il protezionismo.
    L’avversione alla retorica, alla megalomania, alle avventure africane, era altra convinzione comune ad entrambi, sicché quando si fossero conosciuti avrebbero riconosciuto che ciò che li separava era cosa di poco conto a paragone di quel che li univa. Dopo il terremoto del 1908 che distrusse l’intera famiglia di Salvemini, e la successiva fondazione dell’Associazione per gli interessi nel Mezzogiorno d’Italia, i due uomini si conobbero, e una stretta intesa non tardò a verificarsi tra loro.
    Dopo il terremoto Salvemini si salvò a stento dal perdere la ragione, gettandosi a capofitto nel lavoro. Oramai, come scrisse ai suoi amici, la vita non poteva avere alcun senso per lui se non spendendola a favore degli altri. Per un triennio collaborò assiduamente alla fiorentina «Voce» trattandovi i temi che più gli erano cari: questione meridionale in tutti i suoi aspetti, problemi scolastici, agitazione per il suffragio universale. Egli persuase Fortunato ad esporre le sue idee sulla Questione meridionale per un numero unico collettivo della «Voce» dedicato ai problemi del Mezzogiorno, di cui si fece organizzatore. Si fece quindi banditore delle idee sulle quali Fortunato aveva insistito per decenni, che lo avevano persuaso, in quanto ponevano al centro della questione meridionale la maggiore povertà del Mezzogiorno rispetto al Nord. Dovuta a fattori naturali e geografici prima ancora che a cause politiche e sociali. Il Sud, «sacro alle frane, ai terremoti e alla malaria» di Fortunato, acquistò sempre maggior rilievo anche per Salvemini, che usciva appena dalle tragiche esperienze del terremoto di Reggio e Messina.
    Salvemini ed i suoi amici, tra cui Luzzatto e Maranelli, non solo consideravano Fortunato oramai come una figura di maestro e anticipatore, ma si trovarono d’accordo anche collo stesso Fortunato nel giudizio da darsi sulla prezzoliniana «Voce». Vi venivano dibattuti troppi problemi della cultura più disparata, e tra essi la questione meridionale finiva per rimanere marginale. Essi pensarono dapprima alla pubblicazione a Bari di un giornale principalmente dedicato a dibattere i problemi meridionalistici, ma finirono poi per preferire un settimanale politico con Salvemini direttore che si sarebbe pubblicato a Firenze.

    (...)


    [1] G. S., Memorie di un fuoriuscito, ora in Scritti vari, Opere VIII, pp. 604-605.
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    Predefinito Re: I rapporti fra Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini (1985)



    Gaetano Salvemini (Molfetta, Bari, 1873 - Sorrento, Napoli, 1957)


    Lo scoppio della guerra libica aveva precipitato il dissenso interno al gruppo della «Voce», tra Amendola, spalleggiato da Prezzolini, che a guerra dichiarata riteneva che non dovesse più darsi spazio alle cause della guerra, e Salvemini, che insisteva che quella era la questione nazionale preminente, rispetto alla quale tutte le altre questioni di varia cultura divenivano secondarie. Era un dissenso di fondo, e non come sostenne Prezzolini da ridursi al desiderio individualistico di Salvemini di dirigere un giornale proprio.
    Gli anni della «prima Unità» (il primo numero uscì alla fine del 1911) fino allo scoppio della grande guerra, furono quelli nei quali maggiore fu l’intimità tra Fortunato e Salvemini, e maggiore il loro sodalizio intellettuale. Poi, nei mesi della neutralità italiana, il problema neutralità o intervento divise i due amici. Fortunato fu neutralista, e Salvemini acceso interventista. E tuttavia, una volta entrato in guerra il paese, Fortunato, che pure paventava una vittoria degli Imperi Centrali, si augurò la vittoria dell’Intesa, e cooperò in pieno allo sforzo morale di resistenza del fronte interno, ammirato dal contegno dei contadini, che fecero disciplinatamente la loro parte, nonostante i maggiori sacrifici di sangue e di fatiche ricadessero su loro e le loro famiglie. E gli parve che le prove degli anni di guerra avessero rinsaldato il vincolo unitario tra le varie parti della penisola.
    Per tornare al settimanale diretto da Salvemini, lo stesso titolo «L’Unità», voleva significare la necessaria unione tra settentrionali e meridionali nell’affrontare i problemi politici del paese, massimo fra i quali, nella politica interna, la questione meridionale. Il titolo del settimanale mostrava inoltre che l’unitarismo fortunatiano aveva avuto ragione del federalismo giovanile di Salvemini. Questi si era persuaso che le risorse del Mezzogiorno da sole erano insufficienti ad affrontare quel viluppo di problemi in cui consisteva la Questione meridionale, e che soltanto gli sforzi concordi dell’intera nazione avrebbero potuto migliorare le condizioni del Mezzogiorno.
    Durante il lancio del settimanale e il triennio della prima «Unità», Fortunato fu l’autorevole consigliere di Salvemini, e dietro le quinte, il principale sostenitore del giornale. Oltre a fornire un iniziale, per allora consistente appoggio finanziario (500 lire del tempo), oltre ad ottenergli il concorso di Croce, il quale versò 300 lire di contributo e fu d’accordo sulla divisione di compiti tra «Voce» e «Unità» (di cultura generale la «Voce», e specificatamente politica «Unità»), l’aiuto di Fortunato non si limitò a questo. Egli assicurò un certo numero di collaboratori e di distributori al giornale. La sua esperienza trentennale di vita parlamentare fu preziosa al direttore in tutti i sensi. Persino alcuni suoi ricordi trovarono posto anonimi nella rubrica Frammenti della vita italiana. Se si trattava di facilitare l’accesso a ministri, deputati, alti burocrati, Fortunato sapeva scovare l’uomo giusto al momento giusto. Scriveva a Salvemini anche due volte al giorno; ne lodava gli articoli a titolo di incoraggiamento; si industriò a procurargli la collaborazione di Croce, che pure saltuariamente ci fu, sapendo quanto Salvemini tenesse al giudizio di Croce; non tardava a comunicargli il consenso del filosofo a questa o quella presa di posizione del suo direttore.
    Nel Carteggio tra i due Salvemini si doleva di non aver conosciuto anni prima Fortunato. E Fortunato di rimando: «Ti devo le insperate, inaspettate consolazioni degli ultimi anni (15 luglio 1913). E ancora, il 4 dicembre 1925, quando Salvemini era già andato in esilio: «Fratel mio carissimo… Non poco occorse perché noi ci avvicinassimo e ci conoscessimo: fu assai più difficile la prima cosa, tanto e tu credevi di me ed io di te Dio sa che cosa. Comunque fummo presto amici del cuore, io spesso – e non infondatamente ripetendo: ci fossimo incontrati prima»… Si diceva persuaso che Salvemini sarebbe diventato «una forza politica».
    Se si scorrono le annate della «prima Unità» questa identità di vedute si manifesta in una miriade di cose. Innanzi tutto, nel considerare che non delle leggi speciali, a favore di questa o quella ragione, ma un intero indirizzo di politica estera, militare, tributario fosse indispensabile per migliorare le condizioni del Mezzogiorno. Occorreva poi riequilibrare con una sollecitudine verso l’Italia agricola la parte del leone che il Settentrione industriale si era fatto colle tariffe protezionistiche del 1878 e del 1887. Ancora: bisognava chiedere l’abolizione o la radicale riduzione del dazio sul grano, concesso ai granicultori e ai latifondisti meridionali in cambio del loro sostegno in parlamento alle tariffe protezionistiche a favore dell’industria settentrionale. Bisognava condurre una lotta contro tutti i gruppi parassitari avvantaggiati dal protezionismo. Di buon occhio era vista da Fortunato anche l’opposizione ai metodi elettorali giolittiani, e alla vergognosa protezione accordata da prefetti e questori per assicurare l’elezione di «ascari», ossia di deputati sempre pronti a ingrossare le maggioranze governative. Era vista favorevolmente la critica al partito radicale e agli altri gruppi di cosiddetta democrazia laica, e la critica di blocchi a carattere massonico e anticlericale di parata, e la mancanza di un serio impegno in una politica di ampie riforme. Era vista con favore la polemica contro il riformismo settoriale e spicciolo del partito socialista e contro le cooperative di lavoro socialiste.
    In queste campagne salveminiane focose ed ostinate, Fortunato ritrovava l’entusiasmo che lo aveva animato trent’anni prima, al tempo della sua collaborazione alla «Rassegna settimanale» di Franchetti e Sonnino.

    (...)
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    Predefinito Re: I rapporti fra Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini (1985)

    Nei decenni seguenti sentiva di essere rimasto un isolato e un profeta inascoltato, sia che lo si tacciasse di essere col suo programma un banditore del «nulla», sia di avere furbescamente «inventato» la malaria. Convinto di aver predicato al deserto, aveva ceduto al suo eccessivo pessimismo. Ed ora, un quarantenne pieno di energia veniva a riscuoterlo, si faceva banditore di molte sue idee, assicurava ad esse una risonanza e una più vasta circolazione, alla testa di un gruppo di giovani esperti, storici, geografi, economisti, e dichiarava di volersi ricollegare col suo giornale alla tradizione fortunatiana.
    Non si poteva però dire che Salvemini si fosse limitato ad impossessarsi del bagaglio di idee fortunatiane, e non vi avesse aggiunto nulla del suo. Vi aveva aggiunto il brio e la testardaggine dell’abile polemista. E crediamo di aver pure mostrato come egli fosse giunto, indipendentemente da Fortunato, e per suo conto a varie posizioni comuni. E sarebbe più appropriato dire che la conoscenza degli scritti di Fortunato era servita ad arricchire con una serie di nuovi dati, prevalentemente geologici, climatologici e geografici le sue conoscenze del Mezzogiorno.
    Intanto, alla luce delle nuove esperienze, Salvemini era indotto a rimeditare la sua visione del cinquantennio liberale. Col Mazzini e colla Rivoluzione francese si era lasciato alle spalle gli studi di storia medievale ed era passato ad occuparsi di storia moderna e del Risorgimento. Se in Magnati e Popolani la storia della Firenze nel ‘200 era stata storia di contrasti di classe alla luce del materialismo storico, già i saggi di fine secolo, quello su Le origini della reazione apparso nelle colonne della «Critica Sociale» nel 1899, e il volumetto I partiti politici milanesi nel secolo XIX, pure del 1899, erano scritti d’ispirazione cattaneana e non più marxista.
    Il suo graduale allontanamento dal partito socialista era precedente alla conoscenza e influenza di Fortunato. Derivava dal non essere riuscito a ottenere che i riformisti si occupassero seriamente della necessità del suffragio universale e della sorte della masse contadine del Mezzogiorno, anziché occuparsi quasi esclusivamente delle aristocrazie operaie settentrionali e delle cooperative della Valle Padana. Il partito socialista avrebbe dovuto porsi come obiettivi politici non delle riforme settoriali, giovevoli soprattutto ai lavoratori settentrionali, ma guardare ad ampie riforme politiche, doganali e tributarie, nell’interesse dei contadini meridionali oltreché degli operai settentrionali. Su questi temi insisterà nella «prima Unità» col pieno consenso di Fortunato.
    Tra i tanti progetti d’indagine storica, vagheggiava di scrivere una storia dell’Italia moderna, dal Risorgimento in poi. Nei momenti di stanchezza e di pessimismo era preso dalla tentazione di abbandonare la politica e darsi tutto agli studi storici. Ma era poi riafferrato ben presto dal demone della polemica politica, e non sapeva risolversi ad abbandonarla. Fortunato lo incoraggiava a scrivere una storia dell’Italia moderna, e Prezzolini faceva altrettanto scrivendogli che sarebbe dovuto diventare il «Taine italiano». Ma Salvemini rimaneva più persuaso della urgenza di un lavoro come quello che stava facendo col suo settimanale, che doveva servire a preparare alla vita politica un paio di migliaia di giovani, anziché rinchiudersi negli studi storici. E fino al termine della vita, non si stancò di ripetere che quello era il lavoro che valeva la pena di esser fatto a preferenza di ogni altro, e scrivendo a Ernesto Rossi nel 1922 affermava essere stata «la prima Unità» la «cosa migliore che aveva fatto in vita sua».
    Se si paragona la visione del Risorgimento e dei decenni successivi che ritroviamo negli scritti storici salveminiani degli ultimi anni del secolo scorso con quelli successivi alla prima guerra mondiale, il cambiamento nel modo di considerare gli stessi avvenimenti è evidente. Gli scritti di fine secolo sono pamphlets politici oltre che narrazioni storiche, mentre nell’Introduzione alle più belle pagine di Carlo Cattaneo del 1922 e nell’Italia politica nel secolo XIX, pubblicata nel 1925, ma preparata alcuni anni prima, troviamo una visione del Risorgimento più pacata, più serena e più moderata.
    Gli scritti degli ultimi anni del secolo scorso sono una critica degli avvenimenti da un punto di vista radicale e repubblicano, alla Gobetti e alla Gramsci, che anticipano la corrente revisionista del Risorgimento, sono contrari alla politica cavourriana e spietati contro De Pretis e il trasformismo suo e dei suoi successori. In quelli del primo dopoguerra viene abbandonata la pregiudiziale antimonarchica, e persino viene fatta una critica pacata alle idee care a Cattaneo di federalismo e della nazione armata. Viene ora valutata positivamente l’opera di Cavour e dei suoi successori della Destra. E si riconosce che nei primi anni dopo il 1860, anche l’accentramento amministrativo fu una necessità per impedire che l’unità di sfasciasse. Quanto alla nazione armata, si sostiene che, ove il fucile fosse stato affidato a contadini analfabeti che erano sotto l’influenza del clero reazionario, era più probabile che venisse usato a favore della restaurazione dei vecchi regimi anziché del consolidamento del nuovo regime unitario e liberale. E qui l’influenza del Fortunato fervidamente unitario, ed esaltatore della Destra storica, può avere avuto in questa palinodia salveminiana la sua parte. Apprendiamo dai ricordi di Della Sala che Fortunato aveva scarsa simpatia per Carducci, perché diceva che, se per avventura non si fosse conservata altra documentazione sugli anni della Destra, i Giambi ed Epodi di Carducci avrebbero fornito una visione distorta della realtà storica.

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    Predefinito Re: I rapporti fra Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini (1985)

    Anche negli scritti sulla politica estera italiana degli anni posteriori, ad esempio nelle conferenze londinesi del 1923, Salvemini mostra di preferire, per serietà e moderazione i diplomatici della vecchia Destra, i Visconti Venosta e i Di Robilant a quelli della Sinistra, e specie a Crispi che fu severamente criticato per la sua avventatezza e impulsività. Anche il giudizio su De Pretis diviene più indulgente che in passato, e in ciò è visibile l’influenza di Fortunato, e così pure nel riconoscimento che l’opera della Destra storica era stata «ciclopica».
    Fino alla prima guerra mondiale Salvemini, come storico e come polemista aveva condotto una incessante polemica da sinistra contro le carenze del regime liberale, mettendone in luce le insufficienze e la sua scarsa democraticità. Rilevava che era un regime oligarchico più che democratico, burocraticamente accentrato, dal voto ristretto. Ma, quando vide quel regime liberale cadere sotto i colpi dell’offensiva fascista, quando vide i nazional fascisti accanirsi contro «l’Italietta liberale», l’Italia del «piede di casa», quando vide che il regime liberale veniva sistematicamente denigrato per glorificare un regime dittatoriale assai peggiore, Salvemini cominciò, e perseverò lungo il suo ventennale esilio, a rivalutare il regime prefascista, sia nella politica interna che in quella estera. Con ostinazione fornì all’opinione pubblica straniera fatti e cifre sulle realizzazioni nel cinquantennio liberale, mise in luce che i fascisti se ne attribuivano, falsando il vero, i meriti nelle bonifiche e altri lavori pubblici, a glorificazione delle opere del regime. E ricordò che quella Enciclopedia Treccani, della cui composizione tanto si vantavano i fascisti, era stata scritta da scienziati e letterati che si erano formati sotto il regime prefascista, e quindi i suoi pregi eran dovuti ai progressi che nelle lettere e nelle scienze erano stati compiuti nei decenni precedenti.
    L’offensiva contro lo Stato liberale valse a rinsaldare l’affettuosa stima che legava Fortunato a Salvemini. Prima di lasciare l’Italia per recarsi in esilio, dopo il processo per la partecipazione al primo giornale clandestino «Non Mollare», l’imprigionamento e il processo intentatogli, terminato con un’amnistia concessa per spalancare le porte delle prigioni agli assassini di Matteotti, Salvemini si recò a Napoli a trascorrere alcuni giorni in compagnia di Fortunato, e doveva essere quello il loro ultimo incontro, cosa di cui Fortunato era ben consapevole. Tanto lo rattristava il pensiero di non poter più riabbracciare Salvemini, che aveva fatto vani tentativi per persuaderlo a restare in Italia abbandonando ogni proposito di opposizione antifascista, e rinchiudendosi tutto nei suoi studi di storia. Gli fece balenare nel 1923 la possibilità di ottenergli, tramite il ministro dell’Istruzione Fedele, una borsa di studio per proseguire le sue ricerche storiche all’estero. Ma Salvemini respinse le ingiunzioni a restare in Italia, che gli giunsero da lui e da altri amici, i quali si illudevano sulla durata del fascismo. E, rifiutando stipendio e pensione, preferì gettarsi allo sbaraglio, benché più che cinquantenne, piuttosto che rinchiudersi in ricerche storiche che avrebbero dovuto essere, per mancanza di libertà intellettuale, di pura erudizione. Scelse dunque l’esilio, per continuare all’estero quella battaglia per la riconquista della libertà che non gli era più possibile di condurre i patria. Fortunato era vecchio stanco e malato. I suoi consigli di moderazione e di abbandono della lotta politica erano comprensibili. Ma Salvemini, come spiegò in lettere a vari amici che lo spingevano a restare in Italia, sentiva di non potere abbandonare la lotta, e che quello era il suo imprescindibile dovere.

    Enzo Tagliacozzo
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