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    Predefinito La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    di Vittore Branca – In “Nuova Antologia”, fasc. 2152, ottobre-dicembre 1984, Le Monnier, Firenze, pp. 96-130.


    1. La Resistenza morale-politica e l’insegnamento di Elia Dalla Costa e Attilio Piccioni

    Cinque trilli di campanello dalla bicicletta che sfrecciava fuori dal portone annunciavano via libera. Uno dopo l’altro, a distanza di cinque minuti, dalle diverse vie adiacenti in cui attendevano, arrivavano cinque giovani: un orchestrale, un impiegato editoriale, un professorino liceale, uno storico dell’arte, un eterno studente. Sulla soglia del portone semichiuso, guardato da un operaio forzuto, dicevano «Ermengarda», ed erano lasciati entrare. La scena si ripeteva due volte alla settimana, più di quarant’anni fa, nell’autunno-inverno ’43-’44, sempre in diversi quartieri della periferia di Firenze occupata dai nazisti di Wolff e dai repubblichini di Carità. Erano le riunioni del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.
    Quei cinque non sapevano molto di politica, erano spesso angosciati e disorientati (ma due pagheranno con la vita quel loro impegno). I contatti col Comitato Nazionale erano quasi inesistenti; i capi più autorevoli a Firenze non potevano parlare (Zoli in carcere, Calamandrei nascosto ad Amelia, Gaetano Pieraccini sorvegliatissimo e da evitare per il bene suo e degli altri, Fabiani ancora alla macchia). Ma quei cinque sprovveduti si sentivano sostenuti dal profondo consenso della popolazione che dava ai loro gesti e al poco che potevano fare un valore e una risonanza eccezionali; sapevano di interpretare la rivolta morale di un popolo, la sua volontà di libertà e di giustizia.

    (...)
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  2. #2
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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    Perché La Resistenza, come già allora si avvertiva, era soprattutto un fatto morale, un imperativo in ogni coscienza retta; era l’eccezionale riflettersi in senso sociale di una ribellione individuale alla violenza, all’ingiustizia, al dispregio della persona umana. Il miracolo di un popolo avvilito e schiavo sotto il fascismo, «disperso, che nome non ha» ancora all’8 settembre, che vede l’improvviso liquefarsi di un esercito di milioni di soldati, e poi improvvisamente impegnato e compatto nella resistenza e nella lotta (dallo slancio subitaneo e generoso per salvare quei milioni di soldati e di suoi figli fino alla durissima guerra partigiana e alle insurrezioni di massa nel ’44 e nel ’45) è un fatto straordinario che non si spiega se non si fa riferimento alla rivolta di una coscienza morale. Chi aveva sofferto lunghi anni in silenzio, chi, per «carità di patria» o per quella innata incapacità di ribellioni ai poteri costituiti che caratterizza il galantuomo pacifico e onesto (e già Tacito lo insegnava), aveva sopportato sperando in un rivolgimento immune da sangue e da rovina, a un certo punto sentì che il restare inerte era colpa e delitto.
    Per anni e anni, nonostante le soppressioni delle libertà politiche, nonostante le violenze verbali e materiali, nonostante la dissennata e ripugnante politica interna ed esterna, e malgrado la protesta risoluta e generosa di nobili spiriti (che avevano l’autorità di Luigi Albertini, di Benedetto Croce, di Alcide De Gasperi, di Gaetano De Sanctis, di Antonio Gramsci, di Luigi Sturzo, di Gaetano Salvemini, per nominare solo alcuni grandi da tempo scomparsi, di formazione e di parti diverse), malgrado il sacrificio oscuro ed eroico dell’antifascismo operaio e contadino, non ci fu in realtà una ribellione di popolo al fascismo. Anzi la scaltrita demagogia di Mussolini trovò qualche volta motivi – da quelli nazionalistici a quelli di falsa esaltazione della famiglia – che fecero innegabilmente presa su larghe masse.
    Il primo episodio che provocò nettamente una rivolta ideale, una resistenza morale al fascismo, fu la politica filo-nazista e i conseguenti provvedimenti razziali. Neppure ai tempi delle violenze criminali – dai delitti Matteotti e Minzoni ai vari tragici eccidi in Toscana e in Emilia – la reazione era stata così vasta e assoluta. Per la prima volta i discorsi e gli ordini del duce e dei vari ducini, le disposizioni del partito, le leggi stesse erano violate, anzi rifiutate apertamente da milioni e milioni di italiani, non esclusi vari fascisti in buona fede.
    Il razzismo rimase in Italia lontanissimo da quello nazista specialmente per questa ribellione di tutto un popolo: ribellione in cui si trovavano spontaneamente uniti comunisti e liberali, anticlericali e cattolici, intellettuali e operai e contadini. È che tutto il nostro popolo, un popolo cattolico, cioè di spirito universale, si sentiva offeso e violentato, al di là di ogni pretesto di lotta politica, in quello che di più sacro v’era nella sua coscienza morale cristiana («non c’è più giudeo né greco, non c’è più servo né libero… ma tutti siete la stessa e sola cosa in Gesù Cristo», Galat., III 28).
    Il sospetto, l’amore del quieto vivere, l’indifferenza che motivi politici nobilissimi e chiarissimi non avevano potuto e non potevano scuotere, erano improvvisamente travolti da questa rivolta morale. I partiti, i movimenti e gli stessi uomini politici antifascisti furono – ben lo ricordo – sorpresi (seppur lietamente sorpresi) da questa spontanea, diffusiva solidarietà popolare. Ancora una volta appariva chiaramente che i grandi e risolutivi movimenti, nella vita e nella storia, avvengono quando la coscienza di un popolo è toccata e si risveglia e reagisce concordemente.
    La Resistenza, questo vasto movimento popolare, il più ampio e generale che abbia registrato finora la storia d’Italia, in cui agivano i più diversi ceti, in cui accanto al partigiano combattente si schierava naturalmente la vecchietta pia e casalinga, aveva proprio questa stessa origine e questa stessa forza.
    Era un movimento in cui il nostro popolo si sentiva profondamente impegnato perché era sollecitato insieme nella sua coscienza morale e nel suo più sano sentimento nazionale.
    Era la lotta contro il tedesco invasore della patria e calpestatore degli elementari diritti umani, cui una sparuta minoranza italiana voleva insanamente e follemente servire.
    Era un nuovo Risorgimento, come più volte fu detto giustamente: non tanto dunque una guerra «civile», quanto una guerra «di liberazione nazionale» dallo straniero e dai suoi servi, come era stata quella di un secolo prima contro gli austriaci e gli italiani retrivi, loro alleati, com’era quella dei vari popoli d’Europa oppressi dalla Germania hitleriana. E tale carattere della Resistenza era solennemente consacrato nel nome stesso degli organi che la dirigevano (Comitati di Liberazione Nazionale); e fu divulgato continuamente, a cominciare, per esempio, dalla manchette di un foglietto clandestino dei giovani democristiani («Bastone tedesco Italia non doma»), che riprendeva consapevolmente un motto risorgimentale.
    Da questa vasta rivolta morale e nazionale discendeva l’ampia solidarietà da cui ci sentivamo circondati, protetti e incoraggiati nella nostra azione. Quei contadini che si erano resi famosi per la esosità del mercato nero erano i primi ad aiutare generosamente non solo gli sbandati dell’8 settembre, ma i partigiani, e proprio nel periodo più difficile; sceglievano consapevolmente il rischio di mettersi dalla parte dei patrioti non ascoltando le lusinghiere offerte dei comandi nazifascisti che profferivano sicurezza, tranquillità, denaro a profusione se fossero passati risolutamente dalla loro parte.

    (...)
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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    Quei preti, abituati all’ossequio alle autorità civili, soliti ad attendere le direttive della Curia, non esitavano un momento non solo ad accogliere fuggiaschi ma a impegnarsi duramente per la salvezza degli ebrei braccati, per la protezione dei loro popoli, fino al sacrificio della vita.
    Quelle povere donne di casa, stremate da anni di miseria e di difficoltà per dar da mangiare alle loro famiglie, solite a piegar la testa e a tacere, inclini a trepidare per ogni minimo pericolo dei loro cari, erano quelle che esprimevano più arditamente l’indignazione per gli orrori dei nazi-fascisti, che difendevano coi denti i loro figli dalle prepotenze repubblichine, che li avviavano alla macchia. La vecchietta che, uscendo di chiesa, si presentava a uno di noi e aprendo la sporta diceva «avrei du’ bombe che mi hanno lasciato fuggendo quei poveri figliuoli e che a voi potranno servire», interpretava disadornamente tutta una nuova coscienza: e la interpretava senza esitazioni e con sicurezza, perché ubbidiva al suo innato senso del bene e del giusto. Era veramente, la Resistenza, uno di quei sollevamenti improvvisi di popoli che non si spiegano se non con la incoercibile rivolta della coscienza morale, se non con l’ubbidienza a una voce interiore potente e categorica: quella che Tolstoi seppe mirabilmente fermare nel suo capolavoro, specialmente nelle pagine sulla battaglia di Barodino.
    I partiti e i CLN furono, in generale e specialmente nei primi mesi, i molto imbarazzati Kutuzov della situazione. La loro importanza fu soprattutto quella di «esistere» e di far sapere di esistere; di non lasciare quel movimento abbandonato a se stesso e di tentare invece di dargli una direttiva civile e politica; di far sentire a ogni cittadino che non si trattava della ribellione di individui o di singoli gruppi, ma di un movimento vasto e a carattere nazionale.
    Non vorrei generalizzare: ma in tutta coscienza e conoscenza ho l’impressione – un’impressione vissuta e documentata – che anche in Firenze e in Toscana il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN)[1] per vari mesi, quasi fino alla primavera del ’44, non ebbe praticamente vera autorità né sulle bande partigiane, né sui GAP; non organizzò vasti movimenti di resistenza operaia o giovanile; non ebbe un’azione e un controllo efficienti né sui partiti antifascisti né di fronte a chi governava la città.
    Eppure adempì a una funzione importantissima, essenziale, anche prima dell’importante azione svolta negli ultimi mesi: anche prima cioè della creazione a Firenze del quadro completo di un governo cittadino e regionale tale da contrapporsi come un auto-governo nostro a quello degli alleati, militare e straniero, dando così alla liberazione il valore appunto di liberazione e non di sostituzione di una nuova occupazione straniera ad un’altra. Ma fin dall’autunno 1943 la sola esistenza del CTLN bastava a far sapere che tutti gli antifascisti, tutti i resistenti erano d’accordo nella lotta di liberazione.
    Ognuno sentiva che, opponendosi nelle forme più diverse ai nazifascisti non era isolato, non era una monade avulsa, ma era parte di un movimento cosciente, era la cellula di un organismo nazionale che si rinnovava lottando contro il cancro della violenza e dell’odio elevati a sistema. I CLN (e qui mi riferisco in particolare al CTLN) avevano rapidamente conquistato la fiducia del paese, il diritto di parlare a nome del paese, perché non erano un partito che si sostituisse al partito unico del passato, con faziosità, ma erano la espressione nuova di una concordia nazionale anche se multiforme nella varietà delle sue voci.
    Da questa realtà morale e nazionale bisogna muovere se si vuol capire umanamente e storicamente la Resistenza, senza correre il rischio di ridurla a motivo metastorico e perciò condannato a una decadenza retorica.

    (...)


    [1] I seguenti rappresentanti dei cinque partiti si alternarono nel CTLN durante il periodo clandestino e fino alla liberazione di Firenze:
    Partito d’azione: Carlo Furno, Luigi Boniforti, Enrico Bocci, Enzo Enriques Agnoletti, Cesare Fasola, Carlo Ludovico Ragghianti.
    Partito comunista: Giulio Montelatici, Giuseppe Rossi, Gianfranco Musco, Marco De Simone, Renato Bitossi.
    Democrazia cristiana: Mario Augusto Martini, Adone Zoli, Vittore Branca, Francesco Berti, Alberto Giachetti, Renato Branzi.
    Partito liberale: Mario Mari, Aldobrando Medici Tornaquinci, Eugenio Artom, Guglielmo di San Giorgio, Renato Fantoni.
    Partito socialista: Gaetano Pieraccini, Arturo Bruni, Foscolo Lombardi, Guido Ricci, Natale Dall’Oppio.
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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    Due personalità bene interpretavano per noi cattolici a Firenze, in quei mesi, l’impostazione morale-religiosa e socio-politica della Resistenza.
    Uno era il cardinale Elia Dalla Costa, l’anatemizzatore delle violenze fasciste a Padova, l’ispiratore e il protettore dell’azione ideologica di La Pira fra il ’39 e il ’43. Egli negli undici mesi dell’occupazione nazista, tentò in tutti i modi di salvare la città e il popolo a lui affidato da rappresaglie, da eccidi, da distruzioni, invocando accoratamente e ammonendo coraggiosamente le autorità nazifasciste, ed esortando la popolazione a non provocare inutilmente reazioni sanguinose e crudeli (e la sua nobilissima azione è riconosciuta persino in una relazione stesa da un comunista e pubblicata nel Bollettino del CTLN del 19 agosto 1944).
    Questo era il primo dovere di un pastore cristiano; questo fu l’atteggiamento dei più fieri e santi pastori del passato, da papa Leone fino ai Mercier e ai Faulhaber. Non era certo compito e funzione di un arcivescovo, come avrebbe voluto qualcuno, esortare alla lotta, alle uccisioni e alle rappresaglie; o trasformarsi in un capo partigiano e nemmeno in un uomo politico della Resistenza. Suo dovere era se mai di intervenire nella difesa dei deboli e degli oppressi: un dovere cristiano in cui il cardinale Dalla Costa giorno per giorno si impegnò silenziosamente, con profonda e assoluta abnegazione, senza nessun facile gesto, senza nessuna ostentazione.
    Lo sanno le centinaia di arrestati politici che, senza differenza alcuna di partito, sollecitarono il suo intervento ed ebbero – non sempre ahimè! – salva la vita e mitigate le terribili condizioni; lo sanno le migliaia di ebrei soccorsi e protetti da lui materialmente e moralmente, attraverso anche una organizzazione da lui appositamente creata (e le autorità israelite solennemente e ripetutamente riconobbero queste alte benemerenze); lo sanno molti uomini della Resistenza, nascosti per suo ordine in conventi e parrocchie, e persino nel Palazzo Arcivescovile che divenne nell’agosto del ’44 un vero rifugio, fino ad accogliere il 13 agosto alcuni membri della Commissione Stampa del CTLN (con relativo archivio) minacciati gravemente dal ritorno dei tedeschi fino a piazza San Marco, cioè oltre la tipografia Ariani, dove si stampava il quotidiano del CTLN.
    Il cardinale Dalla Costa in data 5 dicembre (dopo l’uccisione, cioè, da parte dei GAP del col. Gobbi, e la fucilazione per feroce rappresaglia da parte fascista di cinque ostaggi innocenti), esortò i cittadini «ad astenersi da qualunque violenza… perché danno origine a reazioni che in nessun modo debbono essere provocate». Ma condannò chiaramente ogni uccisione non legale e ogni violenza da qualsiasi parte venisse («Quanto alle uccisioni di arbitrio privato o a tradimento, ricordiamo a tutti il V comandamento delle legge: non ammazzare! e tutti scongiuriamo a riflettere che il sangue chiama il sangue…»).
    Proprio per questo senso cristiano evidente una deprecatoria lettera aperta di Enzo Enriques Agnoletti al cardinale non ebbe l’assenso del CTLN. Ma quando il cardinale Elia Dalla Costa seppe delle interpretazioni arbitrarie – da una parte e dall’altra – della sua notificazione del 5 dicembre, non esitò a chiarire risolutamente e rigorosamente il suo atteggiamento e il suo giudizio nell’omelia natalizia, il 24 dicembre del ’44:

    Esplosioni del dissenso che ci addolora sono le sopraffazioni, le imposizioni, le violenze, gli eccessi con cui si crede forse di far accettare le proprie vedute e di imporre la propria alla volontà altrui. Nulla di più illusorio e di più deleterio!
    Esigere che altri pensi come noi pensiamo, sarebbe ingenuo e può essere delittuoso. La mitezza e la persuasione sono le uniche vie che conducono a possedere stabilmente la terra dei cuori umani. Gesù Cristo ha conquistato il mondo non con la spada, ma con la croce.
    Ogni violenza, ogni percossa, ogni uso illegale di armi è delitto, perché niuno può far giustizia a se stesso, a meno che non si tratti di applicare il noto principio: ogni legge permette che la violenza si respinga con la violenza… Sembra oggi adottarsi il principio, orribile a dirsi!, che la sposa sconti per il marito, il figlio per i genitori, i genitori per i figli, gli innocenti per i colpevoli veri o presunti. Avvertano poi quanti rivestono pubbliche cariche o esercitano pubbliche funzioni che di ogni giusta legge essi devono essere i primi esecutori e che ai sottoposti essi devono sempre dare esempio di saggezza, di equanimità e di umanità. Anzi considerino che nulla serve tanto ad accrescere l’ascendente di chi è al comando quanto l’uso dei mezzi rispondenti a perfetta giustizia per rendere accettabili le proprie opinioni o per conseguire scopi altrimenti irraggiungibili.
    Ancora le Autorità nell’interesse loro e nell’interesse dello Stato, a cui intendono servire, per qualsiasi atto increscioso, anche imposto dal dovere o da superiori necessità, devono servirsi di esecutori che godano la stima e la considerazione generale. Se si affidano compiti gravi e difficili a mani inesperte o a coscienze depravate, se i tutori della legge sono contro ogni legge, l’esito sarà sempre e inesorabilmente catastrofico. Sorgente poi di odi profondi e di dissidi insanabili è lo spionaggio, anonimo o no. Arte di vili, arma dei delinquenti, quasi sempre sfogo di rancori inveterati, lo spionaggio mette sulla stessa linea l’innocente e il colpevole, l’uomo onorato e il malvagio. Chi lo esercita e il magistrato che intendesse servirsene devono rassegnarsi a raccogliere l’esecrazione di tutti gli onesti e ad essere vittime di chissà quali vendette. Perturbatori singolarissimi della pace interna dei paesi e delle città sono pure quegli sciagurati che organizzati in specie di associazioni di rapinatori e di ladroni, fingendosi tutori della giustizia – vedi profanazione della parola! – vanno perpetrando le più nefande ingiustizie, furti, estorsioni, e persino ferimenti e omicidi. E pareggiabili a costoro quanti sembra vogliano rimettere in onore l’antica deplorata tortura, infausto ricordo dei tempi più oscuri e tenebrosi della storia umana…
    Altra fonte di intestine discordie è il pensare che la salvezza possa venirci da altri che da noi stessi. Al contrario occorre essere convinti che all’Italia una interna resurrezione vera e permanente non giungerà che dagli italiani. Attenderla da altri sarebbe follia. I freddi calcolati egoismi, i nazionalismi spinti all’estremo, gli imperialismi eretti a sistema sono causa di rovina alle nazioni e al mondo.

    Chi ebbe la ventura di ascoltare l’angosciata risolutezza con cui quelle parole furono pronunciate nella Firenze di Carità e di Manganiello, unica risoluta protesta pubblica «a visto aperto» nei mesi delle nefandezze, delle violenze e delle torture nazifasciste, ricorda il fremito che percorse la folla intorno al suo Pastore in Santa Maria del Fiore; ricorda che da quella folla si levò un mormorio ansietato: «Quando scenderà dal pulpito, arresteranno il nostro Cardinale»; ricorda le minacce e gli insulti volgari di cui i nazifascisti fecero segno il Presule, salvato proprio da quella muraglia di solidarietà morale su cui poggiava la Resistenza.
    Quel discorso, - pubblicato in parte sull’«Avvenire d’Italia» del 28 dicembre, di cui fu impedita la circolazione – stampato e diffuso clandestinamente in migliaia di copie, fu accolto da resistenti e da partigiani come il vero messaggio natalizio di speranza; come fu accolta, due mesi dopo, la preghiera voluta e approvata dal cardinale per coloro che militavano nelle file clandestine, stampata a tergo dell’immagine del Crocefisso e distribuita a decine di migliaia di copie («Signore Gesù Cristo, che dal tuo Vangelo, dall’Eucarestia, dalla cattedra del tuo Vicario ci insegni il precetto nuovo dell’amore, nel quale ha compimento la giustizia sociale più pura, fa che da questo finalmente germoglino durante la pace, la libertà, l’equa distribuzione del lavoro e delle ricchezze: e fa che sappiamo usare di tutti questi beni come di tuoi doni preziosi»).
    È proprio per l’austero e intrepido esempio di questo grande Pastore che «le belle canoniche e le belle pievi della Toscana si erano trasformate – come scrisse il Francovich – in asili per militari sbandati e per tutti i perseguitati; nei conventi e nei monasteri si nascondevano ebrei, ricercati dalla polizia politica, prigionieri alleati; non di rado si raccoglievano viveri e munizioni per le bande armate; non di rado la canonica di un paesello sperduto divenne la sede di un comando partigiano»; e che vari sacerdoti furono deportati, torturati, uccisi, alle volte anche come vittime innocenti offertesi per salvare altri del loro popolo.
    E oltre tutto questo non si deve dimenticare, come scrisse uno dei capi della comunità israelitica, Eugenio Artom, «il fatto veramente incomparabile, dell’ordine diramato [dal card. Dalla Costa] a tutto il suo clero di non cercare e neppure di accettare di convertire al cattolicesimo gli ebrei bisognosi di aiuto. Il timore della conversione non doveva essere di ostacolo a che gli ebrei potessero ricorrere per salvezza ai preti e ai conventi. Questo è veramente un atto sublime…».

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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    Della realtà politica della Resistenza una coscienza più chiara e risoluta emergeva a sua volta a poco a poco ragionatamente in quell’inverno del ’43-’44 grazie alla maieutica di un altro maestro: un lento e tarchiato avvocato di provincia, giunto a un certo momento da Pistoia. Si chiamava Attilio Piccioni; veniva dal mondo, mitico per noi, degli Sturzo e dei De Gasperi e della Torino dei Gramsci e dei Togliatti, dei Gobetti e dei Saragat. Egli ne parlava spesso insieme con ammirazione e con spirito critico.
    Era lui che giovane consigliere comunale di opposizione a Torino, aveva scritto con spietato realismo a Sturzo il 12 aprile del ’25: «A me pare che il governo sia ben saldo, che il fascismo si mantenga formidabilmente inquadrato e armato, che all’uno e all’altro sia possibile tutto fare e tutto osare… L’Aventino è stato un errore aggravato dal suo prolungarsi. Ci vuole più coraggio a stare alla Camera che non sull’Aventino… Si credeva da molti che il passaggio all’opposizione di Salandra, Orlando, Giolitti costituisse un colpo quasi mortale per il governo, che l’azione dei combattenti sarebbe stata decisiva: nient’affatto!... Lo stato d’animo antifascista di quella che io credo la maggioranza del corpo elettorale è, nei più, uno stato d’animo superficiale… Ci vorranno ancora anni di dura oppressione fascista perché esso diventi degno di riscattare la propria libertà. Le sole masse operaie resisteranno sicuramente».
    Partendo da queste convinzioni maturate nella sofferenza di vent’anni di segregazione civile, Piccioni portava e a poco a poco imponeva alla Resistenza toscana di dare alla sua azione generosa una sicura direttiva civile e politica. Ci parlava meditativo e distaccato, passeggiando lento lento per piazza Indipendenza o per via XXVII Aprile (dov’era nascosto in un appartamento a doppia uscita): con un impegno e una chiarezza eccezionali, lievitate e controllate insieme da un umorismo serio, alla Buster Keaton, punteggiate di dissimulate citazioni di poeti moderni, da Gozzano a Ungaretti e Montale.
    Non «guerra civile», ma «liberazione nazionale»: problema istituzionale non come vendetta o punizione ma come via di rinnovamento (e sarà lui poi a determinare la svolta repubblicana, come affermazione morale, della DC); democraticità di ogni espressione civile, e funzionalità della vita sociale e economica ai grandi ideali da realizzare. Ideali che purché non fossero individualistici ma guardassero soprattutto agli altri, ai più, erano tutti comprensibili per lui risoluto e profondo cristiano. «Noi abbiamo dentro di noi – scriverà – l’esigenza religiosa: le relazioni della nostra coscienza individuale con Dio e con la Chiesa costituiscono la base e la premessa di tutto il nostro agire». Ma nello stesso tempo, proprio perché schietto cristiano dell’oggi, «uomo nuovo… di un Partito vivo e giovane… abituato a trattare realisticamente gli affari dell’amministrazione e della politica» (come lo aveva definito Gobetti nel ’25), era profondamente convinto della necessità dell’intesa fra tutte le forze del lavoro, e della impostazione ciellenista. Anzi, di fronte a certe nostre incertezze e a certi dubbi diffusi, egli insisteva sulla piena legittimità e rappresentatività dei CLN.
    «Interpretano la volontà di almeno l’ottanta per cento del popolo italiano. La nostra forza non è nelle élites intellettualistiche ma nelle grandi ideologie popolari e tradizionali: la cristiana e la socialcomunista; la Democrazia cristiana da sola rappresenta circa il quaranta per cento» (e le prime libere elezioni gli diedero pienamente ragione). E già anticipava la lucida e orgogliosa definizione del suo partito: «La DC non è la sinistra dello schieramento di destra e neppure la destra dello schieramento di sinistra: è una forza politica autonoma che ha la coscienza dei propri compiti e che li vuole svolgere in modo autonomo, sempre con metodo democratico».
    In quelle meditazioni e conversazioni deambulanti Piccioni elaborava le idee che poi sorridentemente, fermate in paginette pungenti, ci consegnava sulle soglie della tipografia per i fogli e gli opuscoli clandestini. Avevamo trovato il vero ideologo della politica e della resistenza ciellenista, e della risoluta e decisiva partecipazione ad essa dei cattolici.
    Piccioni fu, così, alle origini e al centro della impostazione dell’azione che a Firenze, nell’agosto del ’44, diede – per riconoscimento di tutto il mondo libero – il primo esempio di governo autonomo cittadino e regionale. Era un autogoverno, popolare e responsabile, che gli eserciti alleati trovarono già vivo e operante nella città liberata dai cittadini armati e dai partigiani. Era una realtà politico-civile che per prima diede alla liberazione il concreto valore appunto di liberazione e non di sostituzione di una occupazione straniera ad un’altra. Lo affermò e lo illustrò al primo governo dell’Italia democratica, solennemente ma con la sua solita punta di malinconia sorridente, proprio Attilio Piccioni sulla fine dell’agosto 1944.
    Eravamo giunti a Roma da Firenze dopo un avventuroso viaggio di tre giorni, su e giù per i greti dei fiumi senza ponti, serrati e schiacciati con Adone Zoli in una arroventata e scassatissima «Topolino».

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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    2. La stampa clandestina in Toscana

    La resistenza e la lotta ebbero nella stampa un ausilio continuo, poco appariscente, ma la cui diffusa e penetrante influenza è ancor oggi difficile valutare.
    Ricordo l’emozione con cui nei primi mesi del ’43 accoglievamo i fogli clandestini che si facevano sempre più numerosi e più frequenti: accanto all’«Unità» arrivavano da noi specialmente «L’Italia Libera» del partito d’azione, «Ricostruzione Liberale» di Bonomi, «Idee ricostruttive» della Democrazia cristiana.
    Fu proprio la circolazione ogni mese più fitta di questi periodici dalla parola libera ed ardita, che, insieme agli scioperi primaverili, diedero ai primi del ’43 anche agli strati più impigriti il senso che la fine del fascismo era vicina, e che non sarebbe avvenuta soltanto per intimo sfacelo o per l’urto esterno della guerra, ma anche per l’opera tenace e attiva delle forze interne antifasciste.
    Di fogli toscani, fiorentini però, eccetto qualche manifestino episodico e un numero dell’«Unità», non si poteva parlare: erano tutti di importazione romana o milanese.
    Fu soltanto dopo il 25 luglio che anche a Firenze, con l’illusorio tono semiclandestino che caratterizzò la vita politica di quei quarantacinque giorni, cominciarono a comparire giornali antifascisti: due numeri di «Socialismo», due numeri di «San Marco» a ispirazione democristiana, un numero di «Oggi e Domani» del partito d’azione. Vita breve, piena di incertezze e di sbandamenti, come ogni esperienza nuova dopo venti anni, e come tutti gli atti di quello sciagurato periodo. L’8 settembre piombò improvviso su questa effimera fioritura e sembrò raggelarla per qualche tempo: «San Marco», uscito proprio quel giorno fatale, portava un editoriale che si concludeva con parole che parvero poi profetiche: «… fino al martirio».
    La sorpresa, l’impreparazione alla lotta clandestina, l’illusione di una pronta liberazione, ritardarono sul principio l’organizzazione di una libera stampa: ritardo aggravato poi dall’arresto, ai primi di novembre, di tutto il Comando militare e di parte del CLN. Fu solo verso la metà del mese che quasi tutti i partiti riuscirono ad organizzare con una certa regolarità la loro stampa, a diffonderla in tutta la regione, a continuarla poi con una tenacia e un ritmo che ha del miracoloso; e che fu interrotto soltanto a quando a quando dagli episodi luttuosi della lotta (per esempio in gennaio-febbraio dalla sorpresa nazi-fascista nella Tipografia Dall’Omarino; in marzo, quella del Pd’A, dagli arresti in via Guicciardini).
    Il partito comunista pubblicava «L’Azione Comunista» (dal settembre 1943, nn. 12, e nn. 4 ed. murale durante l’emergenza: red. Barbieri, Baracchi, Bilenchi, Frizzi, Sacconi) e l’«Unità» (ed. della Toscana, che dal 24 giugno 1944 si staccò da quella dell’Italia settentrionale, nn. 6: red. quelli dell’«A. C.»), «Noi Donne» (ed. Toscana, dal giugno ’44, nn. 2), «Lotta Operaia» (febbraio ’44, n. 1); i socialisti avevano l’«Avanti!» (dal novembre ’43, nn. 7: red. Albertoni, Bruni, Lombardi), fiancheggiato poi dall’«Avanguardia», giornale giovanile (nn. 2); la Democrazia cristiana stampava «Il Popolo» (dal novembre ’43, nn. 9, con falsa data da Roma, e per questo con numerazione irregolare: red. Berti, Branca, Maggiora), cui si devono aggiungere «La Punta», organo giovanile (dal 15 giugno, cioè dal cessato arrivo della «Punta» romana, nn. 2: red. Branca, Strighelli, Zaccaro, Zoli G. C.), l’«Unione Proletaria Cristiana», foglietto operaio (nn. 2) e il «Raduno» del movimento femminile (nn. 6?); il partito d’azione faceva uscire «La Libertà» (dal 27 ottobre ’43, nn. 9; la numerazione comincia dal 2, essendo il n. 1 «Oggi e Domani»: red. Agnoletti, Codignola, T. Furno, Ragghianti) e «La Libertà del Lavoro», foglio operaio (nn. 2); il partito liberale aveva come suoi organi «L’Opinione» (dal 20 luglio 1944, nn. 6, quotidiano per quattro giorni, durante l’emergenza; numerazione iniziata col n. 3: red. Artom, Ciruzzi, Fantoni, Lepri) e «Movimento» per i giovani (nn. 2).
    La tiratura naturalmente variava di molto, sia per le sempre diverse possibilità tecniche, sia per il tipo del foglio: «Il Popolo», per esempio, giunse a novemila copie, l’«Azione Comunista» a ottomila.
    Accanto alle pubblicazioni periodiche, a mano a mano che la difficoltà delle comunicazioni rendeva quasi impossibile attingere alle centrali dei partiti, gli opuscoli di propaganda e quelli sui singoli problemi. Cominciarono a sorgere anche le collezioni di fascicoli: quelli di «Giustizia e Libertà» a cura del partito d’azione (nn. 4), la collana «Orientamenti e Problemi» a cura della Democrazia cristiana (nn. 5).
    A questa ricca e varia stampa di partito si aggiunsero presto anche alcune pubblicazioni di organizzazioni e di gruppi antifascisti diversi: «Il Combattente», organo delle brigate Garibaldi (dal marzo ’44, nn. 6); «La Giovane Italia», periodico del Fronte della Gioventù (dal marzo ’44, nn. 5: red. Cancogni, Sanguinetti); «L’Azione Sociale», rivista d’ispirazione sociale cristiana (dal 1° giugno, nn. 3: red. Santilli, Gelli, Torricelli).
    Ma un’azione simile ai periodici a frequenza più alta, anzi con una penetrazione forse anche più estesa ed efficace, fu esercitata soprattutto attraverso le migliaia di diversi foglietti e manifestini stampati continuamente, e coi quali a volta a volta ogni avvenimento generale o cittadino era seguito, commentato, inquadrato. Fu soprattutto attraverso di essi che il CTLN, anticipando già nel periodo clandestino le sue funzioni di governo, diede alla popolazione consigli, direttive, ordini, diffide. E organizzò, anche attraverso apposite pubblicazioni in tedesco, una campagna per provocare diserzioni nelle file naziste. Se il CTLN mancò di un suo proprio organo – già preparato col titolo «Fronte Nazionale» nel marzo dagli incaricati comunisti e democristiani, ma stroncato dall’arresto dei tipografi -, fu sempre presente colla sua parola di ammonimento e di conforto.
    Naturalmente oltre la stampa fiorentina – di cui in media giunsero a uscire due o tre giornali la settimana – arrivavano e circolavano fra noi i fogli antifascisti di altre parti d’Italia: soprattutto, in varie centinaia di copie, «Risorgimento Liberale» da Milano, «L’Italia Libera» da Milano e da Roma, l’«Unità» da Roma e Milano, «Il Popolo» e la «Punta» da Roma.
    Attraverso questa propaganda assidua e insistente, si giungeva a poco a poco a far penetrare nelle masse la consapevolezza che il fronte della resistenza effettivamente agiva, era presente ovunque, controllava le azioni di ognuno; che il CLN era l’unica autorità legittima; che le cose andavano ben diversamente dalle versioni ufficiali della stampa e della radio; che il popolo italiano, in tutte le classi, in tutte le regioni, si era finalmente risvegliato e lottava generosamente per il proprio riscatto, per la propria rinascita. Il capovolgimento, la vera rivoluzione operatasi nelle idee e negli atteggiamenti del nostro popolo, dalla sua posizione imbarazzata, apatica, intimidita dell’8 settembre, a quella di otto mesi dopo, degli ultimi tempi della lotta clandestina, fu in parte il risultato di quest’opera silenziosa e audace, attraverso la quale tutti gli eventi erano seguiti e commentati con spirito di democrazia combattiva.
    Si preparavano così i presupposti di una nuova coscienza civile: si preparavano in unità di intenti fra i partiti (non vi fu mai il minimo malinteso tra la stampa di tendenze diverse), e in una fusione di impegno fra intellettuali e operai. Mentre di notte, noi preparavamo, raccoglievamo, coordinavamo gli scritti, i tipografi, dopo le pesanti giornate di lavoro, tese le orecchie a cogliere ogni rumore, disposti i servizi di sorveglianza, lavoravano a corpo morto a comporre e a stampare. Bisognava terminare entro la notte: la stanchezza, il sonno, le difficoltà di ogni genere cedevano di fronte alla volontà tesa fino allo spasimo. Ed è caro ricordare oggi le tipografie Dall’Omarino e degli Artigianelli che successivamente accentrarono il maggior lavoro clandestino (la seconda preparò anche le cartelle del prestito e gli stampati per il momento dell’assunzione del potere); le tipografie Latini, Castrucci, Ortolani, Ariani e Meucci (di Prato), che lavoravano in varie occasioni per i partiti; ricordare l’entusiasmo delle maestranze, la loro collaborazione intelligente, audace, appassionata. Che ansia la mattina del 28 maggio quando si seppe che tutta una vasta zona d’Oltrarno era bloccata per rastrellamenti e perquisizioni sistematiche!
    La tipografia degli Artigianelli era proprio al centro della zona, e proprio la notte aveva stampato varie migliaia di nostri giornali. Ma verso mezzogiorno, puntuali, sorridenti, col loro triciclo carico dei nostri fogli arrivarono trionfanti i tipografi. Avevano calato per un finestrino tutto il pericoloso carico in un innocente giardino monacale; poi, dopo la perquisizione, lo aveva ripescato, e, fattisi autorizzare a un trasporto urgente di carte, erano passati tranquilli sotto gli occhi di SS italiane e tedesche.
    L’organizzazione del settore clandestino della stampa – che si sobbarcò anche il pesante e rischioso compito di tutte le falsificazioni di carte, permessi, moduli, ecc. – avevano nel maggio raggiunto una tale efficienza che ormai i giornali antifascisti si presentavano in veste tipografica più ricca e ampia degli stessi quotidiani repubblichini. Fin d’allora il CTLN, valendosi di tale eccezionale esperienza, cominciò a preparare concretamente il suo organo per i giorni della libertà. La concordia e lo spirito di superiore collaborazione dei vari partiti – che rinunciarono ad ogni quotidiano loro proprio – permisero di gettare le basi di un giornale, del primo giornale di CLN: quello che sarà «La Nazione del Popolo».

    (...)
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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    3. Due episodi vissuti sotto la folle cometa agostana di 40 anni fa

    a) La battaglia di Firenze

    «Ermengarda»: il nome dell’eroina manzoniana sussurrato faceva schiudere i sorvegliatissimi accessi dello scantinato di via Santa Reparata 14, la porticciola di via della Condotta 8, la scaletta di via Roma 4 alla crocerossina Adina, al medico in camice bianco Ugo, al prete Carlo in cotta. Ci si affacciava allora ansiosi dalla vita catacombale, o meglio da topi di cantina, cui dal venerdì 3 agosto ci avevano costretto a Firenze i successivi bandi del Comando tedesco. «Le pattuglie delle Forze Armate Germaniche hanno l’ordine di sparare contro le persone che verranno trovate sulla strada oppure che si mostreranno alle finestre». Si raccomandava poi di ritirarsi nelle cantine, negli interrati, negli ammezzati; o era ordinato già dal 30 luglio lo sgombero delle zone lungo l’Arno per la profondità di circa 300 metri. Mentre le file di carretti a mano, di carrozzine infantili stracolme, e le mandre di uomini e donne sovraccarichi e terrorizzati erano risospinte dalle SS e dalle guardie fasciste lontano dai Lungarni, molti nell’ospitale palazzo del cardinal Dalla Costa o nei conventi o nelle scuole o in case amiche, si erano incrociati angosciosi gli interrogativi. «Ma perché questo cacciarci dal centro della città che non ha nessuna importanza militare?», «Vogliono ridurci a sorci nelle cantine?», «E come si può sopravvivere senza circolare». «Ma le autorità italiane non dicono, non fanno nulla? se ne sono già scappate?».
    I fragori laceranti di una serie di scoppi di enormi mine aveva tolto ogni dubbio nella notte fra il 3 e il 4: notte da venerdì di passione per Firenze. I ponti, eccetto Pontevecchio, i ponti capolavoro sull’Arno, anche quello di Michelangelo, erano stati fatti saltare; strade trecentesche d’accesso all’Arno, come Por Santa Maria e via Guicciardini e Borgo San Jacopo, erano ridotte a cumuli di macerie. Dagli abbaini donde ci affacciammo, malgrado i divieti, alle prime luci dell’alba del 4 Firenze appariva squarciata e inanime come una bellissima martire violata e sventrata dai suoi aguzzini. «Buio, per noi, e terrore E crolli di altane e di ponti Su noi come Giona sepolti» mormorava Montale. «Meglio star sotterrati, chiusi nel buio – diceva mia moglie – che veder quello scempio». Meglio star chiusi, sì, cercando di sopravvivere, senza gas, senza elettricità, senza telefono, senz’acqua, lesinando le piccole provviste che si erano potute fare, contando sulle donnette coraggiose che strisciando lungo i muri cercavano di aver acqua da qualche pozzo o da qualche fonte privata.
    Ma alla cantina magazzino di Santa Reparata, dove in un labirinto di cumuli di libri scolastici ci eravamo nascosti noi incaricati della stampa e propaganda dal Comitato di Liberazione, la domenica 5 Adina, travestita da crocerossina, portava l’attesissima notizia e una speranza nuova. «I partigiani delle brigate Sinigallia e Arno hanno occupato l’Oltrarno, vi sono arrivate anche le avanguardie dell’VIII Armata britannica, quelle già incontrate dal nostro Alessandro Medici. Un partigiano, l’amico Fischer, ha giocato un tiro maestro ai nazisti che occupano ancora il centro e la periferia nord della città. Strisciando fra le macerie e le mine ha fatto passare un filo telefonico lungo il corridoio aereo di Ponte Vecchio e collegato così il Comitato di Liberazione e il suo Comando militare coi partigiani e gli alleati di Palazzo Pitti e con Francesco Berti restato là a rappresentare il CTLN». «L’abbiamo fatta a Hitler e a Wolff» ghignava il comunista, capitalista dell’Arrigoni, Bruno Sanguinetti che divideva il mio giaciglio.
    Era quasi più difficile il collegamento fra noi in via Santa Reparata, il Comitato in via della Condotta, il suo Comando militare in via Roma. Nella città deserta dal terrore, stremata dalla fame e dalle privazioni, lacerata dalle bombe e dalle sventagliate di mitra dei dominatori esasperati perché in extremis, quei tre punti rappresentavano la veglia e la vita: una vigilia fervida di azione e di battaglia. E in quelle giornate di terrore e di attesa fra il 5 e il 10 si intrecciava vivo e appassionante il dibattito politico. Vi portava un contributo di esperienze eccezionali anche in mio compatriota, Sandro Pertini, infiltratosi nella Firenze già in emergenza bellica; vi partecipavano con messaggi recapitati avventurosamente Adone Zoli, Eugenio Artom e Renato Branzi, rimasti bloccati dai tedeschi.
    Si doveva attendere che alleati e partigiani provatissimi dall’Oltrarno forzassero gli schieramenti tedeschi o si doveva tentare subito la carta dell’insurrezione, colle due migliaia di «volontari della libertà», pur inesperti e male armati, di cui disponeva il Comitato di Liberazione? Era un rischio grande, e grande era la responsabilità verso la popolazione civile. Tutti ne erano consapevoli, ma tutti volevano egualmente evitare che si ripetesse ancora l’avvilente storia della liberazione solo e tutta donata dagli eserciti angloamericani, colla partecipazione del popolo soltanto ai viveri, alle sigarette, alla cioccolata. «Forse Firenze pagherà un prezzo alto per il suo riscatto, ma lo deve pagare per sé, per aprire la strada materiale e morale ai fratelli del Nord, per assicurare un avvenire al nostro popolo» diceva Enzo Enriques Agnoletti. Potevamo certo, attraverso quel famoso corridoio di Ponte Vecchio, rimasto miracolosamente sconosciuto ai nazisti, trasferirci facilmente in Oltrarno, collaborare coi partigiani e gli alleati. Unanime fu invece la decisione di rimanere nella Firenze ancora occupata: «finché ci potremo insediare in Palazzo Riccardi come Governo provvisorio» affermava con candida sicurezza Foscolo Lombardi. Credeva sinceramente, su una dichiarazione un po’ sibillina del governo Bonomi captata parzialmente dalle nostre radio, come il Comitato avesse questo diritto e questo dovere. Era del resto la convinzione di tutti noi, che poi si dimostrò falsa: falsa ma che fu provvidenziale. Per il corridoio di Ponte Vecchio Fischer e Ragghianti portarono notizia della nostra decisione Oltrarno, con sicura fierezza, ma fra le differenze più ostili che perplesse degli Alleati.
    Crocerossine, medici, preti, più o meno autentici, ecco irradiarsi subito da Santa Reparata coi bollettini di informazione e di servizio ai Comandi delle 4 zone cittadine e delle brigate partigiane Rosselli e Lanciotto già penetrate nascostamente in città: tenersi in stato di allarme, attendere l’ordine di operazione, il segnale dell’insurrezione al suono a martello della campana di Palazzo Vecchio.

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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    Un rotolar di carri e di artiglierie sempre più intenso squarcia il silenzio delle vie il 10; si dirigono oltre i viali di circonvallazione, verso la parte collinosa a Nord. Un rombo segnala fra notte e primo giorno dell’11 il salto dei ponti sul Mugnone, subito al di là di piazza Cavour. Alle 0,10 è diffuso l’ordine delle operazioni; alle 6 il comandante militare colonnello Nello Niccoli dà il segnale dell’insurrezione e suonano a martello la Martinella da Palazzo Vecchio e la campana del Bargello; escono d’impeto i volontari della libertà, che occupano Palazzo Riccardi: vi si insedia alle 8 il Comitato di Liberazione con in testa il suo presidente, Carlo Ludovico Ragghianti.
    La battaglia di Firenze è cominciata: durerà per venti giorni fino al 1° settembre, quando le camionette e le autoblinde della VIII Armata rimpiazzeranno in prima linea, facendo perno sulla Lastra, partigiani e volontari della libertà. È una battaglia dura che costa la vita a un mezzo migliaio di insorti; una battaglia combattuta fra vie e piazze, fra case e giardini, fra tetti e campanili. Il fronte di combattimento si confonde coi nomi delle nostre passeggiate più care e degli appuntamenti familiari: la più consueta topografia cittadina entra nei bollettini di guerra. «Piazza San Marco sorpassata», «Carri armati tedeschi scendono in via San Gallo», «Piazza Cavour aspramente contesa», «Il Parterre conquistato, perduto, riconquistato», «Contrattacco in piazza Donatello». È l’unica lunga, aspra battaglia combattuta dentro una città nostra, vissuta nella poesia di Saba, di Montale, di Lisi, visualizzata da Rossellini con la più disadorna epica.
    Ma quella decisione del Comitato di Liberazione, quella battaglia casa per casa, rappresentano anche, come telegrafano subito Cecil Sprigge alla «Reuter» e Christopher Lumby al «Times», «la più dignitosa e la più drammatica delle liberazioni». C’erano i morti per le strade, c’erano i fucilati dell’ultima ora (anche due giovani vitalissime nostre staffette, Annamaria e Tina), c’erano le case cannoneggiate, c’era una popolazione portata allo stremo dai saccheggi e dalle violenze della soldataglia in rotta, dalla distruzione di ogni servizio – persino dell’acquedotto -, dalla fame e dalle epidemie. Ma c’era anche nei fiorentini la fierezza e la consapevolezza di una libertà conquistata se non da loro soli almeno non senza di loro.
    Quando il 14 agosto le truppe alleate iniziano il passaggio dell’Arno e i primi stupefatti neozelandesi sono gioiosamente salutati dai rifugiati nel Palazzo Arcivescovile, solo allora il designato governatore militare colonnello Rolph e il capitano Lonman si affacciano a Palazzo Vecchio e a Palazzo Riccardi per insediarsi. Ma trovano la giunta comunale col suo sindaco Gaetano Pieraccini e il suo vicesindaco Adone Zoli (che aveva attraversato le linee tedesche in barella, come pericolosissimo appestato, accompagnato dal solito medico e dalla solita crocerossina), la giunta provinciale col suo presidente Mario Augusto Martini, il Comitato di Liberazione, tutti già impegnati in una serie di provvedimenti d’emergenza, già padroni delle amministrazioni e delle situazioni, già al lavoro – e con successo – per rimediare alle più diverse esigenze – da quelle annonaria e sanitaria a quelle epurative e giudiziarie -, già in cordiale contatto colla popolazione attraverso manifesti, bollettini, giornali, riunioni e discussioni pubbliche.
    È un fatto completamente nuovo dopo che anche a Roma, anche a Siena, anche a Arezzo gli alleati si erano abituati a imporre, nel vuoto di autorità e di capacità di autogoverno delle popolazioni, i loro uomini e i loro candidati nelle amministrazioni locali. Già il 15 agosto l’organo ufficiale del Governo Militare comunica: «Il col. Rolph ha espresso l’intenzione di lavorare a fianco del locale Comitato di Liberazione Nazionale dicendosi sicuro che i suoi uomini sono bene accetti alla cittadinanza tutta e che se elezioni popolari dovessero aver luogo in Firenze i cittadini confermerebbero il loro favorevole giudizio, dato lo splendido lavoro svolto dal Comitato per il benessere della popolazione nel periodo dell’occupazione tedesca e durante i primi giorni della liberazione della città. In riconoscimento dell’eccellente lavoro svolto dai membri del Comitato, il Commissario ha dichiarato che egli preferirà trattare con essi piuttosto che con la locale aristocrazia che non ha fatto nulla per la città durante l’attuale crisi».
    È un’affermazione nuova nella nuova storia d’Italia. Rolph non teme di smentire la linea «aristocratica» seguita fino allora dagli alleati per una linea tutta democratica, di rispetto all’impegno e alla volontà del popolo: di un popolo che aveva combattuto e che si era dimostrato capace di insorgere e di autogovernarsi.
    La battaglia di Firenze fu per questo vinta su tutta la linea dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale. Non importa se, sotto la folle cometa agostana, Firenze, libera per virtù propria, «taceva assorta nelle sue rovine», come cantava Saba. Non importa se i suoi partigiani e i suoi volontari, decimati e stremati, vengono dagli alleati congedati rapidamente: non come i garibaldini dell’Abba al suono della banda dei granatieri, ma fra le musiche enfatiche dei dischi di un radiofurgone. L’auspicio di Agnoletti si è avverato: l’esperienza di Firenze è la premessa diretta del riconoscimento, da parte degli Alleati, dei CLN e dei Volontari della libertà ottenuto da Parri a Caserta nel novembre 1944.
    Mormora una donnina, facendo la coda per l’acqua in via San Gallo domenica 20 agosto, «s’è avuto morte, desolazione, fame, ma finalmente c’è speranza nell’aria».

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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    b) Nascita di un giornale di libertà

    Un quotidiano usciva l’11 agosto stesso nella Firenze ancora contesa fra tedeschi in ritirata e volontari della libertà inesperti e male armati. Mentre i panzer nazisti continuavano a scendere fino a San Marco e a via San Gallo, proprio nella stessa via si stampava «La Nazione del Popolo», il giornale del Comitato di Liberazione Nazionale. Mancava la corrente elettrica, le linotypes e le rotative non potevano funzionare. Eppure quell’11 agosto stesso il quotidiano appariva in due edizioni, andava a ruba fra la popolazione affamata sì di cibo ma anche di libertà e di verità.
    Sembrava un miracolo: era solo la realizzazione di un progetto preparato, lungo due mesi di lavoro, in una stanzetta di piazza Pitti.
    Carlo Levi vi sedeva al centro, a sghembo sulla sedia, succhiando la sua eterna pipa e brontolando continuamente davanti a una bottiglia d’acqua ritta su un tavolo come un feticcio. Giacomo Devoto con la sua lucida e implacabile dialettica cartesiana sezionava e analizzava ogni idea e ogni frase che si dicesse. Ranuccio Bianchi Bandinelli, il conte rosso, con le sue profonde conoscenze della mentalità germanica pacatamente toglieva speranze e illusioni.
    Arturo Bruni, un fedele di Pertini, parlava serenamente con la sua umanissima esperienza di maestro di scuola messo al bando dal fascismo. Chi oggi scrive – unico superstite – si ingarbugliava con Maritain e Mounier e il personalismo, tutto dedito com’era stato fino allora alla filologia. Su in quella aerea stanzetta, dove ogni tanto si affacciava angosciato e fanciullesco il clandestinissimo Saba, quei cinque avevano fra giugno e luglio preparato un quotidiano tutto nuovo, voluto dalla concordia discors dei cinque partiti (d’azione, liberale, comunista, socialista, democristiano) del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.
    Erano cinque persone che non avevano, non dico fatto, ma neppure mai collaborato redazionalmente a un giornale.
    Sapevano di pittura e di medicina, di linguistica e di glottotecnica, di arte e di archeologia, di pedagogia e di didattica, di critica letteraria e di filologia. Ma parlare di flani, di giustezze, di rotative doppie e semplici era evocare per loro un mondo lontano, conosciuto soltanto per sentito dire, favolosamente. Eppure discutevano appassionatamente per fare e di fare un giornale: anzi l’unico giornale che a loro giudizio – e a loro sogno – potesse dare voce adeguata alla nuova Italia che si stava ormai creando nel sacrificio e nel sangue.
    Si sentivano candidamente sicuri di riuscire: «Al di là di ogni feticismo di tecnica, spesso pretesto a tirannie senza fine», affermava colla sua voce pastosa Carlo Levi, «riusciremo a fare un giornale non come quelli romani, specchi di antiche mentalità e di divisioni politiche, ma espressione dell’unica e unitaria nuova realtà politica creata in questi mesi dal nostro popolo: i Comitati di Liberazione, e la coscienza del fronte e della volontà nazionale da loro espressi». «Faremo» replicava Bruni «del nostro quotidiano, non soltanto negli articoli e nei servizi ma anche nella struttura, un esempio di quello che deve essere un giornale libero, al servizio della verità e a vantaggio del popolo».
    La stanzetta affacciata su Palazzo Pitti risuonava delle discussioni più violente e appassionate, come devono essere quelle fra esponenti di ideologie diverse. Ma poi quei cinque si accorgevano di mirare, fondamentalmente, tutti alle stesse mete. Si sottoponevano alla fatica di scrivere per prova ognuno un articolo sullo stesso argomento; e poi si trovavano d’accordo a riconoscere tutti e cinque gli articoli accettabili come visioni legittime e interessanti da cinque punti di vista diversi.
    La loro inesperienza e le loro illusioni non significavano però presunzione. «Abbiamo assolutamente bisogno di consiglieri e collaboratori esperti, di giornalisti provati, non compromessi, aperti e fedeli ai nostri ideali» sbottò, superando il solito esclusivismo della sua fiducia razionalistica, Devoto. Ed ecco affacciarsi nella camerula Oltrarno Romano Bilenchi e Raffaello Palandri, amici fidati che lavoravano nell’azione patriottica clandestina entro la roccaforte stessa della «Nazione» repubblichina. «L’organizzazione redazionale è già preparata» ci dicevano; «gli operai stanno predisponendo i piani per salvare il macchinario; anche una stazione radiotrasmittente è pronta a entrare in funzione» (e noi pensavamo con angoscia dolorante a quella di Italo Pinagli massacrato pochi giorni prima coi suoi da nazisti e fascisti).
    E da loro fu paracadutato un giorno fra la nostra balda inesperienza una specie di mago del giornalismo, con una sua decisiva esperienza al centro del «Corriere della Sera», piccolo, biondo, mobilissimo ed elegantissimo: Bruno Fallaci. Ci introduceva nei misteri dell’impaginazione e della titolazione: sperimentavamo con lui, su foglioni di cartaccia e con virtuosismi di lapis rossi e blu, possibili impostazioni di numeri del nuovo quotidiano; studiavamo da apprendisti, sulla base delle attrezzature della «Nazione», i caratteri disponibili, i rapporti e gli equilibri delle colonne, i tempi delle rotative, i modi di diffusione.

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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    Ma tutto questo servì a poco. La spaccatura di Firenze fra Arno e Oltrarno dal 3 agosto, la lunga occupazione tedesca della parte nord della città non permisero né a Devoto né a Bruni né a Fallaci di raggiungerci nei primi giorni. L’edificio e gli impianti della «Nazione», occupati subito l’11 da una squadra di partigiani e dai giornalisti e dai tipografi stessi, risultarono inutilizzabili, sia per i vandalismi dei tedeschi, sia per l’assenza di energie elettrica e d’acqua.
    Che fare? «Andiamo tutti alla tipografia Ariani, in via San Gallo, dove già abbiamo materiali utili, e tipografi amici» propongo nel crepitio dello scambio di fucilate tra franchi tiratori nazifascisti e partigiani anche in via Ricasoli. Da Ariani di corsa, dunque, giornalisti e tipografi: gli uni a scrivere quel poco che si può scrivere, gli altri a studiare il modo di stampare il giornale. Comporre a mano si doveva e si poteva evidentemente: ma per la tiratura? Un proto si fa avanti con un’idea geniale.
    «Prendiamo una Balilla, solleviamo col cricco le ruote del treno posteriore, colleghiamone una con una puleggia alla ruota d’azione di una macchina piana: e poi ci penso io… a far l’autista di una Balilla stampatrice. Voi intanto» e si rivolgeva bruscamente a Bianchi Bandinelli, a Carlo Levi e a me quali condirettori «pensate a scrivere e a far scrivere».
    Non è semplice nella confusione generale, nell’accavallarsi di notizie diverse e contraddittorie, nell’ansia che ci stringe alla gola per la battaglia di Firenze ancora incerta. «Cominciate a comporre questi testi già pronti» grida Carlo Levi porgendo ai compositori le liste delle cariche pubbliche, i proclami del CTLN e del Comune, le ultime notizie stenografate da Radio Londra, un pezzo di comodo, scritto da tempo, sul Corpo Italiano di Liberazione.
    I cronisti sono subito al lavoro; Bianchi Bandinelli si impegna in un articolo sull’amore distruttivo di Hitler per Firenze; io nella presentazione del giornale come voce effettiva del popolo e per il popolo e nel finestrone di saluto agli Alleati. Sono frastornato e emozionato: mostro a Ranuccio, già mio maestro di archeologia a Pisa, i due pezzetti: «Un po’ tromboni, ma oggi ci voglion così» mi sorride indulgente e comprensivo dall’alto della sua aristocrazia raffinatezza.
    Siamo fra i tipografi e giornalisti che hanno spesso abbandonato il moschetto per impugnare pazienti il compositoio e le pinze gli uni, i foglietti dei reporters sguinzagliati sul fronte dei viali e la penna gli altri. Lopez, il più abile dei compositori, non ne può più dal sonno per le tre notti passate in agguato presso una caserma tedesca col figlio accanto; Panteri, il capocronista, sente ancora il gemito del fratello Rodolfo cadutogli accanto un uno scontro al ponte del Pino coi tedeschi; Carlo Levi nel suo apparente olimpico distacco pensa a un suo bimbo morente per gli stenti dell’emergenza: tutti trepidano per i loro cari, mentre in quell’estremo lembo di Firenze liberata si è a cinquanta metri dalla linea del fronte, in balia dei panzer che rientrano nel centro della città quando vogliono senza che vi sia possibilità alcuna di ostacolarli. Eppure tutti lavorano con una concorde rapidità che è concorde armonia di spiriti. Così il nuovo giornale, il primo – e restato unico, credo – quotidiano unitario di Comitato di Liberazione Nazionale esce quello stesso primo giorno di libertà conquistata dai fiorentini. Esce in doppia edizione, normale e murale, per dare al popolo l’annuncio della liberazione e le prime notizie della nuova vita, per portare ai combattenti per la libertà conforto e incitamento, per salutare amichevolmente le truppe alleate: per far sentire soprattutto che una nuova vita, la vera vita, quella della libertà e dell’autogoverno, è finalmente sbocciata anche a Firenze.
    Mai come in quelle prime ore e in quelle prime notti in cui tutti lavoravamo gomito a gomito nello stanzone della tipografia Ariani, alla luce tremolante e scarsa delle candele, tra gli scambi di raffiche delle pattuglie nazifasciste e sotto il tiro delle artiglierie e dei carri armati, sentimmo che stava nascendo il nuovo giornalismo italiano. Non era più strumento di dominazione, di avvelenamento dell’opinione pubblica, perché nasceva direttamente dal generoso e rischioso impegno dei foglietti clandestini, delle discussioni appassionate nelle carceri e nei vari rifugi. Sentiva, questo nuovo giornalismo, come prima sua missione quella di educare il popolo alla libertà e alla giustizia, senza rancori e senza vendette; e come suo primo intento quello di servire alla verità, a tutte le verità.
    Avevamo fissato queste mete nel programma steso a metà luglio: le pubblicammo subito, squillantemente, in apertura del secondo numero di sabato 12 agosto accanto alle più quotidiane, ma necessarie e vere raccomandazioni di viver civile e di domestico autogoverno («Troppi mucchi di spazzatura per le vie! La maggior parte potrebbe esser ridotta o soppressa solo che i cittadini si prendessero cura…», «Cimiteri provvisori sono stabiliti nel Giardino dei Semplici…», «Farina ai panificatori in centinaia di sacchi fatti affluire di qua d’Arno», «Domani pane grammi 100 a L. 2,50 al Kg»).
    Ma il 13 – quando ci avevano raggiunti anche Bruno Sanguineti e Alberto Albertoni (sostituti di Bianchi Bandinelli e Bruni) la sfortuna si chiamò tenente Griggs, direttore del «Corriere Alleato». Irruppe in tipografia con la Polizia militare, sequestrò il numero 3 già tirato, proclamando il divieto assoluto da parte del comandante dell’VIII Armata a qualsiasi giornale che non fosse il «Corriere Alleato».
    I nazisti non avevano potuto impedirci di fare e di far circolare la nostra stampa; lo impedì invece un miope e troppo zelante ufficialetto. Anche per noi, come per i partigiani, una melanconica smobilitazione imposta da quelle che chiamavamo truppe di liberazione. Ritornammo alla clandestinità, alla circolazione di bollettini e volantini da mano a mano, per venti giorni ancora colla polizia alle calcagna e la minaccia di carcere da parte dei vari tenenti Griggis.
    Ma ci fu la Provvidenza, questa volta nelle vesti di un colonnello della famiglia reale, capo dei servizi stampa e propaganda: il 30 agosto la «Nazione del Popolo» ritornava nelle edicole a riprendere la sua missione di voce della nuova coscienza nazionale e del popolo fiorentino liberatosi combattendo[1].

    (...)


    [1] La condirezione della «Nazione del Popolo» nel periodo clandestino e nel primo mese fu tenuta da: Vittore Branca, Arturo Bruni (alternandosi con Alberto Albertoni), Giacomo Devoto (alternandosi con Vittorio Santoli), Carlo Levi, Bruno Sanguineti (alternandosi con Ranuccio Bianchi Bandinelli).
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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