4. Rinnovamento culturale: «Il Ponte»
La nascita del «Ponte» nel ’44 stesso e la sua prima vita fra il ’45 e il ’46 corrispondono a un momento politico-culturale irripetibile; e nello stesso tempo segnano una svolta risoluta nella tradizione fiorentina del pieno Novecento. È una svolta coerente e in parte conseguente alla svolta civile determinata dalla guerra e dalla nuova realtà democratica.
A una prevalenza letteraria sempre accentuatasi dalla seconda «Voce» a «Letteratura» e a «Campo di Marte», succede un impegno più vasto – preannunciato nel ’42 da «Argomenti» - che mira soprattutto alla civiltà, a contribuire a crearla ex novo.
A un’epoca prevalentemente apollinea, di una Firenze laurenziana – polizianea, succede un’epoca savonaroliana, di impegno soprattutto morale anche nella cultura, in cui impostazione religiosa e impostazione laica si incontrano, in cui La Pira e Calamandrei operano insieme e convergono, in cui S. Marco e Università, S. Maria Novella e Palazzo Strozzi si riconoscono nella loro realtà e collaborano strettamente.
Firenze nell’agosto del ’44, nei giorni della sua battaglia autonoma per la liberazione, rivelò un volto nuovo dell’Italia tormentatissima. Lo rivelarono subito i corrispondenti anglo-americani più intelligenti, come Cecil Sprigge e Christopher Lumby, vi insistettero «Times» e «New York Herald» e «Manchester Guardian», e l’Agenzia «Reuter».
Una città italiana riuscita a liberarsi da se stessa l’11 agosto grazie alle sue forze partigiane organizzate; per la prima volta le truppe alleate quando vi entrarono, qualche giorno dopo, trovarono istituzioni e cariche pubbliche funzionanti per volontà concorde di popolo; per la prima volta, nell’Italia liberata, militari e cittadini lessero non una pletora di giornali di vari partiti, ma un unico quotidiano, «La Nazione del Popolo», voluto e diretto concordemente dalle forze politiche riunite nel Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.
Questa situazione nuova, che prefigurava solo in parte quella di un anno dopo nell’Italia del Nord, era il risultato di un lavoro e di una scelta politica, sì, ma anche culturale.
L’incontro e la coesione delle varie ideologie e movimenti in un ideale di rinascita civile avevano caratterizzato gli anni della guerra: la pace e la libertà, il rispetto della persona umana, il pane e il lavoro per tutti erano ideali identificati dai circoli culturali e che accomunavano le diverse classi. A S. Marco attorno alla rivistina impavida di La Pira, «Principi», nel caffeuccio di piazza Cavour, uno dei centri dei radicali «Argomenti», nella sotterranea libreria a S. Giovannino del comunista Montelatici, fra i diseredati e gli emarginati riuniti la domenica a S. Procolo, si trovavano con animo fervido quasi le stesse persone, impegnate con ideologie diverse nell’affermazione degli stessi valori (oltre a La Pira e Calamandrei e Pieraccini e Zoli, letterati e uomini di cultura, da Luporini e Bilenchi a Bargellini e Betocchi e Lisi, da Barile e Ramat a De Grada e Noventa, a Pancrazi che mi diceva che in La Pira vedeva l’immagine dell’uomo che avrebbe voluto essere).
E anche le imprese più tradizionalmente fiorentine in senso letterario-accademico, sino alla pubblicazione dei classici italiani, avevano assunto un sapore e un significato risentito e allusivo. Pietro Pancrazi, insieme a chi scrive, aveva ripreso la «Biblioteca Nazionale» di Le Monnier, fatidica nel nostro Risorgimento con quei suoi volumi, dalla copertina rosa, che spuntavano dagli zaini dei volontari di Curtatone e Montanara e poi delle battaglie del ’59-’60.
Le storie di Fra Michele e di Pietro Paolo Boscoli e delle loro morti per la libertà, i testi di Alfieri, Beccaria, Mazzini e anche quelli antichi di Luciano e Svetonio (presentati da Bianchi Bandinelli e Marchesi) parlavano con voce chiara alle coscienze: erano davvero messaggi di «quei nostri grandi morti che facevano tanta paura ai vivi» (come aveva scritto Antonio Ranieri, cento anni prima, in una pagina soppressa dalla censura dinanzi all’edizione di Leopardi).
Anche «Il Ponte» nacque da questa convergenza di volontà diverse nel voler fare della cultura e della letteratura motivo di ricostruzione morale: di ricostruzione della personalità umana nel senso più libero e responsabile. Ancora in periodo clandestino, nel terribile inverno ’43-’44, quando, dopo gli arresti del primo CLN, lo ricostituivamo in continue peregrinazioni ciclistiche, sotto la sferza della necessità di un unico e primario impegno – la libertà e la ricostruzione d’Italia – si affermava anche la necessità di un unitario strumento di informazione e di formazione: di un unico quotidiano, che ebbe il titolo «La Nazione del Popolo», in cui trovasse espressione la volontà unitaria dei vari movimenti, dal liberale al comunista. Era un’esigenza chiara, seppur chiaramente limitata nel tempo, cioè fino a che l’espressione degli italiani nelle votazioni potesse dare voce proporzionalmente autorizzata alle varie ideologie.
Ma si manifestava allora anche un’esigenza di più vasta portata: dare una base più impegnata culturalmente a questa volontà di ricostruzione nella libertà e nel rispetto della persona umana. E questa base non poteva venire che da un incontro di persone capaci di provocare e sollecitare un ripensamento totale dei valori della cultura, come valori di vita e di civiltà: al di là e al di sopra del tradimento di molti intellettuali – anche a Firenze, anche nell’Università – di fronte al fascismo, al nazismo, al razzismo.
Così nacque l’idea e il titolo stesso del «Ponte» nella primavera del ’44, soprattutto nelle conversazioni fra Pietro Pancrazi, Giorgio La Pira, Carlo Levi, Eugenio Montale, Luigi Dallapiccola, Ranuccio Bianchi Bandinelli, chi scrive e altri (e anche qualcuno allora lontano, come Calamandrei).
Avevamo allora scritto in un appunto che poi, quasi nella stessa forma, comparirà nel primo numero della rivista:
In questo titolo, «Il Ponte», non c’è soltanto il proposito di contribuire a ristabilire nel campo dello spirito, al disopra della voragine scavata dal fascismo, quella continuità tra il passato e l’avvenire che porterà l’Italia a riprendere la sua collaborazione al progresso del mondo; non c’è soltanto la ricerca di archi politici che aiutino la libertà individuale a ricongiungersi colla giustizia sociale, l’autonomia delle regioni coll’unità della nazione, la coscienza della patria italiana colla grande patria umana di cui tutti gli uomini sono cittadini. Ma c’è, sopra tutto, il proposito di contribuire a ricostruire l’unità morale dopo un periodo di profonda crisi consistente essenzialmente in una crisi di disgregazione delle coscienze, che ha portato a far considerare le attività spirituali, invece che come riflesso di un’unica ispirazione morale, come valori isolati e spesso contraddittori, in una scissione sempre più profonda tra l’intelletto e il sentimento, tra il dovere e l’utilità, tra il pensiero e l’azione, tra le parole e i fatti.
Noi pensiamo che bisogna d’ora in avanti lottare in tutti i campi per ricostruire l’unità e la sincerità morale dell’uomo, e ricominciare a sentire che tutte le manifestazioni dello spirito umano, anche quelle artistiche e scientifiche, anche – ed anzi sopra tutte – quelle politiche, non hanno valore se non sono illuminate dalla fiamma interna di una fede coerente ed intera. Nell’inaridimento delle coscienze, che sotto una lussureggiante retorica e sotto una ingegnosa dialettica nasconde la più desolata incredulità in ogni regola e in ogni valore eterno, la vita si era degradata a scettico materialismo o a cieco attivismo: isolato nel suo egoismo l’uomo è sceso a considerare gli altri uomini come cose al suo comando, create per essere sfruttate e per essere gettate via quando non servono più.
Con questo programma, mentre ancora Firenze era in molte parti un cumulo di macerie, senza acqua né luce, mentre il fronte era bloccato a pochi chilometri dalla città, presentai nel settembre del ’44 agli uffici competenti del Governo Militare Alleato la domanda di pubblicare la rivista «Il Ponte».
Calamandrei, rientrato nel frattempo da Amelia (dove era restato da settembre ’43) e da Roma, presentava anche lui, nel dicembre, domanda per una rivista, come egli scriveva, «letterario-politica» «tipo Nuova Antologia d’un tempo» e faceva i nomi di Pancrazi, Momigliano, Bianchi Bandinelli, Tumiati, Bertolino e di chi scrive come segretario di redazione.
Ma negli indugi e nelle more opposte dagli Alleati all’idea di una rivista forse per loro troppo libera e troppo autorevole, ci trovammo d’accordo a fondere i due progetti: l’uno più giovanile e figliato più direttamente dalla Resistenza, l’altro più autorevole e che si riattaccava alla resistenza morale degli uomini del prefascismo come Pancrazi, Momigliano, Tumiati (cfr. Lettere di Calamandrei, Firenze, 1968, II, pp. 36 sgg.).
Ottenuta finalmente l’autorizzazione, nell’inverno ’44-’45, mentre ancora i cannoni tuonavano sull’Appennino fiorentino e i «Tigre» sbocconcellavano ancora i marciapiedi di Firenze, si incominciava a preparare il «Ponte» in riunioni con Montale, Saba, Levi, Berenson, Momigliano, Loria, La Pira, Pancrazi, Levasti, Tumiati, Enriques Agnoletti, Bertolino, Fossi, Ragghianti, Piccioni, Paoli, Bilenchi, Santoli, Devoto, Bianchi Bandinelli, Alessandro Levi, Dallapiccola e anche i più giovani Coccioli, Parronchi, Luzi, Cassola, Cancogni, Pieraccioni, Meucci, Strigelli… Ci si riuniva in via San Gallo 33, presso l’editore Le Monnier che aveva assunto l’impresa: dove era stato stampato avventurosamente tutto a mano, l’11 agosto (la mattina della liberazione di Firenze, al suono della Martinella) il primo numero della libera «Nazione del Popolo».
Era una coincidenza topografica che aveva valore emblematico e augurale. Perché dall’esperienza di quei mesi alla «Nazione del Popolo» - diretta da Albertoni, Branca, Levi, Sanguineti, Santoli e cui collaboravano tutti quegli amici (anche Saba con canzoni programmatiche, anche Montale con poesie allusive e nella routine di critico teatrale) – la tensione morale verso l’idea personalistica era uscita rafforzata nella dialettica continua, ma schietta e comprensiva, tra le diverse ideologie.
Non ci si era irrigiditi nelle varie posizioni partitiche o nei contrasti manichei che ci portavano invece continuamente i periodici romani. Persino la «Nuova Europa», nata generosamente con simili intenti e privilegiata da alte collaborazioni, era diventata sempre più voce del partito che vantava allora una leadership culturale, il partito d’azione, e dei vari movimenti socialisti. Altri periodici si erano afflosciati in funzioni antologiche o semplicemente informative.
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