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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    4. Rinnovamento culturale: «Il Ponte»

    La nascita del «Ponte» nel ’44 stesso e la sua prima vita fra il ’45 e il ’46 corrispondono a un momento politico-culturale irripetibile; e nello stesso tempo segnano una svolta risoluta nella tradizione fiorentina del pieno Novecento. È una svolta coerente e in parte conseguente alla svolta civile determinata dalla guerra e dalla nuova realtà democratica.
    A una prevalenza letteraria sempre accentuatasi dalla seconda «Voce» a «Letteratura» e a «Campo di Marte», succede un impegno più vasto – preannunciato nel ’42 da «Argomenti» - che mira soprattutto alla civiltà, a contribuire a crearla ex novo.
    A un’epoca prevalentemente apollinea, di una Firenze laurenziana – polizianea, succede un’epoca savonaroliana, di impegno soprattutto morale anche nella cultura, in cui impostazione religiosa e impostazione laica si incontrano, in cui La Pira e Calamandrei operano insieme e convergono, in cui S. Marco e Università, S. Maria Novella e Palazzo Strozzi si riconoscono nella loro realtà e collaborano strettamente.
    Firenze nell’agosto del ’44, nei giorni della sua battaglia autonoma per la liberazione, rivelò un volto nuovo dell’Italia tormentatissima. Lo rivelarono subito i corrispondenti anglo-americani più intelligenti, come Cecil Sprigge e Christopher Lumby, vi insistettero «Times» e «New York Herald» e «Manchester Guardian», e l’Agenzia «Reuter».
    Una città italiana riuscita a liberarsi da se stessa l’11 agosto grazie alle sue forze partigiane organizzate; per la prima volta le truppe alleate quando vi entrarono, qualche giorno dopo, trovarono istituzioni e cariche pubbliche funzionanti per volontà concorde di popolo; per la prima volta, nell’Italia liberata, militari e cittadini lessero non una pletora di giornali di vari partiti, ma un unico quotidiano, «La Nazione del Popolo», voluto e diretto concordemente dalle forze politiche riunite nel Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.
    Questa situazione nuova, che prefigurava solo in parte quella di un anno dopo nell’Italia del Nord, era il risultato di un lavoro e di una scelta politica, sì, ma anche culturale.
    L’incontro e la coesione delle varie ideologie e movimenti in un ideale di rinascita civile avevano caratterizzato gli anni della guerra: la pace e la libertà, il rispetto della persona umana, il pane e il lavoro per tutti erano ideali identificati dai circoli culturali e che accomunavano le diverse classi. A S. Marco attorno alla rivistina impavida di La Pira, «Principi», nel caffeuccio di piazza Cavour, uno dei centri dei radicali «Argomenti», nella sotterranea libreria a S. Giovannino del comunista Montelatici, fra i diseredati e gli emarginati riuniti la domenica a S. Procolo, si trovavano con animo fervido quasi le stesse persone, impegnate con ideologie diverse nell’affermazione degli stessi valori (oltre a La Pira e Calamandrei e Pieraccini e Zoli, letterati e uomini di cultura, da Luporini e Bilenchi a Bargellini e Betocchi e Lisi, da Barile e Ramat a De Grada e Noventa, a Pancrazi che mi diceva che in La Pira vedeva l’immagine dell’uomo che avrebbe voluto essere).
    E anche le imprese più tradizionalmente fiorentine in senso letterario-accademico, sino alla pubblicazione dei classici italiani, avevano assunto un sapore e un significato risentito e allusivo. Pietro Pancrazi, insieme a chi scrive, aveva ripreso la «Biblioteca Nazionale» di Le Monnier, fatidica nel nostro Risorgimento con quei suoi volumi, dalla copertina rosa, che spuntavano dagli zaini dei volontari di Curtatone e Montanara e poi delle battaglie del ’59-’60.
    Le storie di Fra Michele e di Pietro Paolo Boscoli e delle loro morti per la libertà, i testi di Alfieri, Beccaria, Mazzini e anche quelli antichi di Luciano e Svetonio (presentati da Bianchi Bandinelli e Marchesi) parlavano con voce chiara alle coscienze: erano davvero messaggi di «quei nostri grandi morti che facevano tanta paura ai vivi» (come aveva scritto Antonio Ranieri, cento anni prima, in una pagina soppressa dalla censura dinanzi all’edizione di Leopardi).
    Anche «Il Ponte» nacque da questa convergenza di volontà diverse nel voler fare della cultura e della letteratura motivo di ricostruzione morale: di ricostruzione della personalità umana nel senso più libero e responsabile. Ancora in periodo clandestino, nel terribile inverno ’43-’44, quando, dopo gli arresti del primo CLN, lo ricostituivamo in continue peregrinazioni ciclistiche, sotto la sferza della necessità di un unico e primario impegno – la libertà e la ricostruzione d’Italia – si affermava anche la necessità di un unitario strumento di informazione e di formazione: di un unico quotidiano, che ebbe il titolo «La Nazione del Popolo», in cui trovasse espressione la volontà unitaria dei vari movimenti, dal liberale al comunista. Era un’esigenza chiara, seppur chiaramente limitata nel tempo, cioè fino a che l’espressione degli italiani nelle votazioni potesse dare voce proporzionalmente autorizzata alle varie ideologie.
    Ma si manifestava allora anche un’esigenza di più vasta portata: dare una base più impegnata culturalmente a questa volontà di ricostruzione nella libertà e nel rispetto della persona umana. E questa base non poteva venire che da un incontro di persone capaci di provocare e sollecitare un ripensamento totale dei valori della cultura, come valori di vita e di civiltà: al di là e al di sopra del tradimento di molti intellettuali – anche a Firenze, anche nell’Università – di fronte al fascismo, al nazismo, al razzismo.
    Così nacque l’idea e il titolo stesso del «Ponte» nella primavera del ’44, soprattutto nelle conversazioni fra Pietro Pancrazi, Giorgio La Pira, Carlo Levi, Eugenio Montale, Luigi Dallapiccola, Ranuccio Bianchi Bandinelli, chi scrive e altri (e anche qualcuno allora lontano, come Calamandrei).
    Avevamo allora scritto in un appunto che poi, quasi nella stessa forma, comparirà nel primo numero della rivista:

    In questo titolo, «Il Ponte», non c’è soltanto il proposito di contribuire a ristabilire nel campo dello spirito, al disopra della voragine scavata dal fascismo, quella continuità tra il passato e l’avvenire che porterà l’Italia a riprendere la sua collaborazione al progresso del mondo; non c’è soltanto la ricerca di archi politici che aiutino la libertà individuale a ricongiungersi colla giustizia sociale, l’autonomia delle regioni coll’unità della nazione, la coscienza della patria italiana colla grande patria umana di cui tutti gli uomini sono cittadini. Ma c’è, sopra tutto, il proposito di contribuire a ricostruire l’unità morale dopo un periodo di profonda crisi consistente essenzialmente in una crisi di disgregazione delle coscienze, che ha portato a far considerare le attività spirituali, invece che come riflesso di un’unica ispirazione morale, come valori isolati e spesso contraddittori, in una scissione sempre più profonda tra l’intelletto e il sentimento, tra il dovere e l’utilità, tra il pensiero e l’azione, tra le parole e i fatti.
    Noi pensiamo che bisogna d’ora in avanti lottare in tutti i campi per ricostruire l’unità e la sincerità morale dell’uomo, e ricominciare a sentire che tutte le manifestazioni dello spirito umano, anche quelle artistiche e scientifiche, anche – ed anzi sopra tutte – quelle politiche, non hanno valore se non sono illuminate dalla fiamma interna di una fede coerente ed intera. Nell’inaridimento delle coscienze, che sotto una lussureggiante retorica e sotto una ingegnosa dialettica nasconde la più desolata incredulità in ogni regola e in ogni valore eterno, la vita si era degradata a scettico materialismo o a cieco attivismo: isolato nel suo egoismo l’uomo è sceso a considerare gli altri uomini come cose al suo comando, create per essere sfruttate e per essere gettate via quando non servono più.

    Con questo programma, mentre ancora Firenze era in molte parti un cumulo di macerie, senza acqua né luce, mentre il fronte era bloccato a pochi chilometri dalla città, presentai nel settembre del ’44 agli uffici competenti del Governo Militare Alleato la domanda di pubblicare la rivista «Il Ponte».
    Calamandrei, rientrato nel frattempo da Amelia (dove era restato da settembre ’43) e da Roma, presentava anche lui, nel dicembre, domanda per una rivista, come egli scriveva, «letterario-politica» «tipo Nuova Antologia d’un tempo» e faceva i nomi di Pancrazi, Momigliano, Bianchi Bandinelli, Tumiati, Bertolino e di chi scrive come segretario di redazione.
    Ma negli indugi e nelle more opposte dagli Alleati all’idea di una rivista forse per loro troppo libera e troppo autorevole, ci trovammo d’accordo a fondere i due progetti: l’uno più giovanile e figliato più direttamente dalla Resistenza, l’altro più autorevole e che si riattaccava alla resistenza morale degli uomini del prefascismo come Pancrazi, Momigliano, Tumiati (cfr. Lettere di Calamandrei, Firenze, 1968, II, pp. 36 sgg.).
    Ottenuta finalmente l’autorizzazione, nell’inverno ’44-’45, mentre ancora i cannoni tuonavano sull’Appennino fiorentino e i «Tigre» sbocconcellavano ancora i marciapiedi di Firenze, si incominciava a preparare il «Ponte» in riunioni con Montale, Saba, Levi, Berenson, Momigliano, Loria, La Pira, Pancrazi, Levasti, Tumiati, Enriques Agnoletti, Bertolino, Fossi, Ragghianti, Piccioni, Paoli, Bilenchi, Santoli, Devoto, Bianchi Bandinelli, Alessandro Levi, Dallapiccola e anche i più giovani Coccioli, Parronchi, Luzi, Cassola, Cancogni, Pieraccioni, Meucci, Strigelli… Ci si riuniva in via San Gallo 33, presso l’editore Le Monnier che aveva assunto l’impresa: dove era stato stampato avventurosamente tutto a mano, l’11 agosto (la mattina della liberazione di Firenze, al suono della Martinella) il primo numero della libera «Nazione del Popolo».
    Era una coincidenza topografica che aveva valore emblematico e augurale. Perché dall’esperienza di quei mesi alla «Nazione del Popolo» - diretta da Albertoni, Branca, Levi, Sanguineti, Santoli e cui collaboravano tutti quegli amici (anche Saba con canzoni programmatiche, anche Montale con poesie allusive e nella routine di critico teatrale) – la tensione morale verso l’idea personalistica era uscita rafforzata nella dialettica continua, ma schietta e comprensiva, tra le diverse ideologie.
    Non ci si era irrigiditi nelle varie posizioni partitiche o nei contrasti manichei che ci portavano invece continuamente i periodici romani. Persino la «Nuova Europa», nata generosamente con simili intenti e privilegiata da alte collaborazioni, era diventata sempre più voce del partito che vantava allora una leadership culturale, il partito d’azione, e dei vari movimenti socialisti. Altri periodici si erano afflosciati in funzioni antologiche o semplicemente informative.

    (...)
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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    Da quegli incontri serali in cui regnava, spesso a lume di candela, la conciliatoresca concordia discors (e proprio allora io ero chino a correggere le bozze del «Conciliatore»), per la sua eminente posizione culturale-politica d Rettore della nuova Università e per il suo ruolo determinante di garante finanziario-amministrativo emerse Piero Calamandrei come il naturale direttore della rivista. E a lui, dopo la rinuncia di Pancrazi per ragioni di salute (quelle che ce lo tolsero pochi anni dopo), furono affiancati quali redattori per l’economia e la sociologia Alberto Bertolino, per la letteratura, le arti, le scienze umanistiche Vittore Branca, per la politica Enzo Enriques Agnoletti, mentre a Corrado Tumiati fu affidata la segreteria della rivista. Ma tutto quel gruppo rimase compattamente e cordialmente unito alle sorti e alla vita del «Ponte» come dimostrano le collaborazioni nei primi due anni, alle volte anche sotto pseudonimi che meriterebbe ora, finché si è in tempo, svelare (p. es. Azzio Colombi è Attilio Piccioni; il Renaiolo è U. E. Paoli).
    L’autorizzazione del Governo Alleato tardava (attivò ai primi di febbraio); la tipografia non aveva ancora corrente elettrica, componeva a mano e stampava con una macchina piana azionata da una puleggia collegata con le ruote anteriori di una «Balilla» sollevate da un cricco; la carta non arrivava; Firenze era sempre a portata dei cannoni tedeschi sull’Appennino. Eppure alla fine di marzo del ’45 il primo numero della rivista poté uscire, riprendendo fedelmente quel programma di cultura come morale e come civiltà che avevamo delineato ancora in tempo clandestino. Lo integrarono altre dichiarazioni, fra cui significative queste, anche per il tono lapiriano:

    Noi siamo convinti che, per risalire da questo imbestiamento, si debba cominciare a ricostruire in tutti i campi la fede nell’uomo, questo senso operoso di fraterna solidarietà umana per cui ciascuno sente rispecchiata nella sua libertà e nella sua dignità la libertà e la dignità di tutti gli altri, e in mancanza della quale la vita diventa una lotta di brutali sfruttamenti, alla quale si può dare via via il nome di tirannia, di plutocrazia, di nazionalismo, di fascismo, di razzismo. Lungi da noi il proposito di tornare a confondere la morale colla politica, o la morale coll’arte, o la morale colla scienza; ma noi pensiamo che dove manca dal centro la vigile interezza della coscienza, il sapere diventa gretta erudizione, l’arte miserabile giuoco oratorio, e la politica stolto brigantaggio, condannato in anticipo, per la sua fondamentale incapacità a valutare le forze morali che a lungo andare sono sempre vittoriose, alla finale catastrofe. Al di sopra di ogni comodo e malinteso storicismo noi sentiamo che la vita dell’umanità è retta da fermi e chiari principi, superiori alla storia. Non è la storia che fa la fede, ma è la fede che fa la storia: e se le convinzioni morali contano solo in quanto servono ad impegnare la vita, a dirigere e a promuovere atti in coerenza con esse, gli atti contano solo in quanto sono espressione e testimonianza di convinzione morale sentita come regola di vita […] La nostra non sarà una rivista di partito o di scuola; ma in tutti gli articoli che vi saranno pubblicati, qualunque ne sia l’argomento (politico od economico, storico o giuridico, filosofico o letterario), nelle stesse recensioni, nella stessa prosa narrativa, il «Ponte» cercherà, insieme colla serietà della competenza e colla chiarezza dell’espressione, la presenza vivificatrice di questa interezza morale, che potrà essere alla base della civiltà di domani solo se noi, con pazienza e con fede, sapremo in ogni campo lavorare per formarla. Vorremmo che in tutte le pagine del «Ponte», qualunque sia la tendenza politica o artistica a cui esse si ispireranno, apparisse questo impegno fraterno di serietà e di sincerità, quella stessa passione intransigente, quella stessa angoscia, quella consapevolezza del valore della vita intesa come dovere di coerenza morale, che ha guidato la lotta clandestina all’interno della fortezza hitleriana, dove, anche in Italia, migliaia di uomini coerenti, e in prima linea uomini di pensiero, hanno testimoniato la verità delle loro idee coll’esser pronti a morire per esse, ed hanno rivendicato il valore della vita coll’esser pronti a sacrificarla.

    Furono queste dichiarazioni e l’esempio di uomini liberi, di diverse ideologie, che si trovavano concordi – al di sopra di ogni storicismo idealistico o marxistico – nella ricostruzione dei valori fondamentali ed eterni per l’uomo e per la sua civiltà (cioè per la capacità dell’uomo a vivere insieme in pace e solidarietà) che colpirono e conquistarono le classe dirigente della nuova Italia sorta dalla resistenza e dalla lotta di liberazione.
    Ebbi la ventura – puntando verso il nord con una jeep alleata – di portare le prime copie del primo numero, alla fine d’aprile, nella Genova e nella Milano appena liberate: ebbi la commozione di vederle accolte come il messaggio della «nuova cultura come vita» che tutti attendevano e auspicavano, dagli uomini più diversi, da Baratono e Taviani a Genova, da Parri e Greppi e Gentili e Marazza a Milano.
    Senza ulteriori proclamazioni o rinnovate dichiarazioni programmatiche la rivista puntava sulla necessità di una ricostruzione morale e civile nell’ordine delle leggi naturali e delle leggi democratiche, senza né restaurazioni né rivoluzioni, col risoluto accantonamento della monarchia per una repubblica solidamente democratica.
    La rivoluzione c’era già stata, e grande, con la resistenza e la lotta di liberazione: non bisognava offuscarla e imbrattarla con vendette, con spiriti di rivincita, con demagogie populiste. Gli articoli di Calamandrei, di Carnelutti, di Jemolo, di Salvatorelli, di Piccioni, in favore del rapido ma ponderato rinnovamento costituzionale, battevano unanimemente su questo punto pur muovendo da posizioni diverse (e furono poi decisivi anche nella redazione della nostra Costituzione).
    E la voce di chi finalmente ritornava o poteva parlare dall’esilio (Salvemini, Sforza, Sturzo, Treves) si univa a quella di chi aveva resistito all’interno e portava l’eco delle risonanze mondiali ai problemi italiani. Ma alla ricostruzione spirituale doveva anche corrispondere una ricostruzione fisica, materiale: ed economisti e sociologi (come Bertolino, Bracci, Segni, Berliri, Lombardi, Edwards) facevano proposte concrete e illuminanti sui problemi della fame e della riforma agraria, della svalutazione e delle cooperative; mentre Berenson e Bianchi Bandinalli, la Nicco Fasola e Poggi discutevano su come ricostruire e come non ricostruire il nostro patrimonio architettonico e artistico distrutto o menomato dalla furia bellica.

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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    A una ricostruzione, proprio nel senso della cultura – arti e lettere e scienze dell’uomo – come vita, mirava anche la parte a me affidata, seppure poteva sembrare un po’ ancella. Non è senza significato che le prime pagine narrative pubblicate siano le anticipazioni di quello che fu il libro simbolo della letteratura della liberazione e del neorealismo del dopoguerra: cioè il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi; che la prima poesia parli della nuovissima stagione lirica di Montale, cioè la dolorante Ballata in una clinica; che le prime pagine critiche (di Pancrazi, Treves, Fubini e mie) siano la rivendicazione della storia letteraria come storia di una civiltà spirituale, della filologia come riscatto delle varie critiche di vetro, lo studio degli albori culturali della comunità europea, la riproposta degli ideali di onestà e di solidarietà umana piccolo-borghese in De Amicis e De Marchi e Turati messi al bando dal fascismo; che le prime pagine artistiche (di Berenson, Bianchi Bandinelli, Ragghianti, Colacicchi) insistono sulla testimonianza di spiritualità e libertà che danno le arti e che devono essere conservate e valorizzate al di là di ogni populismo e di ogni imposizione industriale economica; che le prime pagine filosofiche-sociali (di Calogero, Sturzo, Bobbio, Salvatorelli) richiamino continuamente alla vitale circolazione di storia, politica e morale.
    In questa risoluta coscienza della necessità di una nuova cultura come via alla ricostruzione e alla civiltà si incontravano cordialmente la generazione dell’Italia democratica prefascista (Croce, Salvemini, Sturzo, Stuparich e così via), quella che nel ventennio dittatoriale aveva dato esempio di dignità e indipendenza (Alessandro Levi, Jemolo, Calamandrei, Pancrazi, Zanotti Bianco, Piccioni, Lavinia Mazzucchetti, Tecchi, Morra, Loria, Capitini, Montale e altri), quella che era divenuta adulta nella resistenza e nella lotta partigiana (Predieri, Enriques Agnoletti, Ragghianti, Barile, Taviani, Spini, Passeri d’Entrèves). E si aggiungevano da oltrefrontiera anche uomini (come Gilson, Maritain, Sprigge, Gibson, Edwards) che in qualche modo, mentre ancora gli eserciti bloccavano i confini, da varie parti del mondo, guardavano a questa esperienza nuova e vi partecipavano animosamente. Era una convergenza e un confronto di generazioni, di ideologie, di culture, di prospettive nazionali e internazionali che si realizzava così, risolutamente, per la prima volta in Italia, almeno dopo la prima e migliore «Voce».
    E potevano così affacciarsi – oltre a quelle di Carlo Levi – anche espressioni ed esperienza letterarie nuove: le prime prove di Barolini e della Guidacci, di Sinisgalli prosatore, della nuova piega della narrativa di Quarantotti Gambini con anticipazioni dell’Onda dell’incrociatore; l’affermazione – ahimè poi disattesa per trent’anni dal pubblico e dalla critica – della vena narrativa rievocatrice di Salvatore Satta, le prime approssimazioni critiche di Pampaloni e di Parronchi.
    La cerchia dei collaboratori e degli amici si allargava a mano a mano che le comunicazioni ristabilivano in Italia la circolazione di uomini e di idee. Torino e Milano erano con Firenze e Roma i fuochi principali della rivista per la vitalità di partecipazione e per il numero di lettori delle nostre 5.000 copie; Bedarida e Simone a Parigi, Paolo Treves, Nissim, Sprigge a Londra, Salvemini e Poggioli negli Stati Uniti costituivano le nostre teste di ponte nella capitali mondiali della cultura.
    La dinamica della Consulta e della Costituente, i primi progetti di riforma scolastica e universitaria, l’indipendenza della stampa e della magistratura trovarono nell’azione e nelle campagne del «Ponte» il loro lancio nell’opinione pubblica, ancora incerta e immatura, e trovarono anche un’udienza decisiva in Parri e Sforza, in De Gasperi e Togliatti, in Nenni e Brosio.
    Nascita e prima vita. Restiamo nelle nipiologia.
    Del resto, le riviste di rottura e di novità non dovrebbero mai sopravvivere alle condizioni culturali-sociali che hanno sollecitato la loro creazione. Il «Ponte» era nato come espressione dell’eccezionale possibilità di convergenze offerte dall’impegno di libertà, di costruzione della democrazia, di ricostruzione morale e materiale. Era, più che un’offerta, un’imposizione alle nostre coscienze e al nostro impegno di cittadini. Di fronte al vuoto pauroso lasciato dalla dittatura e dalla guerra, l’unica possibilità di salvezza era nella coesione degli uomini di buona volontà, al di là e al di sopra di ideologie diverse e di contrasti di tendenza. La stessa vita politica nel Governo, nella Consulta, nelle amministrazioni locali si basava allora, fra ’45 e ’46, sulla presunzione che i partiti del CLN rappresentassero la maggioranza del paese: una presunzione che poi si dimostrò più che vera dando a quei partiti nelle prime elezioni l’85% dei voti. Ma quella presunzione nel ’45 e fino al giugno del ’46 poteva esser difesa solo a patto dell’unanimità fra i partiti del CLN, della coesione fra gli uomini e i gruppi «di buona volontà».
    Era una condizione abnorme sì, ma che certo favoriva convergenze e intese sotto il segno della suprema lex, della necessità di vita del paese e del popolo (che, non dimentichiamolo, rischiò allora, specialmente alla fine del ’45, di morire in gran parte letteralmente di fame). Bisogna riconoscerlo: le sofferenze asprissime, la povertà grande, i rischi supremi inducevano ad accantonare divergenze, sottigliezze, ripicchi. Potevano, persino, legittimamente anche consigliare di non rilevare i contrasti ideologici ma piuttosto – ed erano tante e fortissime – le convergenze morali.
    Ma quando col miracolo, inaspettato dal mondo, delle ordinatissime elezioni dell’aprile e del giugno ’46 si uscì da quello che Calamandrei chiamava il «limbo istituzionale e politico», quando con un altro miracolo la rapidità della ricostruzione permise il riaffermarsi di una vita normale, era naturale, anzi in un certo senso doveroso, che quelle convergenze e convivenze – di carità di patria, di salute pubblica – non sopravvivessero. Potevano persino diventare elementi negativi: contro la chiarezza e la responsabilità di ognuno nelle sue fedi e nelle sue idee, potevano favorire compromessi, patteggiamenti, silenzi.
    Difatti nella seconda metà del ’46 entrò in crisi – fino poi a morire alla fine dell’anno – anche a Firenze il vivace ed esemplare quotidiano in cui avevano convissuto i cinque partiti; e contemporaneamente entrarono in crisi varie altre istituzioni e attività basate su quelle situazioni di emergenza.
    Entrò in crisi anche il «Ponte»: e non solo per quelle ragioni politico-ideologiche. La divaricazione, fra un’impostazione di politica militante e partitica e una di moral-politica non contingente, si era aggravata. Lo stesso partito d’azione così attivamente presente si era violentemente scisso fra l’ala liberal-democratica di Parri, La Malfa e Ragghianti e l’ala radical-socialista di Calamandrei, Agnoletti e Condignola. Ma si era – come testimonia anche la corrispondenza Calamandrei – determinato anche un certo scontro generazionale fra chi prediligeva la valorizzazione della cultura prefascista (da Salvemini e Lussu a Bacchelli, a Stuparich colle loro appendici dei Terracini e dei Nesti) e chi insisteva per le nuove esperienze e posizioni dei La Pira e dei Bobbio, dei Carlo Levi e dei Sinisgalli e per il significato di certe approssimazioni o neoermetiche o esistenzialistiche.
    In questa situazione, completamente diversa da quella dell’inverno ’44-’45, i «pontieri» della generazione più giovane ritenevano che la missione pionieristica e guida morale del «Ponte» fosse esaurita: volevano in conseguenza che la rivista concludesse coraggiosamente la sua vita.
    La maggioranza decise diversamente, e sviluppò coerentemente il suo programma: politicizzazione risoluta della rivista in senso radical-socialista con drastica riduzione della parte letterario-artistica, conseguente soppressione della redazione pluralistica, passaggio dall’editore Le Monnier alla Nuova Italia di Codignola.
    Era questa, a ben vedere, la conseguenza diretta della nuova situazione morale e politica: ognuno ormai doveva prendere le proprie responsabilità e vivere per le proprie idee. Dalla concordia discors della «Nazione del Popolo» nascevano quattro quotidiani diversi («Nuovo Corriere», «Mattino», «Patria» e «Nazione»): dalla entusiasmante esperienza del «Ponte» rampollavano più o meno direttamente il nuovo «Ponte» - espressione della cultura laicista radicalsocialista -, le prime e le seconde «Cronache sociali» e l’«Ultima» di ispirazione variamente cattolica, «Società» di osservanza comunista, «Lettere Italiane» di interesse critico letterario. E poi, trasferendomi all’Unesco a Parigi, io ritentavo con Roger Caillois un’esperienza su piano mondiale, in qualche modo analoga al primo «Ponte»: la rivista «Diogène».
    Non storia, né critica, né sociologia ho saputo fare parlando della nascita del «Ponte», ma soltanto accenni di cronaca (e chi potrebbe fare storia o critica o sociologia di un proprio figlio?). Ma anche la cronaca affettiva può essere testimonianza di un momento di vita di gruppo che si impegnò a far passare la nostra cultura da un clima monodico, provinciale e tutto sommato asfittico a quella pluralità e vivacità e universalità di voci e di esperienza che caratterizzò la nostra vita intellettuale del neorealismo e dell’esistenzialismo, del neostoricismo e dello spiritualismo, del neomarxismo e dell’avanguardia, nei vent’anni seguenti alla nascita del «Ponte».

    Vittore Branca
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    DOCUMENTI

    PROGRAMMA E ORGANIZZAZIONE PER IL QUOTIDIANO DEL CTLN (12 LUGLIO 1944)

    La Commissione del CTLN ritiene che per quel che riguarda l’organo del Comitato «La Nazione del Popolo» la propria azione debba seguire i seguenti indirizzi:
    1°. Il fronte nazionale non rappresenta una semplice alleanza tattica di partiti per fini immediati, ma una nuova realtà politica unitaria e creativa, che deve avere la propria espressione, distinta da quella dei singoli partiti. La «Nazione del Popolo» sarà dunque l’organo del CTLN nella sua positiva realtà di suscitatore e sanzionatore delle iniziative popolari.
    2°. Scopo della commissione sarà di creare nel giornale una équipe affiatata ed efficiente di redattori, tecnici ed operai, capaci di assicurare la continuità del giornale nella linea politica del fronte nazionale, e di giungere all’auto controllo amministrativo, tecnico e politico. A questo scopo si varrà anche di tutti quegli attuali componenti del personale della ex Nazione che abbiano necessari requisiti politici, morali e tecnici.
    3°. Per quanto riguarda la direzione del giornale si stabilisce il principio della responsabilità collettiva della commissione.
    4°. Nei limiti consentiti di mezzi materiali di cui si potrà disporre, la commissione si propone di fare della «Nazione del Popolo» un organo moderno, un esempio di giornale popolare, libera e diretta espressione di tutte le forme della vita collettiva, nel suo processo di rinnovamento. Il giornale avrà quotidianamente uno o più articoli redazionali su problemi generali, il notiziario di guerra e di politica, la rassegna della stampa italiana e straniera ecc. Oltre alle normali rubriche della cronaca, della vita cittadina, dello sport, ecc. il giornale conterrà una parte dedicata alla vita dei giovani e tre rubriche: «Vita operaia», «Vita contadina», «Vita della cultura». In esse sarà compreso il notiziario delle iniziative dei campi di lavoro e della cultura e l’analisi dei problemi generali e particolari che le concernono. Le suddette rubriche dovranno resultare in gran parte dalla collaborazione del pubblico. Il giornale dovrà avere, cioè, in ogni comune, in ogni formazione combattente, in ogni consiglio di fabbrica, in ogni comitato di scuola, in ogni ente collettivo ecc. dei propri corrispondenti che costituiranno da per tutto il nucleo giornalistico del loro particolare organismo politico, economico, culturale. Il giornale sarà così in continuo contatto con la realtà del paese e porrà le basi per realizzare un esempio di giornalismo nuovo, non più avvocato di un regime o di interessi particolari, ma libera tribuna del popolo.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: La città dell’Arno nella Resistenza e nella Liberazione (1984)

    ARTICOLO PROGRAMMATICO DEL 12 AGOSTO 1944

    La nuova «Nazione»

    «La Nazione del Popolo», organo del Comitato di Liberazione ha iniziato ieri le sue pubblicazioni. È un giornale nuovo, che con la vecchia «Nazione» non ha affine che il titolo. Ed anche questo non dovrà più essere inteso nel modo equivoco degli ultimi trent’anni, ma in quello antico di natio, che è insieme la società, la comunità originale, e la nascita.
    Oggi il popolo italiano rinasce come comunità viva. Questa nuova realtà che per infiniti segni si manifesta, e attraverso le prove più dure si afferma si chiama, e giustamente, Fronte Nazionale o Fronte della libertà. Il Fronte Nazionale non è se non il popolo italiano, nella sua quotidiana opera di battaglia e di rinascita, ed ha la sua espressione storica nei princìpi e nello Stato e Libertà.
    Negli ultimi decenni, in cui persino il nome di libertà era bandito, l’Italia non ha realmente avuto uno Stato, ma un regime di tirannica anarchia sfociato, negli ultimi mesi, in un caos sanguinoso. Senza libertà e senza Stato abbiamo persa l’unità e l’indipendenza; e tutta la vita sociale e individuale è stata corrotta e disintegrata. Il male era delle classi dirigenti, e si manifestava con l’essere, esse classi e istituzioni, incapaci e separate dalla vita della nazione: ma si rifletteva e propagava, come un cancro, a tutte le attività di tutto il paese, dall’economia alla cultura, dal lavoro alla vita morale. La mancanza di libertà e di Stato, il totalitarismo, significò per tutti i cittadini, anche i più nascosti, e confinati negli interessi particolari, decadimento, impotenza, miseria, morte.
    Ma il popolo italiano, fatto esperto dal dolore, ha ritrovato al sua virtù. I suoi mali antichi, assai più antichi del fascismo, arrivati con il fascismo al loro estremo, con il fascismo devono finire. Il nostro popolo ha saputo difendersi, negli anni oscuri, non solo colle organizzazioni della resistenza clandestina ma anche chiudendosi in un guscio di paziente indifferenza, anche dalla illusione della falsa grandezza: oggi, attraverso le stragi, le rovine, la totale dissoluzione di ogni vita civile, toccando il fondo di tutti i mali, pagando lo scotto di tutti gli errori, lavando col sangue e le lacrime tutte le debolezze, insorge, e nel suo più tragico momento, si avvia, sotto la guida del Governo Nazionale per la prima volta nella sua storia a creare le forme politiche corrispondenti al suo particolare modo di essere; a dar vita, finalmente, a uno Stato.
    Quest’opera avviene sotto i nostri occhi, multiforme e spontanea: lo Stato in formazione è il risultato della iniziativa popolare.
    Iniziativa popolare sono i partiti politici, simboli e strumenti del grande moto di rinnovamento italiano, che essi, da punti di vista diversi, chiariscono, difendono, suscitano, sorreggono e ordinano.
    Essi hanno avuto, in questi anni, una vita clandestina ricca di eroismi e di martiri: e hanno condotto senza compromessi e col sacrificio di tanti dei loro uomini, la guerra di liberazione. Essi rappresentano, nella loro forma attuale, il primo cristallizzarsi delle opinioni, degli interessi, delle passioni, in quanto separate e distinte. La pluralità dei partiti che non sia dispersione rappresenta la ricchezza di una società differenziata. Loro dovere è di essere forti, di avere dei programmi precisi, di essere all’avanguardia del paese, non dietro di esso.
    Iniziativa popolare infine sono, accanto e sopra ai partiti, gli organismi locali di battaglia, di coordinamento e di governo: i Comitati di Liberazione Nazionale.
    L’iniziativa popolare, nei suoi particolari e nel suo insieme, è il Fronte Nazionale di Liberazione e il Fronte Nazionale è la realtà vivente del paese, che si rinnova in tutti i campi e prepara uno stato nuovo di democrazia diretta (e automatica) che ha un primo e provvisorio strumento nei Comitati di Liberazione.
    La «Nazione» è, a Firenze, l’organo giornalistico del Fronte Nazionale, di cui i Comitati di Liberazione sono, nella fase attuale, il primo organo direttivo. Non è dunque un giornale «ufficiale», poiché non esiste ufficialità in tempo di nascita e di formazione autonoma. Non è un giornale «ministeriale», perché anche il Governo attuale è un momento, sia pur di primo piano, di quel processo dal quale, nella sua interezza, nascerà l’ordine nuovo, e di cui intendiamo essere la voce.
    E non la voce soltanto, ma un elemento vivo e, nei suoi limiti, completo. La «Nazione» deve essere, non soltanto nei suoi articoli, ma nella sua interna struttura, un esempio di quello che può essere un giornale libero.
    Attorno alla Commissione che attualmente la dirige, si deve formare una équipe affiatata ed efficiente di redattori, tecnici ed operai, capaci di raggiungere il controllo tecnico, amministrativo e politico, da realizzare, nel campo della stampa, quell’autogoverno che è lo scopo comune dei Consigli di fabbrica, dei Consigli contadini, dei Consigli della cultura.
    Il nostro giornale sarà fatto in gran parte di collaborazione popolare. Avremo cioè in ogni fabbrica, in ogni comune, in ogni unità combattente, in ogni istituto di cultura, ecc. dei corrispondenti, che saranno a loro volta il nucleo giornalistico di quel particolare organismo di cui fanno parte. La vita del paese avrà così sulle nostre colonne la sua espressione diretta.
    La «Nazione del Popolo» è il giornale del Fronte Nazionale: il giornale del popolo e della libertà creatrice.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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