Spadolini fra cattedra, giornali e Parlamentodi Paolo Bonetti – In “Nuova Antologia”, a. CXXVIII, fasc. 2187, luglio-settembre 1993, Le Monnier, Firenze, pp. 319-331.
Nel presentare l’edizione definitiva de Gli uomini che fecero l’Italia (Longanesi, Milano, 1993), Spadolini ha scritto che il libro «riassume quarantacinque anni fra cattedra, Parlamento e giornali», e si presenta, perciò, con «un carattere autobiografico, nella misura in cui ogni storia è autobiografia». Poiché questa è la natura del volume di cui stiamo parlando, sia consentito anche all’autore di questo articolo fare un po’ di autobiografia. Studente di prima liceo nella provincia marchigiana, e lettore fin dall’infanzia del «Resto del Carlino» (ma bisogna dire che, per alcuni anni dopo la guerra, il quotidiano bolognese aveva assunto il più domestico e meno compromesso nome di «Giornale dell’Emilia»), potei seguire l’esordio direttoriale di Giovanni Spadolini, appena trentenne ma già assai autorevole, come si conveniva, allora, a chi aveva assunto la direzione di un giornale di provincia di nobilissime ascendenze culturali. Nel primo dopoguerra l’aveva diretto Mario Missiroli, fra i collaboratori c’erano stati Benedetto Croce e Giovanni Gentile, per non parlare delle illustri firme fra Ottocento e Novecento. Quando Spadolini assunse la direzione del «Carlino» era già uno storico affermato, e per di più era stato editorialista del «Corriere della Sera» e aveva collaborato al «Mondo» di Pannunzio fin dal primo numero.
Era soprattutto, per me ragazzo un po’ diffidente verso i giornalisti, un direttore che sapeva scrivere, che curava particolarmente la terza pagina (fra i collaboratori, il più illustre era Giuseppe Prezzolini), e che non dimenticava mai di essere uno storico: i suoi articoli, di politica estera o di politica interna, avevano un’ampiezza di analisi e una varietà di riferimenti piuttosto inconsuete nel mondo giornalistico. Sinceramente non pensavo che potesse diventare anche un uomo politico, capace di districarsi, con abilità, in un mondo che vive troppo spesso alla giornata, e non ha, ovviamente, il passo lungo e lento dello storico. Nella mia inesperienza adolescenziale, non mi rendevo conto che Spadolini era altrettanto giornalista che professore, e del giornalista di qualità aveva la prontezza, l’intuito, la capacità di mettersi in sintonia col presente, di cogliere gli umori mutevoli della gente. E anche per lui, come per altri nella storia d’Italia, il passaggio dal giornalismo alla politica è stato agevole, e direi quasi naturale. A sorreggerlo, in questa nuova attività, è rimasta la solida struttura mentale dello storico, la tendenza a guardare gli eventi dall’alto, anche nel corso della lotta; una qualità che può anche essere un freno, un elemento di eccessiva prudenza per l’uomo politico, una qualità che certamente i politici puri non posseggono, ma che ha consentito a Spadolini di resistere alla grande onda del cambiamento che ha investito l’Italia meglio di quanto non sia capitato a tanti altri più «politici» di lui.
Perché, dunque, non provare a leggere questi penetranti e vivaci ritratti degli uomini che hanno fatto l’Italia, dal punto di vista di un giornalista (che è anche uomo di cultura e uomo politico) intento a ricostruire la fisionomia di quei giornalisti che sono stati, nella storia italiana degli ultimi due secoli, uomini civilmente impegnati, uomini che spesso «hanno fatto l’Italia» in misura ben superiore a quella dei professionisti della politica? Tralasciamo i grandi esempi di Mazzini e di Cavour, che richiederebbero un discorso ben altrimenti articolato, come pure, da una diversa prospettiva, quelli di un Croce o di un Salvemini, che furono anch’essi, per certi aspetti, uomini del giornalismo, grandi ed efficaci comunicatori di idee in un’Italia dalla vita culturale e politica ancora élitaria e ristretta; ma, a parte costoro, il libro di Spadolini è in larga misura occupato dai ritratti di uomini (e qualche donna) che concepirono e praticarono il giornalismo (di informazione o di cultura) come indispensabile raccordo fra la severità, troppo appartata, dell’alta cultura e un nuovo fermentante mondo sociale che imponeva di uscire da una concezione notabilare del sapere.
Quando Spadolini parla di questo suo libro come di una autobiografia, credo che intenda anche questo: esso è, per trasposte persone, la vicenda stessa di Giovanni Spadolini, giunto dalla cattedra al Parlamento, passando per quelle stanze redazionali dove ogni giorno il pensiero degli specialisti e il gergo dei tecnici devono tradursi (o tentano di tradursi) in chiare informazioni e riflessioni per i cittadini-lettori.
Anche il vero uomo di Stato e di governo, come il giornalista di vaglia, deve essere un grande chiarificatore, deve essere l’uomo della sintesi, quello che coglie la complessità dei problemi per tradurla in poche parole efficaci e comprensibili; egli deve essere, insomma, uno che sa semplificare senza banalizzare. In questo senso, soltanto un grande giornalista come Cavour, né intellettuale astratto né politicante spicciolo, poteva fare, come effettivamente fece, l’Italia. Mentre un altro giornalista, Mussolini, dotato di formidabile intuito e vitalità, ma di confusa e approssimativa cultura, contribuì a disfarla fino alla totale catastrofe.
1. Milano europea: Beccaria e Cattaneo
La storia del giornalismo italiano moderno, inteso come strumento di cultura e impegno per le riforme, comincia naturalmente da Milano, la «Milano delle aperture europee del riformismo settecentesco», la Milano dell’Accademia dei Pugni e del «Caffè». La celebre opera di Beccaria, Dei delitti e delle pene, è «il libro più europeo del Settecento milanese e italiano»: a Spadolini preme sottolineare la profonda radice umanitaria dell’opera, che apre la strada alla «futura religione della democrazia».
Lo storico insegue e ricostruisce un particolare ethos milanese nella scelta del giovane patrizio lombardo di una «filosofia del cuore» da contrapporre, come scrisse Pasquale Villari, allo studio della filosofia classica, a «quegli aridi sillogismi adatti a nascondere piuttosto che a svelare il vero»: questa fu la forza di un uomo per tanti aspetti fragile come Cesare Beccaria, che non fu mai un «sovversivo», e che visse con inquietudine le «contraddizioni della sua epoca», così come patì le «antinomie irrisolte della sua classe».
Dal «Caffè» al «Politecnico», da Beccaria a Carlo Cattaneo: questo è il percorso, sempre europeo e sempre antiretorico, della cultura riformatrice lombarda; in un periodo «imbevuto di miti e di spettri romantici», Cattaneo «guardò unicamente alle esperienze moderne e, nell’epoca moderna, ai paesi dell’Occidente europeo, che soli potevano insegnarci le vie dell’indipendenza e della libertà».
Il concreto risorgimento degli italiani passava attraverso «l’uso degli strumenti della civiltà moderna, che si riassumevano nelle ferrovie, nelle industrie, nei commerci, nelle borse, in tutte le forme dello spirito di iniziativa e di intrapresa, inseparabile dal capitalismo». Federalista certamente la concezione politica di Cattaneo, ma di un federalismo, come ebbe a dire Salvatorelli, mai scompagnato dalle idee di umanità, progresso, Europa. E il carattere dell’uomo – osserva Spadolini – era all’altezza delle sue idee, senza l’ansia della «poltrona», integralmente impegnato nella sfera delle ideologie, se queste «equivalgono alle idee diventate azione».
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