Gli interrogativi del profeta dell’unità sulla grande Rivoluzione
di Emilia Morelli – In “Nuova Antologia”, a. CXXV, fasc. 2175, luglio-settembre 1990, Le Monnier, Firenze, pp. 61-68. Testo della conferenza tenuta all’Accademia Pontaniana di Napoli il 24 maggio 1989.
Credo non sia possibile capire l’atteggiamento di Mazzini verso la rivoluzione dell’89, se non si dà uno sguardo alla situazione politico-ideologica europea nel momento nel quale egli lancia il suo messaggio.
All’indomani della rivoluzione del 1830 in Francia e del 1831 in Italia, sembrava di assistere al crollo di tutte le forze che avevano sorretto chi voleva rovesciare le deliberazioni delle potenze firmatarie del congresso di Vienna. E questo soprattutto nella sinistra, la più umiliata dalla Restaurazione. Su quelle rovine germogliavano il sansimonismo, il furierismo, ideologie che colpiscono, ai loro inizi, Mazzini, specialmente per i loro princìpi associativi. Persiste, però, il mito della Francia, di quel popolo che era stato capace di sommuovere tutta l’Europa. Questo, detto tra parentesi, sarà un mito per generazioni di democratici che resisterà fino alla seconda guerra mondiale. Caduta la Francia, caduto l’occidente; lo crederà anche Mussolini!
Mazzini, agli inizi, non disdegna i contatti con i democratici europei, ma se ne ritrae assai presto per enunciare un programma tutto nuovo, basato su concetti morali, che devono essere il sostegno di quelli politici.
Prima di tutto il richiamo allo spirito, avvilito, a suo avviso, dal materialismo; alla fede che sola può sopportare le sconfitte oggi, sicura di trionfare domani. Di qui il concetto di dovere. Dovere di operare per raggiungere l’unità politica della nazione italiana. L’Italia, infatti, ha, nella sua storia, tutti i requisiti necessari per essere l’iniziatrice di una nuova sintesi, che partirà dalla Roma del popolo, così come si era realizzata nei secoli attraverso la Roma dei Cesari, prima, la Roma dei papi, poi.
Dovere, iniziativa italiana, non primato francese. La rivoluzione francese ha conchiuso un’epoca.
Non che Mazzini non sentisse la mirabile grandezza di quell’evento. Quante volte ne avrà discusso, sotto lo sguardo un po’ distratto di Darwin, ne avrà discusso con Carlyle, in quell’accogliente salotto della casa di Chelsea, l’unico ambiente rimasto ancora intatto nel quale noi possiamo immaginare la presenza di Mazzini.
Quando uscirà il volume di Carlyle sulla Rivoluzione, Mazzini ne scriverà un’ampia recensione critica. Io avanzerei qualche riserva sulla definizione che dà dello storico, il quale, a suo dire, «s’aggira fra le rovine del passato solo col pensiero rivolto al futuro. I suoi lavori determinano la continuità che annoda a ciò che sarà ciò che fu».
Quanto a Carlyle, Mazzini gli rimprovera di restringere a «una dolorosa triologia» e, cioè, a Bastiglia, costituzione, ghigliottina, «la narrazione del più grande evento dei tempi moderni», quella rivoluzione che «ha ridestato il senso del diritto, della libertà, dell’eguaglianza oggimai incancellabile nell’animo umano». Lo accusa di non saper «scoprire che la negazione d’una grande menzogna, un’opera di pura distruzione, un’immensa rovina; il lato positivo del fatto, il compimento nella sfera politica di ciò che il cristianesimo compiva colla Riforma nella sfera morale, l’individuo umano libero ed emancipato […] gli rimangono arcani».
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