In «Nuova Antologia”, fasc. 2142, aprile-giugno 1982, Le Monnier, Firenze, pp. 3-19.
Questo nostro ideale dibattito trae spunto dal recente volume di Alessandro Galante Garrone ricco di inediti salveminiani su Salvemini e Mazzini (in appendice: lezioni inedite di Salvemini) uscito da qualche mese nella Biblioteca di cultura contemporanea dell’editore D’Anna.
Accanto alle conclusioni del libro di Galante Garrone, conclusioni stimolanti e originali, pubblichiamo un saggio del nostro direttore che dal libro prende spunto, e una testimonianza di un salveminiano d’eccezione, Leo Valiani, sui rapporti con Salvemini di tutta una generazione, anzi sul dibattito di tutta una generazione.
1. Fra Mazzini e Salvemini
Giunto alla fine di uno dei suoi ripetuti discorsi o lezioni su Mazzini, Salvemini enunciava ancora una volta un giudizio conclusivo, con parole in parte riprese dal suo vecchio profilo: «Queste verità Mazzini non ce le insegna solamente con i precetti gelidi di un uomo, che si è limitato a fabbricare delle idee astratte, e a scrivere libri più o meno ben congegnati. Ce le insegna – e questo importa soprattutto – con la suggestione potente del suo esempio; con lo spettacolo di tutta una vita, che fu una dedizione perenne alla legge del dovere. Sta nella forza delle fede, sta nella inesauribilità della abnegazione la forza della influenza di Mazzini, il segreto della sua perenne giovinezza». Era, come sempre, un giudizio diviso e sospeso, fra l’ammirazione morale e la diffidenza intellettuale, fra il sentimento e la ragione.
Sulla abissale distanza che allontanava la personalità di Salvemini da quella di Mazzini, non credo ci sia bisogno di insistere. Come ha scritto Franco Venturi, «tutto l’aspetto genericamente religioso, tutto l’elemento di tradizione retorica, nel miglior senso della parola, se volete, di Mazzini, tutta l’incapacità di questi di vedere i problemi economici, di conoscere scientificamente la realtà sociale, non poteva non allontanare Salvemini». E nonostante il crescente prevalere dell’ammirazione morale sulla «irritazione» intellettuale, confessato nella lettera a Rota del 1918, bisogna riconoscere che in Salvemini la consapevolezza della profonda diversità fra la propria struttura mentale e quella di Mazzini non venne mai meno. Per averne una prova, leggiamo uno dei suoi tanti appunti inediti degli anni Venti (destinato a una lezione o a una conferenza): «Tutte le basi del sistema mazziniano – l’unità organica del genere umano, la legge del progresso indefinito, l’allargarsi a zone sempre più larghe del metodo dell’associazione – sono più o meno discutibili negli elementi fondamentali o nei particolari più caratteristici. E se cade l’una, tutto il sistema si sfascia senza riparo». Si consideri una di questa basi: la legge del progresso indefinito.
Per un empirico, nel cui spirito non si sia fatta ancora la luce della rivelazione mazziniana, lo stato attuale della società è il risultato, dirò così meccanico, di tutti gli sforzi e di tutte le selezioni, che i diversi gruppi umani hanno compiuto nei secoli sotto l’aculeo dei propri bisogni, per raggiungere condizioni di vita meno penose. Quello che noi chiamiamo progresso o regresso, è il succedersi nella storia di forme di civiltà, che si avvicinano o divergono dalla civiltà in cui viviamo, o da quell’ideale di civiltà che noi più apprezziamo, date le nostre abitudini intellettuali e morali. Ma in quel viluppo di sforzi utili alla specie, o vani, o dannosi, in quel susseguirsi, elidersi, accumularsi di impulsi, di deviazioni, di resultati, spesso incoerenti e contraddittori, in cui consiste il cammino della storia, nulla ci dimostra un procedere continuo verso un unico fine, secondo un piano preordinato. Questa visione che chiamerò empirica della storia non sopprime certo nella nostra coscienza l’obbligo di lavorare con tutte le nostre forze a realizzare intorno a noi quell’ideale, che ciascuno di noi si fa della vita comune. E quest’ideale noi non ce lo fabbrichiamo arbitrariamente, contro ogni esperienza, perché questo significherebbe mettersi fuori di ogni realtà; ma attingiamo alla esperienza attuale e alla esperienza storica la certezza che altri uomini lavorano e hanno lavorato nella direzione, da noi accettata come la buona; - cioè il nostro pensiero risponde al pensiero di altri uomini; - riflette correnti più o meno estese di realtà attuali o possibili; - e quindi non siamo degli allucinati, anche se non siamo la unanimità, anche se siamo ancora una minoranza. Ma compiendo così il nostro dovere non abbiamo nessuna pretesa di essere ispirati da Dio, e ci guardiamo bene dal fare delle nostre idee morali e delle nostre iniziative politiche le manifestazioni della volontà di Dio. Voi comprendete che basta contrapporre questa concezione del processo storico alla legge del progresso indefinito, per vedere cadere subito disastrosamente in rovina buona parte del sistema di Mazzini.
Mi pare, questa, una pagina bellissima, che come poche altre meritava di essere tratta dall’ombra. L’idea del progresso indefinito, così profondamente radicata nel pensiero di Mazzini, era stata da Salvemini già ripetutamente confutata, fin dalla prima edizione del Mazzini. Ma ad essa, non aveva mai contrapposto con tanto calore, e con tanta sottile ironia, la sua umile e insieme orgogliosa fede di «empirico»; quella fede che venne precisandosi in lui nel corso degli anni Venti, e, rafforzatasi durante l’esilio, al contatto della cultura anglosassone e nella lunga lotta contro il fascismo, lo avrebbe sorretto negli ultimi anni, fino a quello scritto trovato fra le sue carte, Empirici e teologi, che da qualcuno è stato non a torto considerato come il «testamento».
Altrettanto fervore mette Salvemini nella confutazione di un’altra «base» del sistema mazziniano: quella che i popoli siano ispirati da Dio.
Un altro esempio. Voi potete credere in Dio, come credeva Mazzini; e nello stesso tempo potete rifiutarvi di ammettere che Dio voglia mai manifestare la propria volontà ispirando il popolo, convocato a suffragio universale. Quel popolo, in cui Mazzini infonde il pensiero di Dio, dopo averlo strappato ai papi infallibili e ai re di diritto divino, - quel popolo diventa estremamente pericoloso, per il fatto che diventa alla sua volta infallibile a somiglianza dei papi e dei re. Nella teocrazia democratica mazziniana, gli eletti delle maggioranze popolari, considerandosi eletti da Dio e strumenti di una missione non solamente politica, ma addirittura religiosa, imporrebbero la propria autorità, non solo con la forza, che verrebbe loro dal predominio numerico, ma anche con la intolleranza di chi è convinto di possedere l’assoluta verità, e sente il dovere religioso di attuarla. E le minoranze si opporrebbero alle maggioranze in nome, non solo dei propri princìpi politici, ma anche come affermatrici di una nuova rivelazione religiosa. Le lotte sociali e politiche non sparirebbero di sicuro; perché la unanimità è impossibile; ma presenterebbero l’aggravante di essere anche lotte religiose. Gli uomini, che introducono Dio nelle faccende proprie, e si ritengono ispirati da Dio, difficilmente praticano la virtù della tolleranza, e corrono un grave pericolo di riescire oppressori e brutali, anche se non sono cattivi […]. Chiunque, insomma, va, come Mazzini, alla ricerca di un’autorità spirituale, che unifichi in una nuova fede e disciplini in una unica azione tutti i suoi simili, - può senza dubbio invocare a sostegno della propria aspirazione tutti i danni che derivano dalla anarchia intellettuale, e dagli attriti politici, e dagli sperperi di energia, che sono il prodotto della libertà; - ma non riescirà mai a risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con la unità della disciplina, e cadrà dagli inconvenienti, senza dubbio gravissimi, della libertà, negli inconvenienti, assai più gravi, dei dispotismo, sia esso di un principe, o di una aristocrazia, o di una democrazia a suffragio universale [la sottolineatura è nostra].
Norberto Bobbio ha visto assai bene come il principio della tolleranza sia alla base del concetto salveminiano di democrazia, e come questo concetto sia strettamente collegato a quella visione empiristica della storia di cui ho parlato or ora. Le lezioni inedite da cui abbiamo stralciato questi brani ci dimostrano che queste riflessioni sull’essenza ultima della democrazia sono anteriori all’esilio di Salvemini, e risalendo con ogni probabilità al corso del 1922-23, sono da considerarsi concomitanti alle riflessioni da lui affidate, in quegli stessi mesi, al Diario. Sia questo «empirismo», sia il concetto, ad esso congiunto, della democrazia, si sarebbero approfonditi in Salvemini di anno in anno, fino agli ultimi giorni della sua vita.
Quando si vogliono fare i conti col pensiero politico di Mazzini, si deve dunque avere presente, sempre, il «sistema generale di idee teocratiche» e di «princìpi mistici» nel quale egli incastra le sue idee politiche, anche per più acute e geniali. Ma Salvemini aggiunge: «Però – badate – ponendovi a ragionare sul sistema mazziniano, voi vi mettete fuori dei confini, che il Mazzini si è tracciato! Voi non avete il diritto di ragionare. O meglio il vostro ragionamento è fuori luogo. Il Mazzini nega ogni valore all’analisi critica. Il suo non è un sistema filosofico; è una fede religiosa e mistica. E le fedi non si discutono: si respingono o si accettano». Il sistema religioso di Mazzini, nel quale si inquadrano e si congiungono anche le idee più felici, è come una falsa e brutta collana nella quale si legano perle belle e vere. Se la collana si spezza, ogni perla non perde centro il suo autonomo e prezioso valore. E solo queste perle, una per una, contano per noi.
Ma la infelice impalcatura teocratica, appesantita da tanto dogmatismo e misticismo, nella quale Mazzini incastra le sue idee, anche le migliori, non può andare confusa col suo senso religioso della vita. E in questo Salvemini non solo lo capiva, ma, pur con tutta la sua visione «empirica» e laica delle cose del mondo, in qualche modo gli rassomigliava; e anche tale rassomiglianza lo aiutava a capire Mazzini. Anche Salvemini obbediva, come disse, a «impulsi morali». E che questi impulsi morali «avessero una radice religiosa, non fece mai mistero»; è un’esatta osservazione di Bobbio. Si veda quel che gli diceva in uno dei suoi appunti: «Questa intenzione di universalità viene a Mazzini dalla sua fede religiosa. E chiunque voglia agire sugli altri uomini, e non è uno speculatore volgare, ha bisogno di essere sorretto da una fede religiosa, se vuol fare opera di vera bontà. Non è detto che tutti gli uomini debbano avere la stessa fede religiosa. I pensieri di Marco Aurelio sono un libro religioso né più né meno del Vangelo. Possiamo fare a meno, nel costruire la nostra religione, anche del postulato della divinità. Quel che importa, è che nella visione, che ciascuno di noi si costruisce dell’universo e della propria vita, entri il concetto della obbligazione, che ci incombe, di vivere non per noi, ma per gli altri».
Una volta assodata, da un lato l’inaccettabilità del sistema teocratico e mistico di Mazzini, dall’altro l’intensa religiosità da cui fu illuminata tutta la sua vita, e dopo aver messo in evidenza tutte le vistose lacune del suo pensiero, Salvemini aggiunse, e più volte ribadì, che Mazzini fu tutt’altro che un visionario, un allucinato, un uomo fuori della realtà. In Italia all’indomani della prima guerra mondiale, e più tardi in America, il nostro storico insistette su questo punto. Mazzini, diceva, ebbe acute intuizioni nel campo delle questioni internazionali e in quello delle questioni sociali. «La dura esperienza ha finalmente dimostrato quanto fossero fuori della realtà i sedicenti realisti; e quanto più vicine alle vive correnti della necessità contemporanea fossero le così dette ideologie democratiche e mazziniane».
Se noi non ci preoccupiamo dei legamenti logici troppo spesso arbitrari, con cui egli cerca di incatenare insieme i resultati delle proprie meditazioni, e le aspirazioni morali della propria anima, - se prendiamo in esame le basi della sua fede, non in quanto egli ha voluto costruirvi un sistema di filosofia, ma in quanto gli hanno suggerito una determinata linea di condotta politica, - noi troviamo che l’azione pratica di quest’uomo non è stata niente affatto quella di un allucinato, sequestrato dai propri sogni fuori della realtà, ma rispondeva alle correnti della realtà assai meglio dell’azione di moltissimi suoi contemporanei, che lo disprezzavano come allucinato, e che si credevano uomini assai più pratici di lui. Cavour, il quale dichiara altamente, nel 1860, alla prima Camera italiana, che egli rifiuterebbe qualunque acquisto territoriale gli venga offerto contro il diritto di nazionalità, non ha le idee religiose di Mazzini, è quel che Mazzini direbbe con disdegno un empirico; ma agisce nella pratica secondo la linea morale di Mazzini. La voce [di Wilson], che dall’America nel 1918 ci eccitò a persistere nella lotta, che spezzò la compagine morale del popolo germanico, che valse a condurci alla vittoria quanto, e forse più dei cannoni e dei miliardi, - fu una voce mazziniana.
E poi, anche riconosciuta l’importanza di tutti gli altri fattori che concorsero a produrre il miracolo del Risorgimento e dell’unità, «nessuno potrà mai negare che fra tanti fattori si trova in primissima linea la forza della predicazione e dell’azione di Mazzini. Oggi, a cose fatte, l’unità politica d’Italia ci sembra la cosa più naturale di questo mondo; e ci pare che debba esserci sempre stata. Ma novant’anni or sono, allorché Mazzini iniziò il suo apostolato, le cose stavano assai diversamente». E qui Salvemini ricordava ancora una volta lo scetticismo di Cesare Balbo nelle Speranze d’Italia, e di Cavour, sulla realizzabilità dell’idea unitaria.
Né è serio dire – come ha scritto uno storico, che pure è stato un uomo di ingegno e di spirito, Ernesto Masi – che non è dar segno di profezia il dire in agosto che un bel giorno nevicherà; - e quando nell’inverno cade la neve, sarebbe un bello sproposito vantarsi di avere profetizzato fino dall’agosto che un bel giorno nevicherà. Anzitutto – anche rimanendo nel campo della semplice previsione – affermare nel 1831 la necessità dell’unità d’Italia, che si realizzerà fra il 1859 e il 1870, non è altrettanto facile e sicuro che prevedere in agosto una nevicata pel prossimo inverno. Eppoi il Mazzini l’unità d’Italia non si è limitato a prevederla. L’ha voluta! L’ha voluta con animo ostinato, quando nessuno ci credeva; e l’ha predicata con pertinacia non mai rallentata, attraverso gli scherni, le delusioni, le sconfitte; dedicando alla propaganda della sua idea quarant’anni di vita intensa e dolorosa; vegliando quando gli altri dormivano; sfidando le calunnie degli avversari, l’abbandono degli amici, lo scherno degli scettici; persistendo violentemente nella propria fede, anche nelle ore, in cui tutto sembrava consigliargli desideri più limitati; - comunicando la propria speranza agli altri, con non altro mezzo, se non con essere tanto più incrollabile, quanto più i fatti sembravano sviarsi per direzioni contrarie alle sue idee.
Fu, quello di Mazzini, un lungo apostolato, durato quarant’anni. «Le idee non s’improvvisano e non si fanno accettare ad un popolo dalla sera alla mattina. Perché esse vengano accolte al momento buono, è necessaria una preparazione psicologica, fatta di lunga mano». E la conclusione dello storico è nettissima: «Tocca bene al Mazzini la gloria di avere alimentata lui nella storia d’Italia, con la teoria dell’unità, un’idea-forza, della quale tutte le altre han dovuto, attraverso alle multiformi vicende della nostra formazione nazionale, diventare subordinate e tributarie».
Alessandro Galante Garrone
(...)