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    Predefinito Salvemini fra storia e politica (1982)

    In «Nuova Antologia”, fasc. 2142, aprile-giugno 1982, Le Monnier, Firenze, pp. 3-19.


    Questo nostro ideale dibattito trae spunto dal recente volume di Alessandro Galante Garrone ricco di inediti salveminiani su Salvemini e Mazzini (in appendice: lezioni inedite di Salvemini) uscito da qualche mese nella Biblioteca di cultura contemporanea dell’editore D’Anna.
    Accanto alle conclusioni del libro di Galante Garrone, conclusioni stimolanti e originali, pubblichiamo un saggio del nostro direttore che dal libro prende spunto, e una testimonianza di un salveminiano d’eccezione, Leo Valiani, sui rapporti con Salvemini di tutta una generazione, anzi sul dibattito di tutta una generazione.


    1. Fra Mazzini e Salvemini

    Giunto alla fine di uno dei suoi ripetuti discorsi o lezioni su Mazzini, Salvemini enunciava ancora una volta un giudizio conclusivo, con parole in parte riprese dal suo vecchio profilo: «Queste verità Mazzini non ce le insegna solamente con i precetti gelidi di un uomo, che si è limitato a fabbricare delle idee astratte, e a scrivere libri più o meno ben congegnati. Ce le insegna – e questo importa soprattutto – con la suggestione potente del suo esempio; con lo spettacolo di tutta una vita, che fu una dedizione perenne alla legge del dovere. Sta nella forza delle fede, sta nella inesauribilità della abnegazione la forza della influenza di Mazzini, il segreto della sua perenne giovinezza». Era, come sempre, un giudizio diviso e sospeso, fra l’ammirazione morale e la diffidenza intellettuale, fra il sentimento e la ragione.
    Sulla abissale distanza che allontanava la personalità di Salvemini da quella di Mazzini, non credo ci sia bisogno di insistere. Come ha scritto Franco Venturi, «tutto l’aspetto genericamente religioso, tutto l’elemento di tradizione retorica, nel miglior senso della parola, se volete, di Mazzini, tutta l’incapacità di questi di vedere i problemi economici, di conoscere scientificamente la realtà sociale, non poteva non allontanare Salvemini». E nonostante il crescente prevalere dell’ammirazione morale sulla «irritazione» intellettuale, confessato nella lettera a Rota del 1918, bisogna riconoscere che in Salvemini la consapevolezza della profonda diversità fra la propria struttura mentale e quella di Mazzini non venne mai meno. Per averne una prova, leggiamo uno dei suoi tanti appunti inediti degli anni Venti (destinato a una lezione o a una conferenza): «Tutte le basi del sistema mazziniano – l’unità organica del genere umano, la legge del progresso indefinito, l’allargarsi a zone sempre più larghe del metodo dell’associazione – sono più o meno discutibili negli elementi fondamentali o nei particolari più caratteristici. E se cade l’una, tutto il sistema si sfascia senza riparo». Si consideri una di questa basi: la legge del progresso indefinito.

    Per un empirico, nel cui spirito non si sia fatta ancora la luce della rivelazione mazziniana, lo stato attuale della società è il risultato, dirò così meccanico, di tutti gli sforzi e di tutte le selezioni, che i diversi gruppi umani hanno compiuto nei secoli sotto l’aculeo dei propri bisogni, per raggiungere condizioni di vita meno penose. Quello che noi chiamiamo progresso o regresso, è il succedersi nella storia di forme di civiltà, che si avvicinano o divergono dalla civiltà in cui viviamo, o da quell’ideale di civiltà che noi più apprezziamo, date le nostre abitudini intellettuali e morali. Ma in quel viluppo di sforzi utili alla specie, o vani, o dannosi, in quel susseguirsi, elidersi, accumularsi di impulsi, di deviazioni, di resultati, spesso incoerenti e contraddittori, in cui consiste il cammino della storia, nulla ci dimostra un procedere continuo verso un unico fine, secondo un piano preordinato. Questa visione che chiamerò empirica della storia non sopprime certo nella nostra coscienza l’obbligo di lavorare con tutte le nostre forze a realizzare intorno a noi quell’ideale, che ciascuno di noi si fa della vita comune. E quest’ideale noi non ce lo fabbrichiamo arbitrariamente, contro ogni esperienza, perché questo significherebbe mettersi fuori di ogni realtà; ma attingiamo alla esperienza attuale e alla esperienza storica la certezza che altri uomini lavorano e hanno lavorato nella direzione, da noi accettata come la buona; - cioè il nostro pensiero risponde al pensiero di altri uomini; - riflette correnti più o meno estese di realtà attuali o possibili; - e quindi non siamo degli allucinati, anche se non siamo la unanimità, anche se siamo ancora una minoranza. Ma compiendo così il nostro dovere non abbiamo nessuna pretesa di essere ispirati da Dio, e ci guardiamo bene dal fare delle nostre idee morali e delle nostre iniziative politiche le manifestazioni della volontà di Dio. Voi comprendete che basta contrapporre questa concezione del processo storico alla legge del progresso indefinito, per vedere cadere subito disastrosamente in rovina buona parte del sistema di Mazzini.

    Mi pare, questa, una pagina bellissima, che come poche altre meritava di essere tratta dall’ombra. L’idea del progresso indefinito, così profondamente radicata nel pensiero di Mazzini, era stata da Salvemini già ripetutamente confutata, fin dalla prima edizione del Mazzini. Ma ad essa, non aveva mai contrapposto con tanto calore, e con tanta sottile ironia, la sua umile e insieme orgogliosa fede di «empirico»; quella fede che venne precisandosi in lui nel corso degli anni Venti, e, rafforzatasi durante l’esilio, al contatto della cultura anglosassone e nella lunga lotta contro il fascismo, lo avrebbe sorretto negli ultimi anni, fino a quello scritto trovato fra le sue carte, Empirici e teologi, che da qualcuno è stato non a torto considerato come il «testamento».
    Altrettanto fervore mette Salvemini nella confutazione di un’altra «base» del sistema mazziniano: quella che i popoli siano ispirati da Dio.

    Un altro esempio. Voi potete credere in Dio, come credeva Mazzini; e nello stesso tempo potete rifiutarvi di ammettere che Dio voglia mai manifestare la propria volontà ispirando il popolo, convocato a suffragio universale. Quel popolo, in cui Mazzini infonde il pensiero di Dio, dopo averlo strappato ai papi infallibili e ai re di diritto divino, - quel popolo diventa estremamente pericoloso, per il fatto che diventa alla sua volta infallibile a somiglianza dei papi e dei re. Nella teocrazia democratica mazziniana, gli eletti delle maggioranze popolari, considerandosi eletti da Dio e strumenti di una missione non solamente politica, ma addirittura religiosa, imporrebbero la propria autorità, non solo con la forza, che verrebbe loro dal predominio numerico, ma anche con la intolleranza di chi è convinto di possedere l’assoluta verità, e sente il dovere religioso di attuarla. E le minoranze si opporrebbero alle maggioranze in nome, non solo dei propri princìpi politici, ma anche come affermatrici di una nuova rivelazione religiosa. Le lotte sociali e politiche non sparirebbero di sicuro; perché la unanimità è impossibile; ma presenterebbero l’aggravante di essere anche lotte religiose. Gli uomini, che introducono Dio nelle faccende proprie, e si ritengono ispirati da Dio, difficilmente praticano la virtù della tolleranza, e corrono un grave pericolo di riescire oppressori e brutali, anche se non sono cattivi […]. Chiunque, insomma, va, come Mazzini, alla ricerca di un’autorità spirituale, che unifichi in una nuova fede e disciplini in una unica azione tutti i suoi simili, - può senza dubbio invocare a sostegno della propria aspirazione tutti i danni che derivano dalla anarchia intellettuale, e dagli attriti politici, e dagli sperperi di energia, che sono il prodotto della libertà; - ma non riescirà mai a risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con la unità della disciplina, e cadrà dagli inconvenienti, senza dubbio gravissimi, della libertà, negli inconvenienti, assai più gravi, dei dispotismo, sia esso di un principe, o di una aristocrazia, o di una democrazia a suffragio universale [la sottolineatura è nostra].

    Norberto Bobbio ha visto assai bene come il principio della tolleranza sia alla base del concetto salveminiano di democrazia, e come questo concetto sia strettamente collegato a quella visione empiristica della storia di cui ho parlato or ora. Le lezioni inedite da cui abbiamo stralciato questi brani ci dimostrano che queste riflessioni sull’essenza ultima della democrazia sono anteriori all’esilio di Salvemini, e risalendo con ogni probabilità al corso del 1922-23, sono da considerarsi concomitanti alle riflessioni da lui affidate, in quegli stessi mesi, al Diario. Sia questo «empirismo», sia il concetto, ad esso congiunto, della democrazia, si sarebbero approfonditi in Salvemini di anno in anno, fino agli ultimi giorni della sua vita.
    Quando si vogliono fare i conti col pensiero politico di Mazzini, si deve dunque avere presente, sempre, il «sistema generale di idee teocratiche» e di «princìpi mistici» nel quale egli incastra le sue idee politiche, anche per più acute e geniali. Ma Salvemini aggiunge: «Però – badate – ponendovi a ragionare sul sistema mazziniano, voi vi mettete fuori dei confini, che il Mazzini si è tracciato! Voi non avete il diritto di ragionare. O meglio il vostro ragionamento è fuori luogo. Il Mazzini nega ogni valore all’analisi critica. Il suo non è un sistema filosofico; è una fede religiosa e mistica. E le fedi non si discutono: si respingono o si accettano». Il sistema religioso di Mazzini, nel quale si inquadrano e si congiungono anche le idee più felici, è come una falsa e brutta collana nella quale si legano perle belle e vere. Se la collana si spezza, ogni perla non perde centro il suo autonomo e prezioso valore. E solo queste perle, una per una, contano per noi.
    Ma la infelice impalcatura teocratica, appesantita da tanto dogmatismo e misticismo, nella quale Mazzini incastra le sue idee, anche le migliori, non può andare confusa col suo senso religioso della vita. E in questo Salvemini non solo lo capiva, ma, pur con tutta la sua visione «empirica» e laica delle cose del mondo, in qualche modo gli rassomigliava; e anche tale rassomiglianza lo aiutava a capire Mazzini. Anche Salvemini obbediva, come disse, a «impulsi morali». E che questi impulsi morali «avessero una radice religiosa, non fece mai mistero»; è un’esatta osservazione di Bobbio. Si veda quel che gli diceva in uno dei suoi appunti: «Questa intenzione di universalità viene a Mazzini dalla sua fede religiosa. E chiunque voglia agire sugli altri uomini, e non è uno speculatore volgare, ha bisogno di essere sorretto da una fede religiosa, se vuol fare opera di vera bontà. Non è detto che tutti gli uomini debbano avere la stessa fede religiosa. I pensieri di Marco Aurelio sono un libro religioso né più né meno del Vangelo. Possiamo fare a meno, nel costruire la nostra religione, anche del postulato della divinità. Quel che importa, è che nella visione, che ciascuno di noi si costruisce dell’universo e della propria vita, entri il concetto della obbligazione, che ci incombe, di vivere non per noi, ma per gli altri».
    Una volta assodata, da un lato l’inaccettabilità del sistema teocratico e mistico di Mazzini, dall’altro l’intensa religiosità da cui fu illuminata tutta la sua vita, e dopo aver messo in evidenza tutte le vistose lacune del suo pensiero, Salvemini aggiunse, e più volte ribadì, che Mazzini fu tutt’altro che un visionario, un allucinato, un uomo fuori della realtà. In Italia all’indomani della prima guerra mondiale, e più tardi in America, il nostro storico insistette su questo punto. Mazzini, diceva, ebbe acute intuizioni nel campo delle questioni internazionali e in quello delle questioni sociali. «La dura esperienza ha finalmente dimostrato quanto fossero fuori della realtà i sedicenti realisti; e quanto più vicine alle vive correnti della necessità contemporanea fossero le così dette ideologie democratiche e mazziniane».

    Se noi non ci preoccupiamo dei legamenti logici troppo spesso arbitrari, con cui egli cerca di incatenare insieme i resultati delle proprie meditazioni, e le aspirazioni morali della propria anima, - se prendiamo in esame le basi della sua fede, non in quanto egli ha voluto costruirvi un sistema di filosofia, ma in quanto gli hanno suggerito una determinata linea di condotta politica, - noi troviamo che l’azione pratica di quest’uomo non è stata niente affatto quella di un allucinato, sequestrato dai propri sogni fuori della realtà, ma rispondeva alle correnti della realtà assai meglio dell’azione di moltissimi suoi contemporanei, che lo disprezzavano come allucinato, e che si credevano uomini assai più pratici di lui. Cavour, il quale dichiara altamente, nel 1860, alla prima Camera italiana, che egli rifiuterebbe qualunque acquisto territoriale gli venga offerto contro il diritto di nazionalità, non ha le idee religiose di Mazzini, è quel che Mazzini direbbe con disdegno un empirico; ma agisce nella pratica secondo la linea morale di Mazzini. La voce [di Wilson], che dall’America nel 1918 ci eccitò a persistere nella lotta, che spezzò la compagine morale del popolo germanico, che valse a condurci alla vittoria quanto, e forse più dei cannoni e dei miliardi, - fu una voce mazziniana.

    E poi, anche riconosciuta l’importanza di tutti gli altri fattori che concorsero a produrre il miracolo del Risorgimento e dell’unità, «nessuno potrà mai negare che fra tanti fattori si trova in primissima linea la forza della predicazione e dell’azione di Mazzini. Oggi, a cose fatte, l’unità politica d’Italia ci sembra la cosa più naturale di questo mondo; e ci pare che debba esserci sempre stata. Ma novant’anni or sono, allorché Mazzini iniziò il suo apostolato, le cose stavano assai diversamente». E qui Salvemini ricordava ancora una volta lo scetticismo di Cesare Balbo nelle Speranze d’Italia, e di Cavour, sulla realizzabilità dell’idea unitaria.

    Né è serio dire – come ha scritto uno storico, che pure è stato un uomo di ingegno e di spirito, Ernesto Masi – che non è dar segno di profezia il dire in agosto che un bel giorno nevicherà; - e quando nell’inverno cade la neve, sarebbe un bello sproposito vantarsi di avere profetizzato fino dall’agosto che un bel giorno nevicherà. Anzitutto – anche rimanendo nel campo della semplice previsione – affermare nel 1831 la necessità dell’unità d’Italia, che si realizzerà fra il 1859 e il 1870, non è altrettanto facile e sicuro che prevedere in agosto una nevicata pel prossimo inverno. Eppoi il Mazzini l’unità d’Italia non si è limitato a prevederla. L’ha voluta! L’ha voluta con animo ostinato, quando nessuno ci credeva; e l’ha predicata con pertinacia non mai rallentata, attraverso gli scherni, le delusioni, le sconfitte; dedicando alla propaganda della sua idea quarant’anni di vita intensa e dolorosa; vegliando quando gli altri dormivano; sfidando le calunnie degli avversari, l’abbandono degli amici, lo scherno degli scettici; persistendo violentemente nella propria fede, anche nelle ore, in cui tutto sembrava consigliargli desideri più limitati; - comunicando la propria speranza agli altri, con non altro mezzo, se non con essere tanto più incrollabile, quanto più i fatti sembravano sviarsi per direzioni contrarie alle sue idee.

    Fu, quello di Mazzini, un lungo apostolato, durato quarant’anni. «Le idee non s’improvvisano e non si fanno accettare ad un popolo dalla sera alla mattina. Perché esse vengano accolte al momento buono, è necessaria una preparazione psicologica, fatta di lunga mano». E la conclusione dello storico è nettissima: «Tocca bene al Mazzini la gloria di avere alimentata lui nella storia d’Italia, con la teoria dell’unità, un’idea-forza, della quale tutte le altre han dovuto, attraverso alle multiformi vicende della nostra formazione nazionale, diventare subordinate e tributarie».

    Alessandro Galante Garrone


    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Salvemini fra storia e politica (1982)

    2. Fra Mazzini e Cattaneo: la fede nell’umanità

    «Mazzini è affascinante fino al 1836, quando ormai si è costruito il suo pensiero e ci vive dentro come un baco nel bozzolo della seta; è interessante nel 1848, 1849 e 1859-60. Ma dal 1860 in poi diventa un prete che ripete il suo rosario con una monotonia spaventosa. Fosse morto anche lui nel 1861, come Cavour, sarebbe stato meglio per lui…». Così mi scriveva Gaetano Salvemini dall’università di Harvard, il 5 maggio 1948, ringraziandomi per l’invio di un libriccino di polemica repubblicano-revisionistica, intriso di Ferrari e di Gobetti e di Oriani, sulla rivoluzione del 1848 che, laureato da poco, non ancora ventitreenne, gli avevo inviato con qualche timidezza o paura: frutto acerbo ma schietto di un ripensamento globale della nostra composizione unitaria, che non mancava di accettare gli schemi stimolanti e sferzanti, anche se storiograficamente opinabili, della «rivoluzione mancata» e del «Risorgimento tradito» (oppure, con evidente e ostentata influenza gobettiana, «Risorgimento senza eroi»).
    Per la verità la lettera di Salvemini non si fermava lì, non si arrestava a quella tripartizione, pure impietosa, della parabola mazziniana: l’uomo che aveva contribuito a sostenere e assecondare, sette od otto anni prima, la «Mazzini Society», il nucleo dell’emigrazione antifascista di là dell’Atlantico, almeno nella primissima fase, ben conoscendo la potenza nazionale e religiosa di quel simbolo, bene scontandone tutte implicazioni.
    Nel testo integrale della lettera del maggio 1948, che non ho ancora pubblicato (ne anticipai, nella pagine dell’Italia dei laici, solo i frammenti più significativi), Salvemini giungeva a delineare un certo parallelismo, in chiave di sfogo polemico, fra gli aspetti remoti del nazionalismo mazziniano e quelli ancora recenti e brucianti del «nazionalismo sgonfione» - così testualmente diceva – caratteristici dell’esperienza fascista: «il nazionalismo e il fascismo si trovano in una metà del pensiero mazziniano, la democrazia illuministica forma l’altra metà ma è secondaria nel sistema. E Mazzini non tentò mai di conciliare le due metà». Giudizio sommario e tranchant che si inseriva, con una punta di risentimento umorale, in una frequentazione semi-secolare oscillante fra la devozione e la critica, fra l’adesione e il rifiuto.
    Ritrovo accenti e vibrazioni analoghe in una lettera di cinque anni successiva, del 19 ottobre 1953, che Gaetano Salvemini inviava non più da Harvard ma da Firenze a uno storico di origine azionista e di fermi meditati interessi democratico-riformatori, Alessandro Galante Garrone, che l’ha pubblicata nel quadro del volume da cui prende spunto questo nostro ideale dibattito. Libro che coincide, in realtà, con la storia di un’amicizia, raccontata con mano discreta, sottile, mai invadente, rispettosa anche nel dissenso, la decennale amicizia fra Salvemini, già maestro ad una generazione, e Galante Garrone, storico in formazione attraverso le indagini, anticipatrici e rivoluzionarie per i tempi, su Buonarroti e Babeuf e su Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento.
    «Sì, per molti anni ho sognato di scrivere un libro su ‘la formazione del pensiero mazziniano’ fino alla fine del 1835, quando quel pensiero si è cristallizzato definitivamente, perde l’incanto del divenire, non è più che il pensiero di un ‘prete’ che pesta sempre l’acqua nello stesso mortaio». Lo sfogo di Salvemini con Galante Garrone è patetico: il giovane storico del giacobinismo italiano gli sta addosso fin dal 1947, fin da quando l’ha conosciuto a Torino, insieme con gli esponenti della resistenza piemontese, perché il maestro (a nessun uomo la parola, retorica, solenne, dava più fastidio che a Salvemini) riprendesse gli antichi appunti, portasse avanti, in modo unitario e organico, il lavoro più volte ideato e sempre rinviato.
    Galante Garrone, che non ha mai conosciuto nessuna delle superbie accademiche, si offre come «assistente», come collaboratore disinteressato e silenzioso al fine di realizzare l’opera in qualche modo integratrice del potente ma anche un po’ prepotente «profilo» di Mazzini che Salvemini aveva scritto fin dal lontano 1905, pieno di chiaroscuri, e non senza taluni giudizi categorici e perentori.
    Un profilo che lascerà almeno in parte insoddisfatto, nel tempo, lo storico pugliese, che aveva «conosciuto» Mazzini attraverso Ghisleri, negli anni di fine secolo. Molti anni più tardi (siamo nel 1922) confidava in una lettera indirizzata a Piero Gobetti: «Il Mazzini oggi appare lavoro mediocre. Io non ne sono più contento. Lo ripubblico perché continua ad esser letto… E spero di rifarlo fra qualche anno». E in occasione della quarta edizione, apparsa meno di tre anni dopo, denunciava apertamente la mancanza nelle sue pagine del «Mazzini più vero e più affascinante». Era «il Mazzini che cerca se stesso attraverso le tragiche esperienze degli anni giovanili; e poi il Mazzini, che si raccoglie nella solitudine della sconfitta a rielaborare il sistema della propria fede; e poi il Mazzini degli anni maturi, che ritorna a contatto con la realtà, armato e nello stesso tempo deviato da preconcezioni oramai definitivamente fissate, e lotta con la realtà avversa, e le impone il proprio ideale unitario nel campo politico, ma vede nello stesso tempo fallire in un naufragio disperato tutto il suo pensiero religioso e sociale».
    A proposito: il «classico» su Mazzini nasceva da una prolusione del professione appena quarantenne all’università di Messina. Era una prolusione di centoventi pagine, tagliate per più di metà nel momento della cerimonia ufficiale, frutto di un isolamento assoluto e altero dello storico a tu per tu col suo «eroe». Uno storico di estrazione cattaneana, Salvemini, che affrontava Mazzini fin da allora con tutte le diffidenze inseparabili dal filone di Cattaneo.
    Il libro di Galante Garrone registra una devozione commovente, in questo come in altri punti della «reinterpretazione» mazziniana, fino al tema chiave dei rapporti col socialismo. A metà del ’49 è proprio Salvemini a proporre un lavoro a due mani, particolarmente lusinghiero per il giovane studioso (che bella cosa se potessimo fare «insieme» il libro). Nel dicembre del ’51, sembra che il progetto prenda corpo: «io vorrei cominciare – scrive Salvemini a Galante Garrone – dal lavoretto su Dante del 1827 e arrivare alla tempesta del dubbio – dopo la quale (ritorna il motivo di sempre) Mazzini non mi interessa più perché diventa ‘prete’ sicuro di se stesso e noioso come tutti i preti sicuri di se stessi». Fino alla lettera del maggio ’53, già ricordata.
    Al di là delle apparenti oscillazioni, la nostra impressione è che Salvemini non abbia mai pensato seriamente a riprendere in mano il vecchio lavoro, abbozzato e poi abbandonato, su Mazzini giovane. Le poche correzioni apportate in tante edizioni al volume centrale su Mazzini dimostrano che egli non aveva mai sostanzialmente rettificato il giudizio globale sull’apostolo dell’unità contenuto nel famoso libretto del 1905 che Pasquale Villari aveva aperto con una nota di timore e di fastidio, temendo che fosse una «cicalata» politica (e si era poi accorto che si trattava di un rigoroso inquadramento storiografico).
    Il complesso rapporto di Salvemini con Mazzini non era mai mutato. Illuminista e problematico, lo storico pugliese diffidava del misticismo mazziniano, respingeva le legge del «Dio e popolo», sottoponeva a severa analisi la traiettoria del progresso indefinito dell’umanità, allontanava da sé ogni residuo teocratico. Ma storico di razza qual era collocava esattamente Mazzini, anche con quella carica utopica e mistica, fra i grandi animatori del progresso storico, fra i creatori di una storia vivente, che riviveva ancora un secolo dopo, con la sua potenza educatrice e fascinatrice (ed ecco la «Mazzini Society», ecco l’influenza del mazzinianesimo su «Giustizia e libertà» e sul partito d’azione).
    Il contatto con l’empirismo e col pragmatismo anglosassoni, felicemente individuati da Bobbio, non solo non ha portato Salvemini a correggere il giudizio iniziale, ma semmai lo ha spinto a integrarlo e ad arricchirlo. Basterebbe rileggere la valutazione lapidaria rivolta ai suoi studenti dell’università di Harvard nel 1936, così come la riproduce Galante Garrone: «L’Italia che emerse dalle lotte del Risorgimento non era l’Italia di Mazzini. Era l’Italia di Cavour. Era monarchica e non repubblicana. Era oligarchica e non democratica. Il suffragio universale prese vita in Italia solo a partire dal 1913. Il Papa non fu scacciato da Roma. Ma sarebbe ingiusto dire che quella era l’Italia di Cavour e non di Mazzini. Senza le agitazioni provocate da Mazzini, Cavour sarebbe forse riuscito a conquistare la Lombardia per il suo re. Ma non sarebbe mai stato indotto ad accettare il piano dell’unità d’Italia». E concludeva: «Chi ‘fece’ l’Italia, Mazzini o Cavour? L’uno e l’altro. Mazzini fu l’apostolo, Cavour lo statista. Mazzini creò il problema. Cavour lo risolse. Cavour raccolse dove Mazzini aveva seminato».
    Qual è dunque il peso, il contributo specifico recato da Giuseppe Mazzini alla causa nazionale? Salvemini lo delinea ricorrendo a una illuminante citazione del «Mosé dell’Unità»: « ‘Volendo dieci, abbiamo prodotto due’: così Mazzini ha valutato una volta gli effetti della sua opera». E Salvemini spiega: «Questo due è stato l’unità politica d’Italia a produrre la quale hanno contribuito certo altre forze estranee al pensiero e dall’azione del Mazzini. Ma nessuno potrà mai negare che fra questa forze si trova in primissima linea quella che si è sprigionata dalla personalità del Mazzini.
    Il quale ha voluto l’unità d’Italia con animo ostinato, quando i più la reputavano puerilità, sogno di scolaretti.
    E l’ha predicata con pertinacia non mai rallentata, attraverso agli scherni, le delusioni, le sconfitte. Ed ha comunicato la propria fede ad altri, non con altro mezzo, se non con essere tanto più incrollabile quanto più i fatti sembravano dargli torto».
    «Ed ha ostacolato ogni altra soluzione del problema nazionale – aggiunge Salvemini – persistendo disperato nella propria idea, anche nelle ore in cui ogni cosa sembrava consigliare desideri più pratici e più limitati. Così egli ha popolarizzata in Italia l’idea dell’unità politica. Ha creata quella preparazione psicologica donde scaturirono nel 1859 le annessioni dell’Italia centrale, nel 1860 la meravigliosa spedizione dei Mille, nel 1862 e 1867 Aspromonte e Mentana; donde è scaturita in una parola l’unità d’Italia».
    Non è solo un bilancio d’insieme quello che Salvemini traccia di Mazzini nelle sue lezioni, nelle sue pagine, nei suoi frammenti. Obiettivo dello studioso, nella sottile analisi critica, lampeggiante di intuizioni, è quello di fissare con maggiore chiarezza i termini dei rapporti con alcuni dei movimenti più rilevanti del tempo, quali – per limitarsi ai maggiori – il romanticismo, il sansimonismo, il socialismo.
    Relativamente tarda l’adesione al romanticismo: si parla del 1827, l’anno dello scritto sull’Amor patrio di Dante inviato all’«Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux e messo da parte dal direttore, che lo giudicava non pubblicabile per certe intolleranze e animosità del linguaggio. Adesione consapevole alla nuova scuola romantica, precisa Salvemini, non romanticismo inteso come «sentimentalismo triste ed agitato, stanchezza delle formule letterarie tradizionali, desiderio indistinto di un nuovo orientamento poetico». Per Mazzini il romanticismo consiste soprattutto nel dare nuove forme e nuovo contenuto alla «tendenza europea». Come rileva Galante Garrone nelle pagine introduttive agli scritti e frammenti salveminiani, il romanticismo ha il merito di «porre a contatto gli italiani con le grandi correnti della civiltà».
    Dal romanticismo al sansimonismo. Alcune delle idee fondamentali del Sansimonismo – rileva Salvemini, che dedica particolare e ripetuta attenzione al tema – si ritrovano nitide in Mazzini: l’umanità è un essere collettivo che progredisce indefinitamente verso un’associazione sempre più perfetta di tutte le sue forze, sostituendo i diritti della capacità ai diritti della proprietà; - noi siamo vicini alla vigilia di una nuova rivelazione religiosa che aprirà un periodo organico nuovo nella storia dell’umanità – nell’era nuova l’umanità darà a sé stessa una gerarchia religiosa che coordinerà tutti gli sforzi verso il raggiungimento dell’Associazione universale».
    Ma Mazzini, aggiunge Salvemini, si distacca dal sansimonismo in quanto «ammette l’internazionalismo, ma come federazione di tutte le nazionalità libere ed uguali, non come negazione delle nazionalità; egli nega la parte eccezionale attribuita dai San-Simonisti alla Francia: quella parte egli riserva all’Italia». In sostanza, conclude Salvemini, «egli non adotta il San-Simonismo che fino al punto in cui egli sembra particolarmente atto a provare che l’unità d’Italia è un’opera divina, frutto di tutta l’evoluzione umana».
    Mazzini e il socialismo. È un tema che appassionò Salvemini, specie agli inizi degli anni venti. Qualcuno ha parlato, a proposito di Salvemini, di un graduale passaggio da Marx a Mazzini: quasi un cammino a ritroso, rispetto a quello compiuto dal proletariato nella seconda metà dell’Ottocento, allorché «il mazzinianesimo si manifestò incapace a servire come teoria del proletariato che si organizzava economicamente e politicamente sotto la protezione degli interessi di classe… e i nuovi venuti delle classi inferiori adottavano i princìpi del socialismo», accantonando quelli del mazzinianesimo.
    Torna in mente l’incisivo giudizio di Eugenio Garin sul socialismo di Salvemini, che Galante Garrone ricorda nelle pagine del suo libro: «Il suo socialismo invocava Marx e Labriola, e poi Cattaneo e i teorici del positivismo scientifico, ma in realtà era fatto di fraternità umana con i contadini della sua terra e di sete di giustizia».
    In realtà, per Salvemini, mazzinianesimo e socialismo sono due sistemi dottrinari radicalmente diversi: teoria religiosa e morale» il primo, «sistema economico e politico» il secondo. «Mentre il socialismo nasce dalla filosofia della necessità e dalla morale dell’utilità, il mazzinianesimo presuppone la filosofia della libertà e la morale del dovere».
    «Mazzini possedeva la fede che muove le montagne». «Mazzini fu un mistico. Ma sono i mistici, e non gli scettici, che muovono il mondo». Sono ancora alcuni dei bellissimi frammenti di argomento mazziniano che Galante Garrone ha raccolto dalle carte salveminiane, in materia a lui, tutte, donate. Mi ricordo un giudizio che Salvemini dette di Mazzini, all’università di Firenze, a fine novembre 1949, quando tenne la prima lezione nella vecchia facoltà di lettere di Piazza San Marco. «Mazzini non fu né un uomo di Stato né un filosofo. Fu un mistico. Chiunque vive per se stesso ma per gli altri è un mistico, anche se è un ateo».
    Aveva ragione Carlo Rosselli quando segnava il confine fra Mazzini e Cattaneo in un corsivo del «Quarto Stato», la rivista del revisionismo socialista, il 3 luglio 1926, alla vigilia dell’ultimo crollo delle pubbliche libertà. «È a Cattaneo più che a Mazzini che noi dovremo rifarci per una lezione di concretezza e di internazionalismo. Non c’è ragione di dubitare, però, che è a Mazzini che dobbiamo chiedere un atteggiamento di intransigenza religiosa». Ecco perché anche Galante Garrone è un «rosselliano», e, attraverso Rosselli, un po’ un «mazziniano».


    Giovanni Spadolini


    (...)
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    Predefinito Re: Salvemini fra storia e politica (1982)

    3. Allievo ideale di Salvemini

    Io sono stato, idealmente, solo idealmente perché di fatto non ho mai potuto studiare con lui, allievo anche di Salvemini. Sono stato anche suo compagno di lotta per molti anni, durante la dittatura fascista e in democrazia, fino alla sua morte. Penso che sia del tutto sbagliato parlare, a proposito di Salvemini, di un uomo sconfitto, così come sarebbe fuori luogo parlare di lui come di un vittorioso. Le anime di fuoco come Salvemini sfuggono a queste definizioni. Giordano Bruno fu arso sul rogo, Campanella fece 27 anni di prigione; passarono dei secoli prima che fossero rivalutati. Cattaneo e Mazzini sono morti esuli in Patria. Gramsci, quando morì, era uno sconfitto, se volete parlare di vincitori e di sconfitti. Egli era isolato nel partito che aveva adottato una linea politica che era la negazione della linea di Gramsci.
    In Russia quasi tutti i compagni, non di Gramsci soltanto, ma di Lenin, erano stati non solo sterminati sui patiboli o in Siberia, ma calunniati atrocemente come spie naziste, come spie di Hitler. Gramsci dunque era uno sconfitto, ma poi dopo è diventato un vincitore, vittorioso debbo dire soprattutto grazie al XX congresso del Partito comunista sovietico e a Kruscev, perché altrimenti sarebbe ancora mummificato, imbalsamato, ma mutilato nello spirito intimo di quello che fu il suo pensiero.
    Queste dello sconfitto, del vittorioso, sono etichette importanti quando si parla di un generale, di un uomo di governo, del segretario di un partito, e di un partito normale, non di un partito quale quello cui Gramsci aderiva nella clandestinità, ma di un partito qual è oggi il Partito comunista. Ed anche la motivazione, spesso ricorrente, del perché Salvemini sarebbe stato sconfitto, del suo presunto disprezzo per le masse, della sua sfiducia totale nelle masse, non mi pare esatto. Certo Salvemini cercava di valutare realisticamente le masse. Anch’egli poteva sbagliare. Io per esempio, in proposito ho sostenuto spesso delle polemiche con Salvemini. Se un giorno il suo epistolario sarà pubblicato integralmente, fino alla sua morte, vedrete le critiche che lui faceva a me e le mie repliche. Per esempio, io sostenevo nel mio primo libro sulla storia del socialismo nel secolo XX apparso nel 1943 al Messico e nel ’45 in Italia, che in Germania e in Italia c’era stata una situazione rivoluzionaria nel 1919. A mio avviso, le masse erano rivoluzionarie allora e fallirono invece i dirigenti. Salvemini contestava questo. A suo avviso, - oggi devo riconoscerlo, forse più realistico del mio – le masse non erano neanche nel 1919 nella loro maggioranza rivoluzionarie, né in Germania, né in Italia.
    Questo suo giudizio è del ’42, di quando cioè vide la prima stesura di quel mio libro. Non voglio dire che in proposito Salvemini avesse ragione al cento per cento, però un po’ di ragione l’aveva. Lo dico dopo aver studiato la questione per altri 30 anni. Non era così rivoluzionaria la maggioranza delle masse del ’19 come sembrava e come io, cresciuto alla luce della tradizione rivoluzionaria del movimento operaio, credevo che fosse. Questo vale non solo per l’Italia ma anche, come molti studi dell’ultimo trentennio, compresi quelli di tanti marxisti, hanno dimostrato, anche per la Germania.
    Che peraltro la sfiducia di Salvemini nelle masse non fosse totale, è documentata proprio dall’altra nostra polemica, quella svoltasi quando noi eravamo nel partito d’azione. Proprio perché il partito d’azione non aveva seguito le masse, Salvemini ci consigliava insistentemente di abbandonare al suo destino il partito d’azione e entrare nel partito socialista. Questo ce lo chiedeva nel ’43 nel ’44 nel ’45 e nel ’46. Nel partito socialista chiedeva naturalmente a noi che eravamo stati in Giustizia e Libertà di entrare. Agli altri, ai democratici mazziniani od amendoliani consigliava di entrare nel partito repubblicano, appunto il partito di Mazzini. Si capisce che non poteva consigliare a La Malfa o a Salvatorelli di entrare nel partito socialista. A loro suggeriva di entrare nel partito repubblicano. Ma a noi che gli eravamo vicini, a noi che eravamo veramente i suoi compagni, a noni che credevamo nel socialismo liberale di Giustizia e Libertà, Salvemini diceva «entrate nel Partito socialista perché lì ci sono le masse».
    Nell’ultimo carteggio che ho avuto con lui al momento della formazione del partito radicale, che Ernesto Rossi e Mario Pannunzio crearono, e nel quale Ernesto Rossi mi trascinò, Salvemini mi scrisse a un dipresso «non ci andare perché vi isolate dalle messe, rimani da solo, col socialismo liberale di Carlo Rosselli oppure vattene anche tu con Enzo Enriques Agnoletti, con Codignola, nel partito socialista perché lì ci sono le masse».
    Salvemini aveva cioè sfiducia nella possibilità di creare un forte partito radicale perché, diceva, non avrà le masse, ma non perché a lui fosse estranea l’idea laica. In conclusione, in quelle lettere stesse mi ripeteva ancora «guarda, - se non vuoi entrare nel partito socialista – la cosa da fare è di tener fermo al socialismo liberale di Rosselli». Socialismo liberale, - specifico io, e penso d’interpretare anche Salvemini – perché accetta il metodo della libertà, anche in economia, non vuole la socializzazione integrale, non vuole la dittatura, ma la democrazia, in politica e in economia, tutte cose che allora i comunisti respingevano perché c’era Stalin e che oggi accettano. Quindi anche in questo Salvemini fu, semmai, chiaroveggente.
    Io non ho seguito il suo consiglio, non sono entrato nel partito socialista; siccome ero già uscito una volta da un partito, ed ero uscito dal Partito comunista nel 1940 per i delitti di Stalin, non volevo uscire la seconda volta da un partito. Ma la mia persona non ha nessuna importanza. Noi dobbiamo fare il nostro dovere. Devo dire anche che dei grandi marxisti, quando si sono trovati in condizioni disperate hanno pure fatto così. Trotski, perseguitato a morte prima di essere assassinato, ripeteva continuamente questo. Egli era un vero capo di masse, uno dei più grandi oratori di massa che si ricordino, capo anche, con Lenin, di una delle più grandi rivoluzioni di massa, anzi della più grande che la storia abbia conosciuto. Ma in esilio, trovandosi quasi solo, calunniato, boicottato, infangato, diceva sempre: «fais que tu dois, advienne qui pourra», «Fai quello che devi, avverrà quel che potrà». Questo è l’atteggiamento che devono tenere gli uomini che hanno appunto ricevuto dalla natura, dalla provvidenza, se si preferisce, quell’anima di fuoco che invece molti generali o politici non hanno, mentre hanno invece, quelle altre doti pratiche che Salvemini non aveva. Essi devono essere giudicati sulle loro doti pratiche, Salvemini sulla sua capacità di nuotare contro il torrente come diceva lo stesso Giordano Bruno, come lo ripeté il capo del marxismo del nostro secolo, Lenin, che cambiò un po’ la frase e disse: «contro corrente». In quel momento, quando scriveva in tal senso, Lenin credeva ancora di morire forse senza vedere la vittoria. Nella sua conferenza del gennaio del ’17 a Zurigo ai giovani socialisti disse «voi giovani vedrete il socialismo, noi vecchi forse non più». La storia decise altrimenti.
    Salvemini, quando andò in esilio, disse «ci sono 99 probabilità su cento che io non riveda più l’Italia». Invece la rivide. La grandezza morale di Salvemini, a mio avviso, si rivela assieme ai suoi errori fattuali, proprio nell’esilio. Egli non credeva, lo confermano anche le sue lettere a Sturzo, che il fascismo durasse poco, «Se non ci sarà la guerra, durerà mezzo secolo», scrisse a Sturzo. Però, concludeva, dobbiamo fare il nostro dovere. Salvemini non credeva neppure che le democrazie occidentali sarebbero diventate facilmente antifasciste. Al contrario, denunciava l’appoggio che l’Inghilterra, ma anche la Francia e gli Stati Uniti, davano a Mussolini e poi a Hitler.
    Non si accorse neppure tempestivamente della probabilità che le democrazie occidentali avrebbero davvero abbattuto il fascismo, assieme all’Unione Sovietica, naturalmente, proprio assieme all’Unione Sovietica di Stalin, e questo invece è il merito di Stalin. Salvemini ancora non era sicuro che avrebbero abbattuto il fascismo, temeva ancora che lo avrebbero salvato, quando polemizzava con noi del Partito d’azione, con noi che partecipavamo alla direzione della Resistenza in Italia, che contava per l’appunto d’inserire l’abbattimento del fascismo nella vittoria comune degli angloamericani e dei sovietici.
    Le nostre polemiche di allora erano dovute anche dal fatto che noi volevamo una unità dell’antifascismo maggiore di quella che lui non ammettesse. Evidentemente, in quel momento Salvemini non si accorgeva che noi stavamo vincendo, vincendo come si può vincere in quelle condizioni di occupazione straniera, e pensava che dovessimo ancora mantenere quel distacco politico-morale verso gli americani, gli inglesi e i sovietici che poteva essere stato utile prima della seconda guerra mondiale, e fors’anche – ma questo è opinabile – prima dell’aggressione tedesca alla Russia, ma che dopo il ’41 era superfluo, perché il grande fronte internazionale antifascista si faceva strada malgrado il cinismo di Churchill o di Stalin.
    Quando però Salvemini tornò in Italia ci diede ragione. Anzi, ricordo, già quando alla fine del 1945 io gli feci visita ad Harvard, Salvemini mi diede un sacco di giornali, tutta la collezione dell’«Italia libera» di New York alla quale collaborava e mi disse: «guarda, Parri non l’ho attaccato», Parri era presidente del Consiglio ancora per pochi giorni. Salvemini aveva attaccato tutti i possibili governi, per la prima volta non aveva attaccato un governo.
    In realtà, anche Parri era criticabile, si sarebbe potuto criticarlo, ma Salvemini cominciava a capire e quando venne in Italia lo ammise, che sulla formazione d’una larga unità antifascista avevamo avuto ragione noi. E questa è la grandezza di un uomo: quella di saper riconoscere anche i propri errori. Ma c’è molto di più. Se dovessi dire chi nella lotta antifascista come individuo, ha avuto più importanza, contrariamente al giudizio di Benedetto Croce, direi che forse fu Salvemini. Come individuo, nessuno ne ha avuto più di lui, forse neanche Gramsci. È vero che il partito comunista nella lotta antifascista ha fatto molto più di tutti gli altri partiti, il movimento di «Giustizia e Libertà», stando l’esiguità delle sue forze, ha fatto prodigi, ma il Partito comunista ha fatto di più. Ma questo non era dovuto ad un singolo uomo, neanche a Gramsci. I comunisti che hanno veramente combattuto, nella lotta clandestina, in esilio, in Spagna, nella Resistenza, non si sono formati tutti sotto Gramsci. Furono le condizioni della lotta di classe in Italia, la rivoluzione russa, a creare quel partito di cui Gramsci ha avuto il grande merito di essere il capo più chiaroveggente e lungimirante in un certo momento.
    Invece, nelle condizioni dell’esilio, e adesso prescindo per un istante dai comunisti, che hanno avuto la capacità di organizzare un movimento di massa anche in esilio, in Francia, tolti i comunisti, per l’appunto, erano pochi quelli che avevano efficacia e fra quei pochi Salvemini, col suo grande discepolo, Carlo Rosselli, fece più di tutti. Parlo, naturalmente, di efficacia politico-intellettuale. In Spagna combatterono con le armi Rosselli, Longo, Picelli, Angeloni, Pacciardi e migliaia d’altri, non Salvemini.
    Croce ha scritto grandi libri, però, la lotta contro il fascismo, l’azione sistematica, quotidiana, di smascheramento del fascismo, l’ha condotta maggiormente Salvemini. Non poteva essere diversamente perché in Italia non si poteva pubblicare liberamente quel che si voleva. In esilio sì.
    Gli scritti di Sforza, Don Sturzo, Nitti, Nenni, Trentin ebbero grande importanza. Ma quelli di Salvemini avevano maggiore influenza fra i lettori francesi, inglesi e americani. Quei suoi libri, a mio avviso, evidentemente altri possono essere di altri parere, sono ancora validi, anche se sappiamo che i documenti ci proveranno che poi, ad un certo momento, la diplomazia mussoliniana sempre non diceva esattamente quello che lui le attribuiva. Ma, nella sostanza, i suoi libri sulla politica estera fascista, sulla dittatura fascista, sulla economia fascista, sulle condizioni della classe lavoratrice sotto il fascismo conservano una intrinseca validità. E, questo è molto importante, furono letti.
    Gli scritti di tanti altri non potevano circolare: chi conosceva gli scritti di Gramsci? Togliatti e Amendola, forse, Sraffa, ma chi altri? Quelli di Salvemini circolavano in America, in Inghilterra e in Francia, tradotti nelle rispettive lingue. Semmai Sturzo viene dopo di lui e Sforza, ma con ben altri efficacia propagandistica e con ben altro profondità di pensiero – rispetto a Sforza – Salvemini. Ora, il nazismo e il fascismo furono sconfitti perché, in un modo o nell’altro l’antinazismo e l’antifascismo fecero breccia politico-intellettuale in Inghilterra nel 1939 e negli Stati Uniti successivamente. Gli esuli vi concorsero.
    Ancora sull’intervento in guerra nel 1915. Direi che se siete tanto equanimi verso il fascismo, siate equanimi anche verso quegli interventisti che poi furono antifascisti. I documenti che hanno tirati fuori gli storici radicali tedeschi come Fritz Fischer e gli storici marxisti della Germania orientale, provano che Salvemini aveva perfettamente ragione nel denunciare il carattere pericoloso, per tutta l’Europa, dell’imperialismo tedesco dell’epoca. Se rileggete i suoi scritti del periodo dell’intervento, troverete che questo pericolo è continuamente sottolineato, anche se Salvemini naturalmente non poteva avere in visione, allora, i documenti segreti del ministro degli esteri o dello stato maggiore tedesco.
    Sbagliò su Mussolini, ma Mussolini fino al giorno prima era praticamente il capo del Partito socialista. Quanti altri sbagliarono ancora anni dopo su Mussolini. Ma insomma Salvemini per uno, due, tre anni sbagliò su Mussolini. Dal 1918 in avanti su Mussolini non sbagliò più e l’avversò sempre. Sui nazionalisti, invece, non sbagliò mai ed anzi rimproverò a Battisti di aver fatto un comizio a Roma per l’intervento assieme ai nazionalisti. In linea generale si può dire che l’intervento dell’Italia in guerra generò il fascismo; su questo sono d’accordo, l’ho sempre scritto, ma non credo che il fascismo venga proprio dalla soluzione liberale prevalsa nel 1870, soluzione che del resto Salvemini criticò.
    Sì, tutto viene da Adamo ed Eva. Ma senza l’intervento in guerra il fascismo non sarebbe nato. Però, questo non lo si sapeva allora. Certo è che Salvemini poi rettificò il suo atteggiamento, e dal 1915-16 in avanti fu l’antagonista principale, accompagnato poi da Bissolati, della politica estera italiana, di quella di Sonnino, ma anche di Salandra e poi di Orlando che giudicava tutte troppo nazionaliste. Lo chiamarono Salvemini rinunciatario, traditore, ma aveva ragione lui, nuotava contro corrente. Anche dopo la guerra, il suo movimento di ex-combattenti democratici si opponeva all’ex combattentismo nazionalista. Anch’esso comprendeva degli opportunisti, come quasi tutti i movimenti in Italia, ma comprendeva anche Ferruccio Parri e decine d’altri idealisti che ritroveremo nel partito d’azione della Resistenza.

    Leo Valiani
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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