In G. Spadolini, “L’Italia dei laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa (1925-1980)”, Le Monnier, Firenze 1980, pp. 95-134: 95-104; originariamente in “Nuova Antologia”, fasc. 2125-2126, gennaio-giugno 1978, Le Monnier, Firenze, pp. 168-199.


Guido De Ruggiero (Napoli, 1888 - Roma, 1948)
1. Sei mesi di governo

Benedetto Croce raccontò, in una bella pagina autobiografica del dopoguerra, la sua «nomina a sorpresa» al ministero della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti, a metà del 1920. Non conosceva Giolitti; non aveva ambizioni politiche; detestava Montecitorio (che ricambierà la sua antipatia, nell’interno anno di governo). Era stato chiamato d’improvviso da Olindo Malagodi, il direttore della Tribuna intimo del settantottenne presidente del Consiglio incaricato, senza neanche specificare il motivo della convocazione. Era partito in tale fretta da Napoli che aveva portato solo un abito da pomeriggio. Tutto fu così precipitoso che con quell’abito dovette recarsi dal Re per il giuramento, successivo di poche ore all’offerta formale di Giolitti: chiedendo al presidente un consiglio imbarazzato sull’etichetta, ne ebbe una risposta rassicurante, «il sovrano non badava a codesti formalismi».
L’episodio mi è tornato in mente leggendo e ordinando il quasi-inedito sulle «esperienze di un ministro» che la famiglia di Guido De Ruggiero, un nome che fu molto caro alla nostra adolescenza, uno dei grandi intellettuali dell’Italia della ragione che oggi si tende a dimenticare e i cui libri non sono ristampati come dovrebbero, mi ha trasmesso per un «ricupero» integrale sulle colonne del primo fascicolo, un volumone di oltre seicento pagine, della rinnovata Nuova Antologia (fasc. 2125-2126, gennaio-giugno 1978, pp. 168-199). De Ruggiero fu ministro della Pubblica Istruzione per meno di sei mesi, nel primo governo Bonomi, all’indomani della liberazione di Roma, da metà giugno a metà dicembre 1944. «Da un giorno all’altro – si legge in questo documento suggestivo ed emblematico – mi trovai investito della nuova carica e “spedito” (è il termine esatto) a Salerno dove era la sede provvisoria del governo».
Sono pagine autobiografiche che illuminano una delle fasi più drammatiche della storia d’Italia. De Ruggiero succedeva a un altro grande intellettuale che come lui militava nel partito d’azione ma con un animus diverso, più polemico, più puntuto, più insofferente, Adolfo Omodeo, ministro per meno di due mesi nell’ultimo malinconico governo Badoglio. Omodeo, cui non mancava una punta di asprezza giacobina, aveva tentato la «maniera forte». Aveva ripristinato un rigoroso esame di stato nelle scuole medie, in un momento in cui nulla funzionava, in cui tutto era sbriciolato. Le mura di Napoli erano tappezzate di scritte ironiche o polemiche contro il fedele collaboratore di Croce nella Critica. A De Ruggiero si chiedeva un’opera di pacificazione, di mediazione: nel rispetto della linea appena abbozzata dal predecessore, ma con le necessarie correzioni di rotta e attenuazioni di temperamento.
Con quali mezzi? Il quadro di De Ruggiero è rivelatore; nemico di ogni retorica, l’autore della Storia del liberalismo europeo ricostruisce quei mesi con mano discreta, sommessa, perfino ironica. «Spedito» a Salerno, come il suo maestro Croce, in un’Italia tanto diversa, era stato spedito a Roma ventiquattro anni prima, non trova nulla: il ministero è una larva, i funzionari non ci sono, la commissione alleata di controllo decide tutto, in Sicilia ha perfino creato gli «am-professori», con speciali e sommari e, diciamolo pure, arbitrari concorsi universitari. Mescolato con diversi altri nel vasto palazzo della provincia, il ministero che era stato di De Sanctis, di Croce e di Gentile (un uomo che pure aveva pesato nella formazione filosofica di De Ruggiero) si identifica con un fantasma, circondato solo dall’odio o dalla prevenzione di una popolazione, quella del Sud, su cui è estesa un’incerta e contrastata giurisdizione.
La vera e propria attività del neo-ministro comincia solo a metà luglio quando il governo si «accasa» a Roma, liberata da un mese e mezzo. «A Roma – annota De Ruggiero – c’era il ministero, ma in quali condizioni ridotto! Buona parte del materiale d’archivio era stata asportata al nord; il personale, latitante per nove mesi, tornava agli uffici in stato di grave depressione fisica e morale; le persistenti difficoltà di comunicazione rendevano estremamente arduo il censimento delle forze periferiche»… «Su tutti gravava un’aria di sospetto».
C’è solo un’automobile scassata al ministero: ha l’ordine di prelevare il ministro alle 8 del mattino – mi racconta la figlia – ma senza neanche aspettare un minuto, per gli altri giri che deve fare. I congiunti, dalla terrazza, debbono sbirciare l’auto che arriva al fine di evitare che l’autista riparta subito. De Ruggiero è abituato ad una vita monacale: nel ’41 il regime gli ha tolto la cattedra di storia della filosofia a Roma, per la riedizione laterziana del classico sul liberalismo (un libro che forse non è più neanche nel catalogo Laterza). Proviene dall’amministrazione e dal giornalismo; conosce la povertà dell’una e dell’altro. È stato, con Salvatorelli, funzionario di carriera al ministero dell’Istruzione, prima di tentare il concorso universitario; nell’intervallo ha militato nel giornalismo, come «elzevirista» prediletto da Missiroli, articolista secco, essenziale, gran semplificatore di problemi, anche, se necessario, corrispondente dall’estero come dimostrò con la bellissima, lucidissima inchiesta sull’Impero britannico dopo la guerra.
Quando arriva al ministero ha 56 anni, di cui sedici trascorsi nell’insegnamento universitario (come Omodeo, ha accettato il consiglio di Croce, ha giurato solo per restare nell’università, per evitare l’invasione dei mostri: senza mai una lode al regime, senza mai un cedimento, neanche di un’ora). Conosce bene la macchina della burocrazia, devastata ma non distrutta. Evita nomine politiche. Si avvale del concorso dei soli funzionari; ne rianima lo spirito di corpo. Annulla i congedi, i comandi, i vari «imboscamenti» (non ha dimenticato la lezione di Croce, quando egli, segretario poco più che trentenne alla Minerva, si era visto revocare il congedo proprio perché amico e discepolo del filosofo di palazzo Filomarino). È cauto con l’epurazione; non è animato da nessun spirito di vendetta, resta estraneo a qualunque rancore.
Nulla funziona; ma tutti vogliono riformare. La scuola esce da quello che De Ruggiero condanna come il «riformismo tellurico» della gestione Bottai («una delle imprese più nefaste è stata quella di sconvolgere la scuola mentre imperversava la guerra»). Il dibattito dilaga: scuola media unica con o senza latino? Sono i temi che accompagneranno, e travaglieranno, la Repubblica per un trentennio. Perfino gli alleati dicono la loro; il maggiore Washburn, capo della commissione alleata, avanza una tesi di transazione. L’ondata dei pedagogisti straripa; De Ruggiero, saggiamente, resiste. Si rende conto che il moto verso la scuola media unificata è inarrestabile; il rimpianto del vecchio ginnasio non lo paralizza.
Con l’Italia divisa in due, il nord sotto l’occupazione tedesca, il centro sotto il controllo alleato, il grande studioso capisce bene che non è l’ora del riformismo integrale. È l’ora, soltanto, della saggia e avveduta amministrazione. Un problema alla volta, e i più urgenti da affrontare, senza dilazioni o evasioni retoriche. Occorre abolire l’infausto libro di testo; non basta la sommaria epurazione, voluta dagli alleati. Occorre rielaborare i programmi scolastici. Occorre occuparsi seriamente dei maestri elementari; sono 200.000, solo 120.000 insegnano nelle scuole di stato, 50.000 sono disoccupati. Occorre affrontare una radiografia impietosa dell’istituto magistrale; così com’è non funziona, così come non funzionano le facoltà di magistero (dalle quali il professore proviene). Occorre riattivare il consiglio superiore della pubblica istruzione, quello poi che egli presiederà, spesso in contrasto col suo successore democristiano, negli anni 46-48, prima della morte prematura.
De Ruggiero, laico intransigente, non ha tabù né schemi fissi. Di fronte al tormentoso nodo dei rapporti fra scuola pubblica e privata, si muove nel solco crociano, contro ogni «monopolio statale dell’educazione», che «non corrisponde più – aggiunge con fermezza – né al nostro ideale né alla nostra situazione di fatto, perché lo Stato uscirà così stremato dalla guerra, e il bisogno di cultura sarà così accresciuto, che il concorso di privati e di enti morali dovrà essere inteso come una necessità». Libertà d’insegnamento, ma contro ogni privilegio, confessionale o meno. Nella visione rigorosa di quel pluralismo che egli ha teorizzato e esaltato vent’anni prima nella Storia del liberalismo, in antitesi ad ogni panteismo di stato, ad ogni deviazione di Stato etico.
Da buon professore universitario, De Ruggiero ministro conoscerà le maggiori delusioni proprio nel campo dell’università. Constata «il livello della cultura universitaria incredibilmente basso» (figuriamoci oggi!). Bolla la struttura universitaria come «invecchiata e insieme pletorica», schiacciata dalla doppia inflazione, di studenti e di professori. Pensa ad una riforma che parta dall’interno degli atenei; anticipa i lineamenti costituzionali dell’autonomia. Si rivolge ai rettori per un censimento dei problemi più urgenti. Aspetta indicazioni organiche per la riforma. Gli giungono solo richieste di nuove cattedre e di nuove facoltà. «Tutti vogliono più ampie dotazioni – commenta – come, se invece di essere sull’orlo del disastro, fossimo entrati in un periodo di floridezza economica». Dimentichiamo per un momento le date; cos’è cambiato dal 1944 ad oggi?


2. Amarezze per l’Università

Commemorandolo all’accademia dei Lincei, l’8 giugno 1949, sei mesi dopo la scomparsa, Luigi Salvatorelli, che con Mario Vinciguerra e Guido De Ruggiero aveva condiviso la guida del settimanale La Nuova Europa (quale eleganza! l’ex-ministro della Pubblica Istruzione, ancora non uscito da viale Trastevere, accetta di essere semplice redattore accanto a Salvatorelli direttore e a Vinciguerra redattore capo), ricorderà l’opera savia e accorta di ministro espletata dal filosofo scomparso in quei brevi, tormentosi mesi dell’«Italia spaccata in due». «Come ministro, egli rimase pochi mesi al potere, e ne uscì con un respiro di sollievo; si trovò nel periodo più difficile, e rimane somma lode per lui di aver messo mano animosamente, con purezza d’intenzioni e alacrità di lavoro, alla prima ricostruzione». Purezza d’intenzioni, e alacrità di lavoro: nello stile, sobrio e scarno, che era tipico del nostro grande storico e amico, era il massimo elogio che a quei sei mesi di azione governativa, frastagliata e intralciata da mille difficoltà, si poteva tributare.
A De Ruggiero non sfuggirono, in quel crepuscolo delle strutture dell’Italia autoritaria, in quell’alba incerta del regime di libertà, i problemi che avrebbero caratterizzato e in parte paralizzato il trentennio successivo. Il superaffollamento delle università, per esempio. L’autore del Ritorno alla ragione (un libro profetico, anche nel titolo, contro il divampare degli irrazionalismi che avrebbero turbato e insanguinato i nostri giorni) non esitava, fin da quelle pagine autobiografiche, a confessare che a lui le università – di allora! – sembravano troppe, o almeno mal distribuite, alcune pletoriche, altre semivuote. «Il primo problema è quello della riduzione delle facoltà e delle cattedre».
«Sarebbe desiderabile anche – aggiungeva con una nota di malinconia già scorata dalla breve esperienza consumata – la riduzione del numero delle università stesse; ma qui si urta contro resistenze quasi insormontabili, parte per l’orgoglio delle città che non vogliono essere private di antiche istituzioni culturali, parte per l’interesse delle popolazioni…». Occorre che «almeno le più vicine si accordino per integrarsi a vicenda, ciascuna conservando qualche facoltà più vitale, in modo da formare tutt’insieme un’università completa». Che è quasi l’abbozzo, e il presentimento, della programmazione universitaria di tipo flessibile e democratico (non pianificatorio e coercitivo) cui si sta guardando nei lavori in corso per la riforma universitaria.
Ma c’è una parola che affiora pure dalle pagine di De Ruggiero con un valore di pregnante anticipazione: la parola «selezione». «Mentre all’inflazione professorale si potrà porre rimedio con provvedimenti dall’alto, quella studentesca non è riducibile se non per le vie naturali di una graduale selezione, con esami più rigorosi nelle università e nelle scuole medie». È la condanna, anticipata, del permissivismo e del lassismo che hanno tanto disanimato e disarticolato la scuola italiana. De Ruggiero è perplesso sull’introduzione di esami di ammissione alle università («avrebbe una scarsa efficacia selettiva»); considera l’adozione del numero chiuso «un atto d’arbitrio»; è scettico, e fondatamente, sull’«obbligo della presenza ai corsi».
La colleganza accademica non fa mai velo all’uomo che ha impegnato tutte le sue energie, nel corso del ventennio, nella grande Storia della filosofia. Le tre ore di lezioni settimanali gli appaiono «irrisorie»; l’interpretazione dei doveri accademici accomodante e ipocrita. Il suo linguaggio non è dissimile, su questi punti, da quello di un grande intellettuale di origine marxista che non mancherà di legare il suo nome alla «Nuova Europa», pure nella distanza profonda che lo separava dai Salvatorelli e dai De Ruggiero, Concetto Marchesi. Nessuna preferenza alle facoltà umanistiche, dove anzi l’assenteismo dilaga; piuttosto un occhio di riguardo alle facoltà scientifiche dove «la collaborazione dei professori e degli allievi è molto più attiva». Quasi un’intuizione, o un’anticipazione, del dipartimento, nel senso anglosassone, sciolto, agile e non coattivo, cui purtroppo si guarda così poco in Italia: «bisognerebbe che ogni cattedra, o meglio ogni gruppo di cattedre affini, divenisse il centro di un istituto scientifico, dove professori, liberi docenti e assistenti cooperassero insieme e indirizzassero il lavoro degli allievi».
L’università come «comunione di vita più intima e più assidua». De Ruggiero ha viaggiato il mondo, conosce le esperienze anglosassoni, è nutrito di cultura, e di tradizioni, britanniche. Aborre da ogni corporativismo accademico. Guarda all’istituzione di borse di studio «nel maggior numero possibile», ma non penserebbe mai a qualcosa di intangibile, come i contrattisti o i precari coperti dalla tutela sindacale dei nostri anni. Mira a collegi universitari tipo la Normale di Pisa. Invoca il concorso di enti pubblici, di fondazioni morali, di privati. Vorrebbe che il maggior numero di giovani, al di fuori delle condizioni economiche, fosse invogliato agli studi, immesso nella vita universitaria, salvo il rigore, irrinunciabile, dei concorsi, delle prove successive per l’insegnamento (senza nessuna «ope legis»).
Ricorda, l’ex-ministro, di aver proposto un progetto di decreto legislativo («non feci in tempo a sottoporlo al consiglio») per uno stanziamento annuo di una prima somma di una diecina di milioni di lire – che il Tesoro aveva ridotto a cinque – per l’assegnazione di borse di studio. Aggiunge, con un presentimento del testo della Costituzione, con una prefigurazione netta dei «capaci e meritevoli»: «l’alta cultura non deve essere appannaggio della ricchezza, deve essere aperta ai più degni di conseguirla».
Non crede minimamente nel mito della laurea, quel mito che tanto concorrerà a creare la nuova fascia di scontenti, di emarginati, di frustrati, nucleo centrale dell’esercito degli autonomi ma non solo di quello. Sorride sulle tesi di dottorato: il più delle volte improvvisazioni, o raffazzonature, o appropriazioni disoneste del lavoro altrui. Pensa ad abolire la discussione della tesi; propende per una laurea identificata con un vero e proprio esame di abilitazione professionale. La tesi di dottorato si identifica in questa prospettiva con quello che i legislatori repubblicani chiameranno per anni, senza riuscire a tradurlo in atto, il «dottorato di ricerca» (un lavoro iniziato dopo il termine del corso, e discusso uno o due anni più tardi).
A De Ruggiero non sfugge la connessione fra pubblica istruzione e quelli che ancora non si chiamavano i beni culturali. La sua rivista, La Nuova Europa, sarà piena nei mesi successivi di polemiche e di discussioni intorno alla fondazione di un ministero delle arti, esteso, secondo la proposta formulata da Ragghianti, al settore del teatro, della musica, del cinema. Ma già nelle prime settimane del ministero a Salerno il successore di Omodeo mette allo studio «un piano di ampliamento della direzione generale delle belle arti, per includere in essa alcuni rami di attività artistica (teatro, cinema, radio), in seguito allo smembramento del ministero della cultura popolare».
È l’intuizione lucida e conseguente di quella che sarà la grande battaglia delle cultura laica per oltre un trentennio, culminata, solo col governo Moro-La Malfa, nella costituzione di un’amministrazione autonoma per i beni culturali, idealmente raccordata al settore dello spettacolo (e previo assorbimento del ramo ministeriale nato a quello scopo).
Niente cultura di regime; niente cultura di propaganda. Il contrasto si delinea fin dai mesi di Salerno. La vecchia burocrazia, inquinata da tante infiltrazioni fasciste, lavora per tenere in piedi un assurdo sottosegretariato per la stampa, erede, diretto o indiretto, dell’infausto ministero per la cultura popolare, strumento tipico del totalitarismo fascistico, nucleo di degradazione della cultura ad arma di encomio servile. De Ruggiero si oppone. Il 24 ottobre 1944 scrive a Bonomi, al suo presidente, una lettera molto ferma, rivelata proprio nel quasi inedito che riassume lo stile di un mondo.
È un documento fondamentale. Il ministro della Pubblica Istruzione ricorda che ha già troppe cose da fare, che non punta ad allargare le proprie mansioni. Chiede solo tout court la liquidazione del ministero della cultura popolare, «con tutto l’accentramento dei mezzi di propaganda che esso porta con sé». Respinge la troppo facile obiezione che sia ora in mani fidate, il sottosegretariato rinato dalle sue ceneri. «Data la fluidità della situazione politica – sono parole insieme amare e profetiche – è più che mai pericoloso conservare intatti gli strumenti del dispotismo, nella illusione che possano essere innocui». «Uno smembramento di quel ministero – incalza – creando un effettivo decentramento di poteri, e un diverso avviamento culturale, artistico, didattico e non “propagandistico” delle parti decentrate, sarebbe meglio rispondente al carattere e ai fini di un governo libero e democratico, come il nostro vuole essere».
«Avviamento culturale, artistico, didattico e non “propagandistico”». La visione di una gestione pubblica, e obiettiva, e scientificamente valida, dei beni culturali da parte della Repubblica nasce da quelle parole del gennaio 1945. Per certi aspetti Guido De Ruggiero – questo grande studioso dimenticato – si può considerare il profeta della svolta dei «beni culturali» nell’Italia degli anni settanta.

Giovanni Spadolini


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