Benedetto Croce (Pescasseroli, L'Aquila, 1866 - Napoli, 1952) e Luigi Sturzo (Caltagirone, Catania, 1871 - Roma, 1959)
di Marco Paolino – In G. De Rosa (a cura di), “Luigi Sturzo e la democrazia europea”, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 411-423.
Su “Il Popolo” dell’8 giugno 1948, Luigi Sturzo pubblicava un articolo in cui interveniva sul problema del voto palese in Parlamento alla luce delle polemiche – che in quei giorni animavano sia le aule parlamentari, sia gli organi di stampa – sull’opportunità di mantenere il voto segreto al Senato. Dopo aver ricordato che “il voto palese […] è il sistema di tutti i parlamenti dei paesi civili”[1], Sturzo denunciava il fatto che “in questo dopoguerra, i partiti di masse e i piccoli partiti hanno subito l’influsso della irregimentazione comunista, ed hanno introdotto nel Parlamento un sistema rigido di partiti al punto da tendere ad annullare la personalità del deputato”[2], il quale “rappresenta la nazione e non il collegio. La nostra costituzione repubblicana ripete [questo] principio nell’art. 67 […]”. Non è dunque possibile “né mandato di elettori né vincolo di partito o di gruppo. Se il deputato o il senatore si sente moralmente vincolato è un debole e un fedifrago; se l’elettore o il partito vincola il deputato viola non solo la coscienza del rappresentante nazionale, ma anche la costituzione”. Il voto segreto, in realtà, non è una forma di difesa dei parlamentari nei confronti dei partiti, bensì “un alibi per potere evadere dalla stretta della responsabilità morale di fronte all’elettore”[3]. Sturzo proseguiva nelle accuse al
sistema comunista [il quale] ha fatto presa sull’organizzazione dei partiti; una specie di mimetismo comunista si è diffuso nell’ambiente italiano, come in quello francese, dal 1944 in poi; si tratta di complesso di inferiorità, che ha fatto imitare perfino il tipo e i nomi di organizzazione. Ci sono “attivisti” da per tutto; e la reggimentazione è arrivata a creare la basi e lo spirito della partitocrazia.
Il voto segreto, visto come mezzo “per evadere da un controllo pubblico” non aveva più motivo di esistere perché i
cittadini italiani – alla pari dei cittadini di tutto il mondo civile – [vogliono] sapere come votano in singolo i signori deputati e senatori, e [vogliono] apprezzarne il coraggio, se questo sia proprio necessario per affrontare il voto palese nell’approvazione delle leggi, delle mozioni e degli ordini del giorno[4].
Sturzo sottolineava il valore paradigmatico delle democrazie occidentali, la cui esperienza doveva costituire per la giovane democrazia italiana un modello da imitare, ed insisteva su due punti specifici. Da un lato accusava il comunismo, responsabile – a causa del sistema rigido e burocratico di gestione del partito (la reggimentazione) – di aver gettato le basi della partitocrazia, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito in termini di controllo degli eletti, i quali avrebbero dovuto rispondere del proprio operato al partito e non più agli elettori. Dall’altro considerava il voto segreto come un paravento, come un mezzo concesso agli eletti per sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti degli elettori: la mancanza di un pubblico controllo avrebbe ancora di più accresciuto i poteri della partitocrazia.
Sullo stesso problema intervenne il giorno dopo Benedetto Croce con una lettera, pubblicata dal “Risorgimento liberale”[5], nella quale esponeva la propria opinione “circa il voto segreto” in polemica con le posizioni assunte in quel periodo da Sturzo. Croce esordiva affermando che non gradiva affatto che la questione specifica si fosse “sviata nell’altra generica o diversa di un dovere da inculcare e promuovere, cioè del coraggio che spetta all’uomo di dichiarare pubblicamente quel che egli approva o disapprova”. In realtà, il problema era un altro, e cioè la
necessità che un partito politico sente di tener in suggezione i suoi componenti e costringerli a farsi riconoscere come sostenitori o no di questo o quel provvedimento proposto all’Assemblea, e di affrontare la conseguenza del loro atto, che è nell’appoggio o no che il partito sarà per dare alla loro rielezione.
Nascondere questo “fatto con una divagazione di alta morale, alla quale nessuno presta fede” sembrava a Croce del tutto superfluo[6]. Costringere i parlamentari a votare secondo le direttive dei partiti era una vera e propria tentazione, “perché una tentazione è indurre l’uomo a dir sì quando il suo animo gli consiglia no”. Ma Croce diceva di più: nella vita politica e sociale imporre all’uomo di “far risuonare ad alta voce tutto ciò ch’egli pensa e chiede [è] contro l’ammonimento biblico che sermo opportunus est optimus”. E così proseguiva:
L’uomo, nel parlare, sceglie sempre, avvedutamente, il luogo e il tempo e l’occasione perché il suo parlare sia efficace e risponda ai fini, ancorché rigidamente morali, che egli si propone; altrimenti, vien biasimato come leggiero e imprudente, e pernicioso non solo a sé stesso ma ad altri. Questa è la realtà della vita sociale e politica, che è contrasto e lotta […][7].
Croce in tale modo sottolineava la specificità dell’agire politico: l’uomo politico non deve sempre dire la verità, ma deve saper anche mentire, se le circostanze lo esigono; a lui in ogni caso si richiede un sermo opportunus. La tesi qui esposta non era nuova in Croce, il quale già altre volte era ritornato su questi problemi: in uno dei Frammenti di etica, Dire la verità, egli distingueva la menzogna, che è da annoverare “tra i più gravi peccati morali”[8], dal “non dire il vero”: “in molti casi il verso non può né si deve dire” come ad esempio “nei casi di lotta (per difendersi da un masnadiere) […] ma anche in altri casi, che non sono di lotta (esempio classico: celare all’infermo la verità sul suo stato per non iscemare le sue forze vitali […])”. Ma – si chiedeva Croce – “che cosa significa ‘dire il vero’, ossia comunicare il vero agli altri?”[9]. Il vero, nel momento stesso che da ciascuno viene pensato, viene anche a sé stesso comunicato “in forza dell’unità di pensiero e parole […]. Il vero è il pensiero stesso nell’atto che pensa”. Come si fa a comunicare il vero agli altri? È possibile? Croce dice che in effetti “noi non comunichiamo mai il vero” e rivolgendoci agli altri “foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione di adeguarsi al nostro stato d’animo, di ripensare quel vero che pensammo noi […] non possiamo far altro che […] emettere suoni, che opereranno a preparare o agevolare effetti” in chi ci ascolta. Il problema, quindi, non è di dire o non dire la verità, ma di operare sugli altri affinché agiscano, perché l’esigenza primaria resta quella di favorire l’elevazione della vita degli altri; questa “esigenza si adempie col suggerire immagini che rechino con sé impulso di vita; e la forma generale di questo modo di operare si potrebbe chiamare […] oratoria” dai retori definita “arte di muovere gli affetti”. Molte volte (da Platone a Kant) “l’oratoria è stata vituperata, perché ‘non diceva la verità’; ma […] la colpa non era dell’oratoria, sibbene degli unilaterali filosofi, che non riuscivano a scorgerne le profonde ragioni e l’ufficio proprio”[10]. I discorsi che ciascuno fa “tendono a disporre [gli altri] verso noi, o verso le cose, nel modo che a noi sembra proficuo. E ciascuno adopera ad ogni istante immagini dell’irreale, sostituendo o attenuando quelle del reale, se queste possano riuscire nocive”[11]. La conclusione a cui perveniva Croce è che la vita ha bisogno allo stesso modo sia della verità, sia degli stimoli oratori[12]. Nella Storia dell’età barocca, il filosofo napoletano riprendeva questi argomenti e li trattava con particolare riguardo alla problematica politica: l’elemento “direttivo e coesivo” della Controriforma fu “l’accortezza: virtù che Ignazio di Loyola sopra le altre tutte cercava ai fini della società da lui fondata, di quella ‘compagnia’ com’egli da denominò con termine militare, che era una milizia politica […] l’accorgimento politico è il tratto che sintetizza nel pensiero comune tutto il moto della Controriforma, e il gesuita, alacre e prudente, flessibile e tenace, che non perde mai di mira l’interesse della Chiesa di Roma e non guarda ai mezzi purché conducenti a questo scopo ne è la figura popolarmente rappresentativa”. Ma – concludeva Croce – in nessun modo l’abilità politica rappresenta “un accrescimento mentale e morale”[13]. E facendo proprie alcune tesi esposte da Torquato Accetto nel suo trattato Della dissimulazione honesta, egli sottolineava come con la dissimulazione
l’uomo frena l’inutile e dannoso prorompere dei suoi sentimenti, e vince per forza d’ingegno, e vince sé stesso, che è la maggiore vittoria; e sebbene senta qualche dolore nel tacere quello che vorrebbe dire o nel ritenersi dal fare quanto gli viene posto innanzi dall’affetto, con quella sobrietà di parole e di fatti supera il senso e riceve quiete. Così gli è dato acquistare e non disperdere vigore per tollerare l’intollerabile, l’ingiustizia della sorte e degli uomini[14].
Proseguiva Croce: “La dissimulazione è tanto necessaria alla vita umana, che solamente nell’ultimo giorno, nel giudizio universale, quel velo potrà cadere, perché ‘allora saran finiti gl’interessi umani […] gli animi esposti alla pubblica notizia’”[15]. Ritornando all’articolo del giugno 1948, Croce esprimeva tutta la propria meraviglia nell’udire “che anche l’amico Don Sturzo, così esperto com’è di politica, batte sul dovere di dimostrare il ‘coraggio delle proprie opinioni’”; ed invitava Sturzo a rileggere quell’episodio del Morgante di Pulci, nel quale un frate, ingoiando un migliaccio, “si cuoce la bocca e gli occhi gli lacrimano” ed a chi gli domanda il motivo di quelle lacrime
risponde in tono sentimentale che gli è venuto in mente di essere rimasto solo con un compagno nel monastero in cui erano già più di trenta, tutti ormai morti: risposta ipocrita che Orlando crudelmente commenta con l’interrogazione: “Che nol dì tu che il migliaccio era caldo?”[16].
(...)
[1] L. Sturzo, Astratto rigorismo o costume politico?, in Id., Politica di questi anni (dall’aprile 1948 al dicembre 1949), vol. II, Bologna 1955, pp. 31-34, in part. P. 31.
[2] Ivi, p. 32
[3] Ivi, p. 33
[4] Ivi, p. 34
[5] Da notare che la lettera di Croce, pubblicata col titolo Una lettera di Croce sul voto segreto, è datata 7 giugno 1948, quindi è precedente alla pubblicazione dell’articolo di Sturzo. Tale lettera si trova colo titolo La segretezza del voto e il dovere morale, in B. Croce, Nuove pagine sparse, vol. I, Bari 1966 (1a ediz. 1949), pp. 434-36.
[6] Ivi, p. 434.
[7] Ivi, p. 435; il corsivo è nel testo.
[8] B. Croce, Dire la verità, in Id., Etica e politica, Bari 1973 (1a ediz. 1931), pp. 31-36, in part. P. 31.
[9] Ivi, p. 32
[10] Ivi, p. 33.
[11] Ivi, p. 34.
[12] Ivi, p. 35.
[13] B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari 1967 (1a ediz. 1929), p. 16.
[14] Ivi, p. 158.
[15] Ivi, p. 160.
[16] B. Croce, La segretezza del voto e il dovere morale, cit., p. 435. Vale la pena di ricordare che Croce conobbe Sturzo nel 1920, in occasione del congresso del Partito popolare che si tenne a Napoli del Teatro dei Fiorentini; ecco come il filosofo ricorda l’episodio: “[…] accadde […] che Don Sturzo, che io non conoscevo, avvertito della mia presenza […] venne e volle che io andassi con lui a mi assidessi in una poltrona sul palcoscenico, dove ascoltai e, com’è naturale, tacqui”. (B. Croce, Nuove pagine sparse, vol. I, cit., p. 82). Lo stesso Sturzo l’anno dopo, nel 1921, ebbe modo di manifestare l’apprezzamento suo personale e del Partito popolare a Croce per l’opera svolta in qualità di ministro della Pubblica Istruzione nel governo Giolitti; parlando all’Assemblea Costituente il 24 luglio 1947 Croce ricordò “che don Sturzo […] quando accadde la crisi del ministero Giolitti, venne da me a dirmi che il partito popolare avrebbe puntato sul mio nome per la nuova combinazione, e io gli feci osservare, ridendo, che egli aveva dimenticato che io ero un liberale”: B. Croce, Scritti e discorsi politici, vol. II, Bari 1963, p. 400.