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    Predefinito I diari di Pietro Nenni





    di Giuseppe Tamburrano – “Prefazione” a P. Nenni, “Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956”, SugarCo, Milano 1981, pp. III-VIII.


    Pietro Nenni è stato uno dei principali protagonisti della nostra storia nazionale. La sua presenza, la sua attività, le sue idee lasciano un segno nella vita politica fin dal secondo decennio del secolo. Nel 1921 entra nel Partito socialista e ben presto la sua personalità sovrasta quelle dei leader massimalisti, Serrati compreso. Nel 1923 organizza la rivolta della base del PSI contro la fusione tra socialisti e comunisti decisa a Mosca da Serrati. Durante gli anni dell’esilio lavora con successo per la riunificazione del partito con i riformisti di Turati, è alla testa della battaglia ideale e politica per l’unità della sinistra nella lotta contro il fascismo per la democrazia. È in Spagna, nelle trincee, armi in pugno per difendere la democrazia contro il “pronunciamento” del generalissimo Franco. Cresce la sua statura politica di dirigente del movimento socialista internazionale ed egli è ormai conosciuto dai lavoratori di tutto il mondo.
    Dopo la caduta del fascismo alla quale ha dato un contributo decisivo, Nenni riprende la battaglia politica in Italia ed è insieme a De Gasperi e Togliatti artefice della rinascita democratica del paese. La sorte ha voluto che egli restasse al suo posto più a lungo di De Gasperi (morto del 1954) e di Togliatti (morto nel 1964) e ha dominato la scena politica negli anni della lunga e faticosa riconquista dell’autonomia socialista e della maturazione del PSI come partito di governo durante l’esperienza di centro-sinistra. Benché avanti con l’età, Nenni combattente instancabile, ha lasciato un segno profondo nel periodo successivo alla crisi del centro-sinistra nella battaglia per i diritti civili nel paese e per la rinascita socialista nel PSI. Perciò di tutti i “padri” della Repubblica Nenni è il più vicino a noi, la sua esperienza è ancora viva e il suo pensiero un insegnamento attuale. Esperienze e pensiero consegnati a questi Diari che l’editore SugarCo comincia a rendere pubblici.
    Nenni li ha scritti giorno per giorno. Dopo una giornata di pesanti impegni politici: una seduta del Consiglio dei ministri, una riunione della direzione del PSI, una tournée oratoria, un viaggio, Nenni la sera si metteva al tavolino, raccontava la sua fatica quotidiana e confidava alla bianca pagina i suoi giudizi, le sue speranze, i suoi propositi, e spesso le sue delusioni e la sua stanchezza. Mentre i suoi compagni andavano in “osteria” egli – come mi confidò una volta – preferiva tornare a casa a godere della gioie semplici e solide della famiglia ma anche a continuare la sua fatica. Aveva una capacità rara di lavoro. Durante le riunioni o gli incontri prendeva appunti con estrema precisione. Ad esempio non so se ci sono i verbali dei Consigli dei ministri o dei Consigli di Gabinetto (riunioni ristrette di ministri) dei primi anni della rinascita, ma tra le montagne di carte di Nenni ci sono i resoconti di quelle riunioni, fogli sui quali con la sua calligrafia minuta Nenni prendeva nota delle deliberazioni e riassumeva fedelmente i discorsi dei partecipanti. Nenni annotava tutto dei Consigli dei ministri, come delle riunioni politiche per scrivere la sera o il giorno successivo la sua pagina di diario. Si serviva in genere delle grosse agende da tavolo che allora non erano quelle lussuose in pelle, che oggi si mandano in regalo a Natale, ma modeste e solide agende in cartone cerato. Non scriveva tutti i giorni, ma quasi. E saltò anche qualche anno (gli anni più grigi della sua vita politica). Ogni tanto aggiungeva uno o più fogli, ma in genere le sue annotazioni rientravano nella pagina dell’agenda o del quaderno.

    ***

    Non vi è bisogno di sottolineare il valore storiografico di questi Diari che contengono giudizi e propositi di uno dei tre uomini che hanno concorso in modo determinante a plasmare l’Italia che rinasceva a nuova vita dalla macerie materiali, morali e politiche del fascismo e della guerra.
    Alcuni giudicheranno questi Diari dall’alto del loro “senno del poi” e sentenzieranno: “Nenni ha sbagliato qua, Nenni non ha capito là”. Non è questo il modo giusto di leggere questa straordinaria opera. La quale ci aiuta a capire come e perché sono maturate certe decisioni che ci condizionano tuttora: ad esempio la scissione socialista del 1947, la rottura della collaborazione governativa tra la sinistra e la DC, il Fronte popolare. Ci aiutano a capire perché la DC è diventato il partito egemone, perché il PCI ha rovesciato i rapporti di forze col PSI, perché il Partito socialista si è stretto al PCI in un’alleanza che per poco non è diventata la sua camicia di Nesso, perché lo ha fatto sotto la leadership di un uomo, Pietro Nenni, che prima di allora, fin dal 1923, e dopo di allora, è stato l’alfiere e l’artefice dell’autonomia socialista.
    I Diari confermano in tante pagine che i protagonisti della nuova vita democratica si muovono al buio o quasi. Hanno lasciato l’Italia venti anni prima. Tante cose sono accadute in quegli anni. Una generazione è stata educata dal fascismo e non ha conosciuto la democrazia. Non sono disponibili test elettorali o sondaggi idonei a rivelare il volto del paese, i giornali non esprimono grandi correnti di opinione. C’è stata la Resistenza con la partecipazione attiva di grandi masse, c’è il “vento del Nord” che soffia impetuoso, c’è l’entusiasmo incontenibile delle folle nei comizi. Sembrava che mentre un pugno di conservatori e di moderati protetti dalle potenze occupanti tentavano disperatamente di arginare la rivoluzione democratica e socialista, il paese reale irrompesse sulla scena politica per spazzare via la monarchia e i ceti dominanti responsabili del fascismo e della guerra.
    Di questa irrefrenabile ondata di rinnovamento Nenni fu la espressione più autentica. Il suo problema era uno solo: demolire al più presto le strutture del vecchio Stato, riformare le istituzioni e dare il potere al popolo prima che si esaurisse l’onda della rivoluzione democratica e i difensori della “continuità” occupassero lo Stato. La sua fretta, la sua “intemperanza”, il suo radicalismo disturbavano sia i conservatori moderati (De Gasperi) sia i moderati rivoluzionari (Togliatti). Ma quello che si è costruito in quella breve e intensa stagione lo si deve per tanta parte a Nenni e alle sue pressioni, a cominciare dalla Repubblica che fu una vittoria nella corsa contro il tempo.
    La sua opera esigeva l’accordo tra le forze antifasciste e, in quel quadro, l’unità della sinistra. Nell’Italia uscita dalla Resistenza era inconcepibile la rottura col PCI, col partito che era stato il protagonista della Resistenza e che sembrava fosse il partito più forte in assoluto; nell’Italia uscita dalla disfatta fascista e dalla guerra di Liberazione era una certezza che la maggioranza degli italiani fosse con la sinistra. Un governo di sinistra non evocava gli spettri e i pericoli di oggi: lo stalinismo e la guerra fredda sono cupe realtà della fine degli anni Quaranta e degli anni Cinquanta. Negli anni immediatamente successivi al crollo del fascismo i comunisti sono al governo e l’Unione Sovietica è alleata delle potenze occidentali occupanti.
    Le elezioni del 1946 furono una rivelazione, un fatto imprevedibile: il PCI non solo non era il partito più forte, ma era addirittura il terzo, a due punti dal PSI. Il giorno dopo quel risultato si avvia il meccanismo della scissione. Saragat vuole che il PSI costruisca il primato socialista prendendo le distanze dal PCI; Nenni punta ad una alternativa di sinistra a guida socialista.
    Apparentemente i fatti hanno dato ragione a Saragat. Ma nessuno può dire come sarebbero andate le cose in Italia se il secondo partito, il PSI, fosse rimasto unito. È probabile che Saragat, minoranza in un primo momento, avrebbe conquistato la leadership quando la guerra fredda e l’involuzione staliniana avessero reso più chiari i termini delle scelte: questa era la convinzione dello stesso Nenni. È probabile, per non dire certo, che il PSI se fosse rimasto unito non avrebbe scelto il Fronte popolare nel 1948. La scissione invece rese illusori entrambi gli obiettivi sia quello di Saragat che quello di Nenni. Se non si fosse spaccato, dopo la rottura tra Occidente e Unione Sovietica, il Partito socialista forte del consenso elettorale del 1946 e della sua posizione centrale nello schieramento politico avrebbe potuto diventare il perno della vita pubblica, quale che fosse stata la sua scelta: al governo con la DC o all’opposizione in piena autonomia da Mosca.
    Dopo la scissione la politica frontista fu una scelta obbligata? Non è possibile affrontare questioni così impegnative nelle poche pagine di questa presentazione e mi limito a fare qualche rapida osservazione. Il partito nato dalla scissione rimase un partitino e fu subalterno alla DC. Si può dire che se tutto il partito avesse fatto la scelta di Saragat, il socialismo italiano si sarebbe risparmiato la parentesi frontista e la sudditanza alla DC. Ma questa è una obiezione reversibile: se Saragat fosse rimasto nel partito avrebbe condizionato Nenni e avrebbe impedito al PSI di mettersi a rimorchio del PCI.
    Ma forse più che l’esperienza del socialismo italiano diviso in due tronconi entrambi deboli, è istruttiva l’esperienza del socialismo francese che ha fatto, senza gravi rotture interne, una scelta simile a quella di Saragat: pur avendo conservato la sua forza elettorale, si è screditato e indebolito politicamente compromettendosi con la corruzione e con il colonialismo. Tra Guy Mollet e Pietro Nenni, tra la SFIO e il PSI, non credo che si possano avere dubbi o esitazioni nel giudizio storico e politico.
    Il nocciolo del problema in Italia e in Francia era il rapporto con l’altro e più forte partito di sinistra, il Partito comunista, in tempi in cui la guerra fredda esasperava le scelte, creava un clima di crociata e rendeva difficile ogni forma di “non allineamento”. Probabilmente tra Mosca e Washington la scelta non era netta, vi era una terza strada: il PSI poteva essere all’opposizione contro la conservazione, contro la violenza di Stato, contro l’oltranzismo atlantico senza confondersi con il PCI, senza contaminarsi con lo stalinismo e la strategia sovietica.
    Nenni è stato vittima della gigantesca e allucinante mistificazione del “Primo Stato socialista”. Quando capì fino in fondo cos’era il socialismo sovietico, subì un trauma non solo politico, ma anche psicologico. Sul terreno politico riprese con grande vigore la sua battaglia di sempre per l’autonomia. Psicologicamente diventò un altro: meno giacobino, più problematico, meno passionale e più diplomatico; meno certezze, più cautele e realismo. I Diari sono una testimonianza di grande significato di questo dramma politica ed umano.


    ***

    Le rivelazioni sono numerose e le scoprirà lo storico e il lettore informato (ad esempio le iniziative di Pella verso il PSI dopo le elezioni del 1953). Vorrei ricordare una pagina che è un fascio di luce sulle cause della rottura tra socialisti e comunisti. Dopo le elezioni del 1953, il 14 giugno, Nenni e Togliatti si incontrano a Formia. Il leader comunista preme perché i socialisti creino le condizioni di una loro partecipazione al governo. Preoccupato è Nenni perché – pensa – per il PCI la nostra partecipazione al governo è comunque un guadagno; noi rischiamo molto se facciamo un passo falso. Resta, anche dopo il superamento del frontismo nelle elezioni del 1953, una intesa di fondo tra comunisti e socialisti nella diversità dei ruoli e di collocazione parlamentare e di governo. Successivamente il PSI formulerà solennemente al congresso di Torino del 1955 la sua proposta di un accordo di governo con la DC, anche con l’esclusione del PCI. Ed il PCI, fedele alla visione togliattiana, non criticò quella proposta, anzi l’appoggiò perché riteneva che la presenza al governo di un partito dei lavoratori rappresentasse uno spostamento a sinistra dell’asse della politica e del potere. La rottura avvenne dopo il XX congresso di Mosca, dopo la rivelazione dei crimini staliniani, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria che il PCI approvò come una dolorosa necessità. Il quell’ “indimenticabile 1956” (l’espressione è di Ingrao) il PSI guarì dell’infezione marxista-leninista che era stata una specie di scarlattina. Per il PCI era una conformazione congenita più difficile a guarire. E Nenni andò solo per la sua strada, la strada dell’autonomia e dell’apertura a sinistra, perdendo l’appoggio del PCI, anzi incontrando su quella strada l’ostilità più dura dei comunisti.
    È lecito chiedersi che cosa sarebbe accaduto se la dissociazione del PCI dai metodi e dai fini del socialismo reale fosse stata tempestiva e senza equivoci, se Togliatti avesse scritto sul XX congresso i saggi che scrisse Nenni su “Mondoperaio” invece di limitarsi all’intervista a “Nuovi Argomenti”: tutto sarebbe stato diverso!
    Certo, la storia non si fa con i “se”: “se” Saragat, “se” Togliatti. E questa è forse una lezione della esperienza di Nenni per il nuovo PSI: insegna che il Partito socialista non deve mai subordinare le sue scelte alle scelte altrui, anche se deve operare con senso di responsabilità per far maturare sbocchi unitari nella chiarezza ideale e politica. Ed è la regola che ha applicato Nenni stesso a partire dal 1953 e – più decisamente – dal 1956.
    L’importanza storiografica di questi Diari è eccezionale. Ma eccezionale è anche il valore umano ed eccezionale è la qualità letteraria delle pagine di Nenni. Sono una miniera inesauribile di annotazioni rapide e fresche su uomini e cose; di sentimenti delicati, di grandi sofferenze appena accennate quasi con pudore. C’è l’immenso cuore di Nenni che non sa odiare, incapace di rancori, gelosie, maldicenze. Eppure Nenni non era uomo di compromessi: era uno spirito giacobino sempre e tutto da una parte. Un aspetto della sua grandezza come uomo politico sta in ciò che egli era tanto appassionato nelle sue battaglie quanto sereno nei suoi giudizi. Combatteva con foga, ma sempre rispettoso del suo avversario.
    Protagoniste di questi Diari, e specie degli anni 1943-53, sono le folle. Tanti hanno detto che Nenni era un grande tribuno. Non solo quello: questi Diari mostrano il suo talento di scrittore. Lui era convinto di essere principalmente un giornalista – in una pagina lo dice rammaricandosi di aver voluto, sbagliando, fare altre cose. E fu un grande giornalista, capace con i suoi articoli chiari e caldi di portare i giornali a tirature altissime, non solo in Italia ma anche all’estero, in Francia in particolare. E nessuno dei suoi critici o avversari politici ha potuto negare la statura dell’uomo politico, del dirigente e dello statista. Uomo del grande secolo rivoluzionario, l’Ottocento, nutritosi della letteratura sociale francese e delle opere storiche di Marx concepiva il ruolo del dirigente socialista come intuizione dei bisogni del popolo lavoratore e traduzione di essi in azione politica: “Tout par le peuple, tout pour le peuple”. Perciò era prima di tutto un tribuno nel senso migliore della parola. Il rapporto con i lavoratori che gremivano le piazze più larghe d’Italia quando parlava Nenni era la fonte principale della sua carica di energia, della sua volontà di lotta e anche, in grande misura, delle sue scelte politiche. Quando parlava, vibrando di autentica passione politica, faceva vibrare le folle che l’ascoltavano ed esse si identificavano nelle sue parole, nei suoi slogan incisivi. Nenni dava voce ai sentimenti, ai bisogni, alle aspirazioni delle grandi masse di lavoratori stretti sotto il podio. L’entusiasmo spinto al delirio e al feticismo che egli suscitava gli davano la certezza della vittoria. Credeva di tastare il polso al paese che usciva con le ossa rotte ma con ferma determinazione democratica dalla dittatura e dalla disfatta. E forse quelle folle acclamanti non gli hanno fatto vedere l’altra Italia, quella che disertava i comizi e che affluiva compatta alle urne spinta dalla paura del comunismo e dalla promessa dello “sfilatino” americano.
    Tra il Nenni del 1948 e il Nenni del 1956, tra il frontismo e l’autonomismo, sembra che ci sia un contrasto insanabile. Ed invece vi è un filo di continuità. Tra allusioni e disinganni, errori e insuccessi, Nenni incarna, con sostanziale coerenza nel mutarsi delle condizioni oggettive, un’idea semplice e giusta: che la lotta per il socialismo si fa nella democrazia e con l’unità di tutti coloro che al socialismo sono interessati. Se nel corso degli anni della Repubblica qualche volta è stata sacrificata la democrazia all’unità e qualche volta l’unità alla democrazia, bisogna chiederne conto non solo a Nenni, ma ad altri.


    Giuseppe Tamburrano



    https://www.facebook.com/notes/pietr...4150168034815/
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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    ​I diari di Pietro Nenni (II)






    di Giuseppe Tamburrano – In P. Nenni, “Gli anni del centro-sinistra. Diari 1957-1966”, SugarCo, Milano 1982, pp. III-XIII.


    Questo volume contiene le annotazioni che Nenni registrava, di solito la sera, sui suoi quaderni, relative agli anni 1957-1966, al decennio della svolta socialista dal frontismo al centrosinistra, alla unificazione socialista. Un decennio di grandi trasformazioni: il miracolo economico cambia un paese agricolo in una società industriale terziaria, modifica la struttura dei consumi e la scala dei valori sociali; i sindacati si uniscono e i partiti di sinistra si dividono; fioriscono nuove filosofie e molti disegni politici; socialisti e democristiani giungono ad un appuntamento tante volte preso e tante volte mancato; il mondo vive una lunga stagione di distensione ogni tanto interrotta bruscamente dal rumore sinistro delle armi.
    Nenni è al centro degli avvenimenti, di nuovo protagonista dopo la lunga eclisse parziale del frontismo: e gli avvenimenti sfilano in questi quaderni scritti con penna chiara e incisiva che gli conosciamo e alla quale gli anni e le dure prove della lotta politica non hanno tolto sincerità e immediatezza.
    Non tutti gli anni hanno lo stesso spessore. Il 1957 è di poche pagine; nel 1958 Nenni non ha preso un solo appunto. Eppure sono due anni importanti. A febbraio del 1957 si tiene il congresso di Venezia del PSI. È il congresso della svolta autonomistica, uno dei congressi chiave della storia del socialismo italiano. La relazione di Nenni ebbe un applauso interminabile che sancì il distacco definitivo del partito socialista dal comunismo sovietico. Non vi è un solo rigo dedicato a quell’avvenimento che apriva nuove prospettive all’iniziativa di Nenni e tra queste l’unificazione socialista avviata l’anno prima con l’incontro tra Nenni e Saragat a Pralognan. Perché?
    E perché Nenni non apre mai i suoi quaderni nel 1958? Eppure in quell’anno si tengono elezioni politiche e il leader socialista torna agli incontri – che lo esaltano – con le grandi folle dei suoi comizi; eppure in quelle elezioni non passa la linea di “sfondamento a sinistra” di Fanfani il quale, diventato potentissimo segretario della DC, mira a recuperare per il suo partito la maggioranza assoluta del 1948; eppure a quelle elezioni il PSI aumenta i voti e raggiunge, col 14,2%, il suo massimo storico, dopo la scissione del 1947. Credo che la ragione del silenzio sia nella condizione in cui Nenni si trova nel partito, vincitore incatenato, prigioniero di una maggioranza ostile alla linea che ha trionfato nel congresso. Infatti a Venezia i delegati tributarono a Nenni il successo dando il voto alla sua persona, ma poi votarono in modo che il comitato centrale risulterà in maggioranza contrario alla politica di Nenni.
    Uscendo dalla lunga notte del frontismo e dalla regola del centralismo importato dal PCI, i quadri intermedi non si orientavano ancora secondo la logica delle correnti, non distinguevano ancora bene chi era con la politica di Nenni e chi era contro: guidati “sapientemente” dai funzionari dell’apparato, finirono con legare le mani al vincitore. Il risultato del congresso dette a Saragat ragioni per rinviare e poi rifiutare l’unificazione socialista, e ai democristiani ostili all’apertura a sinistra, argomento per far valere l’indisponibilità socialista. E le mani di Nenni sono tanto legate che… non riesce nemmeno a sfogarsi con i suoi quaderni.
    Riprende il 1959, l’anno del congresso di Napoli (15-18 gennaio), l’anno della piena conquista della maggioranza assoluta, con il 58,30% dei delegati.

    (...)
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  3. #3
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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    Questi diari sono la continuazione cronologica dei precedenti che si sono fermati al 1956. Ma sembra che ci sia una soluzione di continuità, un salto, anche nello stile.
    Letterariamente i primi sono più belli. La narrazione politica di questi è più avvincente. L’uomo Nenni al ritorno dall’esilio, nel fuoco della battaglia per la Repubblica, nelle lotte “muro contro muro” degli anni del centrismo è diverso dal Nenni diplomatico degli anni di preparazione e di avvio del centrosinistra.
    Gli anni 1943-48 sono vissuti con grande passione politica e con la certezza che la sinistra aveva la vittoria in pugno, solo che spiegasse al più presto le sue vele al Vento del Nord. Tutto è nuovo nell’Italia che si è liberata dal fascismo e che deve costruire la democrazia sulle macerie materiali e politiche del vecchio regime: l’immaginazione – e le illusioni – possono spaziare in orizzonti aperti al progetto di rinnovamento legato alla sinistra dalla Resistenza. C’è una rivoluzione democratica da realizzare: lo spirito del Nenni giacobino si accende di entusiasmi. Il periodo del Fronte popolare è certamente più povero di entusiasmi, ma è vivo lo spirito combattivo perché Nenni è convinto di difendere i valori della Resistenza, le conquiste repubblicane e la pace contro la restaurazione centrista, contro il clericalismo, l’invadenza e l’intolleranza del partito cattolico, contro le violenze e le discriminazioni antipopolari del governo, contro lo spirito di crociata della maggioranza, contro l’ “oltranzismo” atlantico degli Stati Uniti.
    Nenni non giudica l’Unione Sovietica una potenza aggressiva. Egli vede i pericoli per la distensione piuttosto nella politica del capitalismo americano, non solo perché, secondo la scuola marxista alla quale Nenni appartiene, il capitalismo, per usare la celebre frase di Juarés, “porta la guerra in sé, come il nembo la tempesta”, ma anche perché l’URSS è militarmente più debole di fronte alla America che possiede la bomba atomica e minaccia di usarla nelle filippiche anticomuniste del segretario di Stato Foster Dulles.
    Nel 1956 Nenni apre gli occhi. È ben disposto ad aprirli perché fin al 1953 ha avviato cautamente una politica di distacco dal PCI: il ventesimo congresso del PCUS e l’invasione sovietica della Ungheria fungono da acceleratore del processo. Ma – appare chiaro nei diari – nella rottura col PCI non c’è dominante il secondo fine, di favorire cioè l’accordo con la DC che pone appunto la condizione della rottura col PCI. Il 1956 non è un anno come un altro per Nenni. Ho scritto “Apre gli occhi”. Ed è proprio così. Dal Rapporto Kruscev emergono netti i contorni di un potere sovietico dispotico e sanguinario. L’URSS non è un paese pacifico che ha annesso l’Europa orientale per garantire la sua sicurezza: è un paese colonialista che schiaccia con i carri armati l’aspirazione di tutto un popolo all’indipendenza e alla libertà. Apre gli occhi su quel “socialismo” così lontano, opposto al “suo” socialismo, col quale pure si è compromesso. La delusione, l’amarezza sono cocenti: è un trauma politico e psichico. E dopo, Nenni non è più lo stesso. Meno impulsivo e più diplomatico; meno giacobino e più realista. Nelle sue pagine vi è meno pathos e più ragionamento politico. Sembra più freddo: è più attento. Sembra pessimista: e lo è. Il pessimismo che accompagna sempre l’azione del politico sperimentato, alla cui intelligenza una rude esperienza consiglia meno entusiasmo e più cautela. Ma se si affievolisce l’ottimismo romantico dell’ “on s’engage et puis on voit”, resta incrollabile l’ottimismo della volontà.
    Sembra che non gli vada mai bene niente, sembra un pesce fuor d’acqua nella vita politica di cui non capisce e non accetta le servitù imposte dai rapporti di forza, il freno della macchina istituzionale e burocratica fatiscente, le resistenze astute dei moderati, le critiche ingenerose dei progressisti, le meschinità del “piccolo mondo politico” (23 luglio 1964).
    Lo vedo ancora, vicepresidente del Consiglio, dietro una pila di fascicoli, concernenti l’Azienda ferroviaria. Vi dedicò mesi e mesi di lavoro assiduo: voleva riuscire a riformarla per realizzare cose concrete; per soddisfare le richieste dei ferrovieri che scioperavano, le richieste di una categoria che era stata il nerbo della forza socialista e che non accetta di vedere in lotta contro il governo di cui era vicepresidente (come non accetterà la contestazione dei giovani dopo il 1968, lui che era stato il primo dei contestatori della sua giovinezza).
    Com’è diverso il Nenni ministro del 1945-47 dal Nenni ministro nel 1964-68. Allora è protagonista, certo della vittoria della sinistra, intento a lottare contro il tempo alleato dei conservatori.
    Il Nenni del centrosinistra è diventato cauto e scettico. Lo Stato non è un ammasso di macerie su cui si può costruire il nuovo, come dopo la Resistenza; c’è uno Stato ben strutturato come l’hanno fatto i democristiani in quindici anni di predominio e il cambiamento è arduo. Bisogna procedere con gradualismo, un passo dopo l’altro, tenendo conto con realismo delle immense difficoltà. Buona parte del suo discorso al congresso di Roma del 1963 è dedicato a coloro che per volere il meglio impossibile rinunciano al bene possibile. Eppure la sera si sfoga con i suoi quaderni con giudizi dettati più dal pessimismo che dal realismo.

    (...)
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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    Ha realizzato il suo disegno antico: l’incontro tra socialisti e cattolici democratici, quell’incontro che agli inizi degli anni Venti avrebbe risparmiato al paese la dittatura fascista. Ma non esulta. Non c’è mai un’espressione di soddisfazione come dopo la vittoria repubblicana. Il 22 febbraio del 1962 annota: “Comincia un nuovo corso, ma siamo in ritardo battuti da De Gasperi”. E subito dopo le prime esperienze del “nuovo corso” si insinua il dubbio: “Non ce la facciamo”. Si affacciano i rimpianti dell’opposizione: “Com’era bella la Repubblica sotto l’impero!”. Con la determinazione ad andare avanti perché – questa è una convinzione ferrea – fuori del centrosinistra c’è il vuoto, l’avventura.
    Nenni si rende conto che l’opposizione del PCI e della CGIL aggrava le difficoltà del PSI; soffre acutamente la divisione del partito: prima quella con la sinistra e poi, dopo la scissione, con Lombardi; sente la DC ben più forte e padrona di sé di quella del 1945-46, allora esitante e disponibile di fronte alla forza della sinistra unita. Ma il corso è obbligato. E ripete: “Non riusciamo a tenere in mano la situazione”, “tutto va a rotta di collo” fino a scrivere, il giorno delle dimissioni del primo governo Moro, il 26 giugno 1964: “Così melanconicamente si è conclusa una esperienza sorta con l’ambizione di poter durare una legislatura”.
    Previsione sbagliata perché in quei drammatici giorni dell’estate 1964 l’intesa con la DC fu ricucita all’ultimo momento quando sembrava che non ci fossero più margini, e fu ricucita perché Nenni sacrificò le riforme alla difesa del quadro democratico. Illuminante è l’annotazione del 7 luglio 1964: “L’unione ci è imposta dal fatto che non c’è nessun’altra maggioranza possibile e che se entro quarantotto ore non ci mettiamo d’accordo, nessuno sa cosa può succedere: forse un governo per le ‘elezioni’; forse un governo presidenziale tipo Tambroni 1960: in ogni caso l’avventura. Evitare questo è più importante dell’urbanistica o delle regioni o di ogni singolo punto di un programma”. Allusione al piano di intervento repressivo (Piano Solo) che era stato predisposto dal generale De Lorenzo con l’avallo del capo dello Stato. Segni, che era ostile al centrosinistra, ed in particolare alla riforma urbanistica, era deciso a svuotarlo e, consapevole che senza i socialisti non vi era una maggioranza, preoccupato della piega che poteva prendere la crisi, si era, diciamo così, “premunito” con il Piano Solo.
    Nenni conosceva le cose da “informazioni sicure” perché il suo “canale risaliva al Quirinale” (è questa la rivelazione che mi ha fatto nell’Intervista sul socialismo italiano). Su questo argomento tornerà più diffusamente negli anni successivi dopo che scoppiò lo scandalo del SIFAR e fu costituita una Commissione parlamentare di inchiesta.

    (...)
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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    Nenni ebbe l’intuizione, dopo il 1953, che lo scenario politico cambiava in Italia e nel mondo: s’attenuava la guerra fredda e nel clima del disgelo si aprivano prospettive di intese e di nuovi equilibri. Egli si mosse per tempo, incoraggiato anche da Togliatti, per avviare il dialogo con la sinistra democristiana. Il PSI godeva di una maggiore scioltezza di movimento del PCI su cui pesava il rapporto con Mosca (Togliatti gli dice il 12 luglio 1960: “Tu fai politica, noi ancora agitazione e propaganda”). Ma l’azione del PSI era rivolta, nel pensiero di Nenni, non già ad isolare il PCI, sibbene ad aprire anche al PCI prospettive nuove. E questo risulta essere il suo proposito anche dopo la rottura del 1956. Il 7 aprile del 1959, conversando col direttore del “Times”, afferma che l’evoluzione a sinistra della situazione “associerebbe alle istituzioni un largo settore delle masse socialiste e anche di quelle comuniste” e pochi giorni dopo, il 10 aprile dello stesso anno, in un colloquio con Vincent Auriol dichiara di condividere l’obiettivo dell’ex presidente della Repubblica francese: “Un governo omogeneo socialista appoggiato e non condizionato dai comunisti” e soggiunge: “Ma come la mettiamo col fattore tempo che incalza qui in Italia?”.
    Non si fa illusioni: prevede che il PCI difficilmente potrebbe favorire un governo DC-PSI che realizzasse grandi riforme. Ma respinge la richiesta della DC di rompere sic et sempliciter col PCI. A Cogne, nel 1963, incontra Togliatti che è in villeggiatura con Nilde Jotti e la figlia adottiva Marisa. Togliatti gli dice: “Non c’è politica democratica senza di noi o contro di noi”. E Nenni concorda: “È in larga misura vero”, ma soggiunge che il problema non è dei socialisti: “Tocca al PCI farsi largo nella comunità nazionale” (3 settembre 1963). Un’altra citazione: nel dibattito sulla fiducia al primo governo di centrosinistra presieduto da Fanfani, Togliatti fece (5 marzo 1962) un discorso “di un possibilismo tattico quasi senza limiti secondo la sua linea”. “Il curioso – prosegue Nenni – è che si continua a parlare di pericolo comunista quando abbiamo sì un grande partito comunista, ma al servizio di un obiettivo che non va oltre il riformismo dei grandi partiti socialdemocratici dell’Occidente europeo. Niente altro che tattica, si dice, ma alla lunga la tattica influenza la strategia”. E soggiunge, toccando il problema vero: “C’è un solo punto oscuro, ed è l’identificazione con Mosca alla quale Togliatti e la generazione dei fondatori della Terza Internazionale non riescono a rinunciare in essa essendosi formati e in essa cresciuti”.
    Il PCI ebbe alcune incertezze i primi tempi del centrosinistra: non poteva attaccare frontalmente una formula che si proponeva obiettivi per i quali si erano battuti i comunisti in quegli anni, e non poteva provocare la rottura con le forze della sinistra laica e cattolica che operavano per il rinnovamento del paese perché questa rottura li avrebbe isolati e reso sterile la loro opposizione. Alle prime difficoltà del centrosinistra, il PCI alza il tiro: alle elezioni del 1963 Togliatti portò il partito all’attacco delle posizioni socialiste con il noto: “Mietete nel campo del vicino”.
    Dopo le elezioni, forte del successo, Togliatti chiede di “entrare in campo governativo”. E Nenni annota: “I comunisti non vogliono niente di diverso da quel che vogliamo noi, ma Togliatti sa bene che non vi sono le condizioni interne ed internazionali per la partecipazione del PCI. Essi vogliono ma non possono. Noi vogliamo e forse possiamo ancora, ma avremmo bisogno del mezzo milione di voti in più presi dal PCI”.
    Il PSI rifiutò la rottura verticale con il PCI. E fino al giugno-luglio 1964, fino alla crisi del primo governo Moro, il PCI e soprattutto la CGIL avevano lo spazio per inserirsi nello scontro tra PSI e DC sulla politica economica, aiutare il PSI offrendo ed accettando una piattaforma rivendicativa compatibile con la linea congiunturale, del piano e delle riforme, sostenuta dai socialisti, isolare e battere la destra democristiana e consolidare il centrosinistra su una posizione di apertura e di dialogo con la sinistra e soprattutto con i sindacati nel quadro della programmazione. Né il PCI, né la CGIL vollero niente di tutto questo.

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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    Dal punto di vista culturale la stagione del centrosinistra è stata di straordinaria intensità e di un livello mai toccato in Italia né prima né dopo.
    Nel decennio degli anni Cinquanta si sono verificati in Italia processi di intensa trasformazione politica, sociale, economica e culturale, i quali sollecitano le riflessioni e gli aggiornamenti delle forze sociali e politiche. Ricordo il convegno delle sei riviste laiche sulla programmazione e le riforme, ricordo il convegno democristiano di S. Pellegrino con la relazione di Saraceno sulla programmazione come metodo per superare gli squilibri, ricordo il dibattito del congresso di Milano del PSI, ricordo il convegno dell’istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo contemporaneo.
    I processi che in quegli anni stanno cambiando il paese sono i fattori che concorrono alla nascita del centrosinistra. Ne indico alcuni: la svolta giovannea nel papato, la distensione internazionale, l’avvento del riformista Kennedy alla Casa Bianca, il tramonto del centrismo, la difficoltà per la Democrazia cristiana di raccogliere una maggioranza senza il partito socialista, la guida morotea della DC, il processo autonomistico del partito socialista, ed in particolare il forte sviluppo economico determinato dal basso costo del lavoro e dalla favorevole domanda estera che resero competitivi i prodotti italiani, e dai massicci investimenti pubblici.
    Si erano riunite così le condizioni per avviare un processo di rinnovamento della società e dello Stato. Il paese aveva bisogno di quest’opera di ammodernamento e vi aveva interesse il capitalismo più avanzato: il superamento degli squilibri storici, la riforma della scuola, del regime dei suoli, della sanità, della pubblica amministrazione, delle società per azioni, della borsa, dei codici, del diritto di famiglia, del credito, eccetera, rispondevano a bisogni oggettivi di una società che, da agricolo-rurale, stava diventando, a ritmo accelerato, industriale-urbana. Ma queste riforme comportavano un attacco a fondo ai rapporti sociali, agli istituti, ai ceti, alle subculture tuttora molto potenti e che si esprimevano politicamente nella e attraverso la DC. A parte i settori moderni, il capitalismo era in maggioranza attestato sulle posizioni della restaurazione degasperiana e intendeva conservare gli alti tassi di profitto mantenendo basso il costo della mano d’opera. Il PCI teme di essere danneggiato dal riformismo del centrosinistra e lo avversa anche se con una “opposizione costruttiva” (Togliatti). Lo sviluppo economico riassorbe larghe quote di disoccupazione e ridà impulso alla conflittualità operaia; la CGIL la cavalcò senza risparmio. “Stretto fra le resistenze democristiane e la demagogia comunista”, come ha detto Nenni, e, possiamo aggiungere, tra le resistenze padronali e la demagogia del sindacato, il PSI ha tenuto fermo ed è riuscito a far passare importanti riforme.
    La più qualificante è stata la nazionalizzazione dell’industria elettrica che ha distrutto un centro di potere economico e politico che aveva inquinato la vita pubblica e la stampa.
    Non meno importante fu la riforma che introdusse la scuola media dell’obbligo.
    L’istituzione della cedolare d’acconto applicò il principio della nominatività dei titoli allo scopo di reprimere almeno in parte le evasioni fiscali dei possessori di azioni.
    Il primo centrosinistra avviò anche la programmazione.
    Sottolineo il rinnovamento degli indirizzi degli apparati dello Stato, che mise fine alle discriminazioni e alle repressioni che avevano caratterizzato, sino al dramma tambroniano, la pratica dei governi centristi e di centrodestra. Ne risultò un ampliamento degli spazi di libertà ed un clima di tolleranza e di dialogo che favorirono enormemente la crescita civile della società.
    Il centrosinistra si sviluppò con alterne vicende. Alla prima fase caratterizzata da un intenso riformismo, seguirono fasi di maggiore immobilismo. Nel 1964 falliscono i tentativi del ministro socialista Giolitti di superare la crisi economica grazie ad un accordo con i sindacati, e falliscono non solo per le resistenze della Democrazia cristiana ed in particolare del ministro Colombo, ma anche per l’ostilità della CGIL. Viene respinta e insabbiata la riforma urbanistica del ministro Pieraccini ad opera soprattutto dell’allora presidente della Repubblica, Antonio Segni, che non esitò a minacciare iniziative di dubbia costituzionalità pur di non far passare una legge che toccava enormi interessi diffusi nel retroterra della Democrazia cristiana.
    Dopo il 1968 vi fu una ripresa del riformismo del centrosinistra caratterizzato dall’iniziativa socialista. È introdotto l’ordinamento regionale. Ad opera di Brodolini sono abolite le gabbie salariali, è attuata la riforma pensionistica che introduce il principio della sicurezza sociale e del rapporto fra retribuzione e pensione dei lavoratori.
    Il nome del ministro Brodolini è legato poi allo “Statuto dei lavoratori” che fu preceduto da un’altra importante riforma dei rapporti di lavoro, la legge sulla giusta causa e sul giustificato motivo nei licenziamenti, che fu voluta soprattutto da Nenni vicepresidente del Consiglio.
    Se non in termini di maggioranza parlamentare, ma con riferimento al clima nuovo, si può ascrivere anche al centrosinistra l’introduzione del divorzio, e, a più forte ragione, la riforma del diritto di famiglia che ha sancito la parità fra i coniugi ed il superamento delle inique disparità fra figli naturali e figli legittimi.
    Quella del centrosinistra è stata dunque una stagione di riforme. Ma il centrosinistra non ha realizzato la Riforma, non ha attuato il Programma della Nota aggiuntiva di La Malfa il cui obiettivo era quello di rendere l’Italia un paese moderno e civile. La realizzazione di quel grande disegno richiedeva una classe imprenditoriale riformista ed una maggioranza parlamentare di orientamento progressista. Il modello svedese si è potuto realizzare in Svezia perché quel paese è stato governato a lungo da una maggioranza progressista che è stata appoggiata dai sindacati ed ha trovato nel capitalismo un interlocutore. È nato così quel patto sociale tra lavoratori e datori di lavoro, quel compromesso tra Stato e mercato in base al quale gli imprenditori hanno ottenuto la garanzia della libertà di impresa e l’assicurazione di ampi margini di profitto, ed i governi hanno potuto prelevare una quota delle risorse prodotte ed assicurare piena occupazione, benessere, e servizi e beni sociali a tutta la popolazione.
    In Italia la natura largamente moderata e parassitaria della DC, l’arretratezza di larghi settori del capitalismo, l’indisponibilità del PCI e del maggior sindacato, la CGIL, hanno prodotto una caricatura di Stato sociale, la cui sostanza è rappresentata dal sistema di potere democristiano e da un assistenzialismo che ha snaturato – oltre alle istituzioni – l’impresa, il mercato, il sindacato.



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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    Le riforme realizzate dal centrosinistra non sono, dunque, né l’attuazione di un nuovo modello di sviluppo né le “grandi cose” che voleva Nenni. Ma sono cose importanti, e, col distacco storico, gli anni del centrosinistra, con le luci e con le ombre, sono tra i migliori della storia repubblicana. Il partito socialista, pur disponendo di un esiguo dieci per cento, è riuscito a realizzare una parte notevole del suo programma: ma sembra che non se ne accorgesse, perché ha vissuto quegli anni nell’insoddisfazione e nella frustrazione. Ed è proprio Nenni, l’artefice di quella che, oggi possiamo dirlo da storici, è stata una svolta, il più scontento e critico dell’opera sua: le delusioni che appaiono così di frequente in questi diari rivelano non tanto il pessimismo del suo carattere e della sua intelligenza, quanto l’ampiezza delle sue ambizioni e l’intensità del suo impegno. Il 18 aprile del 1960 scrive con estrema chiarezza che cosa si attende dal centrosinistra: “Si avrebbe la fine del partito socialista se apertura a sinistra o mezzadria di potere non segnassero l’inizio e lo svolgimento organico di una politica capace di dare fiducia e sicurezza ai lavoratori, tale cioè da comportare la prova provata della capacità della democrazia di affrontare e risolvere i problemi operai e contadini… Ma in questo è anche l’estrema difficoltà e l’estremo rischio… Bisogna averne coscienza se non si vuole che tutto finisca in un volgare episodio di caccia al potere”. Questa idea del centrosinistra è ferma in Nenni, il quale pensa all’accordo con la DC come ad un incontro storico o, come scrive nel 1961, “una formula che valga per una decina di anni”. E quando affronta con la Democrazia cristiana il problema delle finalità e dei contenuti del centrosinistra è molto fermo. Il 12 gennaio del 1962, alla vigilia del congresso democristiano, ha una lunga conversazione con Moro: “L’uomo è onesto” – scrive – e soggiunge: “Tiene e terrà il suo impegno di farsi autorizzare ad una soluzione di centrosinistra… tuttavia non mi è sembrato sicuro di poter creare le condizioni dell’incontro con noi.” E Nenni è altrettanto onesto con Moro: “Con pari lealtà gli ho detto che non si può contare sul PSI che per una svolta che sia effettivamente a sinistra”. Così concepito il centrosinistra, si può capire la delusione di Nenni che passò le sue giornate di vicepresidente del Consiglio a lottare con tenacia inesauribile contro le resistenze della DC ed i rinvii di Aldo Moro. Del leader democristiano e presidente del Consiglio, Nenni, nei suoi diari, parla con accenti e giudizi diversi, a seconda di come è andata la giornata. Giudica Moro onesto, afferma che Moro è l’unico uomo che merita fiducia (22 luglio 1964), ma a Moro rimprovera un comportamento diretto a rallentare o svuotare l’azione di rinnovamento. È un muro di gomma.
    All’indomani delle elezioni del 1963, la DC vuole liquidare Fanfani, e Moro è parte, se non ispiratore, della manovra. Il 27 maggio – Moro ha ricevuto l’incarico di formare il governo – Nenni annota: “Incontro a Piazza del Gesù con Moro. Era previsto un colloquio di un’ora. Abbiamo parlato per due ore e un quarto, meglio sarebbe dire, ho parlato per due ore, Moro essendosi limitato a brevi osservazioni o richieste di spiegazioni, dominato com’è dalla costante preoccupazione di non impegnarsi, di non scoprirsi, di non uscire dai limiti della edizione moderata del centrosinistra che prepara. Ho dovuto dirgli a un certo punto che non poteva pretendere di far pagare ai socialisti il prezzo dell’unità del suo partito… Ho notato che il punto che interessa di più il mio interlocutore è la presenza dei socialisti al governo. Gli ho detto che non vi saremmo come ostaggi ma semmai come guastatori”. Ma… “perdere tempo: ecco l’arte dei moderati…” (17 novembre 1962). E contro questa arte Nenni usa tutte le armi di cui dispone. Ma sembra senza risultato, poiché quasi due anni dopo, il 4 maggio del 1964 scrive: “Silenzio e rinvio sembrano essere la regola d’azione di Moro, come, in tempi diversi, lo furono di Depretis”.
    La sera, davanti ai suoi quaderni, si direbbe che Nenni si sfoga per i bocconi amari che deve ingoiare durante le giornata, e che gli vengono propinati da una Democrazia cristiana che – o mangi questa minestra o salti dalla finestra – fa prevalere la sua centralità e la sua insostituibilità.
    Nel pieno della “notte di San Gregorio” (16-19 giugno 1963), Moro, constatato che Nenni non aveva più la maggioranza in seguito alla defezione di Lombardi e che quindi non poteva più contare sulla partecipazione dei socialisti al governo, rinuncia all’incarico che gli aveva dato Segni. Nenni propone Saragat a capo dello Stato, e annota: “È forse scritto nel Vangelo che il presidente del Consiglio deve essere un democristiano?”. Pochi mesi dopo troviamo un altro sfogo: “Vuol dire che dall’usciere al capo dello Stato tutto deve essere della DC?” e che si riferisce alla “pretesa” di Moro, secondo il quale il successore di Segni doveva essere un democristiano e non poteva essere né Saragat né Nenni.


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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    Si capisce dunque che Nenni con questo stato d’animo vedesse nell’unificazione socialista un grande disegno che doveva portare all’alternativa alla Democrazia cristiana. In questi termini ne parla con Saragat fin dal 1963 (10 maggio). E quando l’unificazione acquista concretezza, il centrosinistra vivacchia, ormai ridotto ad una formula priva di contenuti. L’unificazione sembra dunque la via maestra per ridare vigore al centrosinistra ed in prospettiva dare vita ad un’alternativa alla Democrazia cristiana. Nenni si impegna in questa nuova iniziativa con la tenacia che ha messo in tutte le sue iniziative e si industria ad arginare l’opposizione di Lombardi ed a rimuovere i dubbi di De Martino. Crede che l’unificazione è in grado di “porre il PSI al centro, anzi alla guida della nuova sinistra democratica e socialista” (4 novembre 1965), cioè di creare “una forza socialista che non sia di apporto né alla DC né al PCI, ma che sia in grado di condizionare la politica italiana” (7 giugno 1965) e alla vigilia dell’unificazione parla di fatto storico: “Con essa sorge una forza che è potenzialmente in grado di trarre il paese dalla bipolarizzazione DC-PCI con una alternativa alle due egemonie” (29 luglio 1966). E quando l’unificazione è fatta, nonostante tutte le difficoltà che ha incontrato, e tutti i difetti con cui nasce – e di cui Nenni ha coscienza – scrive: “L’unificazione socialista è un fatto compiuto. Forse ho vissuto oggi la giornata più bella e più emozionante della mia vita dopo quella dell’avvento della Repubblica” (30 ottobre 1966). Si sbagliava. L’unificazione, nata male, finì peggio, con una nuova scissione e Nenni considerò con quell’epilogo conclusa la sua carriera politica.
    Nei quaderni di Nenni c’è il diario della vita dello Stato, la giornata della politica, ma anche il diario della vita semplice di un uomo semplice. Nenni è uomo di Stato particolare, la negazione vivente della gerarchia, del potere, dei suoi simboli e delle sue cerimonie: “La legge vieta l’appellativo di ‘eccellenza’”, diceva un cartello appeso bene in vista nella sua stanza dorata di vicepresidente del Consiglio; odia la mondanità e un giorno (11 maggio 1964) in cui è invitato al Quirinale declina l’invito allegando lo stato di salute della moglie, in realtà perché non intende indossare il tight: e il capo dello Stato gli telefona: “Vestiti come meglio credi”.
    Qual è dunque la giornata di Pietro Nenni? Grane alla mattina alla sera: al governo, al partito, nel paese. Le consolazioni: l’affetto dei compagni “il solo premio della mia vita” (7 gennaio 1960); l’affetto e la vicinanza della famiglia (4 luglio 1964: “Giornata afosa e faticosa. Sono tornato a casa che barcollavo. Ero solo in casa, senza nessuno dei miei. È la sola solitudine che mi spaventa”).
    Se tutto va “a rotta di collo”, ma la moglie Carmen sta meglio, riappare la serenità. Le distrazioni? Qualche spettacolo, qualche buon libro, qualche giorno di vacanza (sempre coi giornalisti alle calcagna o con le grane che arrivano da Roma).
    Dicevo della famiglia e della moglie Carmen, che si trascina da più di due anni tra alti e bassi, tra speranze e paure, la malattia che la porterà alla morte l’1 aprile del 1966. Si leggano quelle pagine, parole che vanno dal cuore al foglio, semplici e struggenti: “23,40. All’improvviso Carmen è morta… È la prima donna che ho conosciuto appena uscito dal penitenziario che fu per me l’orfanotrofio. La prima donna che ha amato, la sola… E adesso cosa sarà di me, di noi?... Nessuno può sostituire Carmen. In fondo il nostro era un matriarcato. Tutto pareva diretto da me. Tutto era nelle mani di Carmen…”.
    La famiglia e il partito. Non rappresentano l’una i sentimenti l’altro il dovere, il cuore e la ragione perché anche per il partito c’è amore e dedizione, anche il rapporto col partito è impastato di sentimenti, non avendo Nenni mai smarrito la ragione profonda della sua scelta: il bisogno di giustizia e la sete di libertà nati in un orfanello povero vissuto con gli umili che lottavano per la loro redenzione sociale e umana. Non esce dai palazzi della borghesia e non si è educato nei palazzi del potere: la povertà e la strada lo hanno reso ribelle; lo studio da autodidatta e la lotta sociale lo hanno educato. Diventato uomo di Stato si è sempre sentito a disagio nel palazzo del potere. Ci si aspetta ad ogni pagina che pianti tutto e si ritiri a Formia. Ma non può tradire le sue origini, la sua coscienza, i lavoratori, il partito, e ad ogni delusione reagisce con l’azione, instancabile, fino alla morte: “So qual è il mio destino: crepare come l’asino sotto le stanghe” (25 novembre 1966). E non si è sbagliato.

    Giuseppe Tamburrano



    https://www.facebook.com/notes/pietr...9986712117827/
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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    I diari di Pietro Nenni (III)





    di Leo Valiani – Prefazione a P. Nenni, “I conti con la storia. Diari 1967-1971”, SugarCo, Milano 1983, pp. III-VII.

    Il terzo ed ultimo volume dei diari di Pietro Nenni è, come i precedenti, una miniera di dati sulla vita politica italiana e sui suoi retroscena. È, altresì, una resa dei conti. Il 9 febbraio 1967 Nenni compie i settantasei anni. Tutti gli dicono, ad ogni compleanno e non soltanto per fargli dei complimenti, che porta bene gli anni. Si possono portare più o meno bene, ma chi li ha li tiene, sarà il suo commento in una di queste occasioni. A lui gli anni pesano in particolare perché ha perduto la compagna della sua vita, Carmen, alla quale ha dedicato e dalla quale ha ricevuto mezzo secolo di amore profondo. Gli restano le figlie, i nipoti e i pronipoti, che adora, ma nessuno può colmare il vuoto che la scomparsa di sua moglie gli ha aperto nel cuore. La ricorda sempre, e in particolare davanti allo spettacolo delle bellezze della natura e dell’arte, che vorrebbe far vedere anche a lei. Non la dimentica e non vuole dimenticarla mai.
    Quel che, a questo punto della sua vita, distingue Nenni è la sua grande capacità d’imparare dall’esperienza. L’età rende, o dovrebbe rendere, più saggi tutti, ma non necessariamente nel senso d’una revisione autocritica del proprio operato e d’una tenace volontà di correggere gli errori che si sono commessi. Autocritica e volontà di fare meglio d’un tempo sono, invero, fortemente presenti nelle ultime battaglie di Nenni. Da vicepresidente del Consiglio nel governo di centrosinistra di Moro e poi da ministro degli Esteri in quello di Rumor, Nenni si impegna a fondo nei problemi che da sempre gli stanno a cuore: la difesa della pace e della democrazia, la distensione internazionale, la comprensione delle esigenze reali di tutti i popoli. Sono gli stessi temi del socialdemocratico Brandt, asceso quasi contemporaneamente alla guida della politica estera tedesca. Con Brandt, che ha conosciuto in esilio, a Parigi, prima della guerra del ’39, e che gli ricorda di essere stato incoraggiato da lui alla resistenza ad oltranza al nazismo, Nenni collabora infatti bene a livello governativo e nei consessi dell’Internazionale socialista.
    Le amare delusioni del secondo dopoguerra, allorché credette troppo facilmente che i torti maggiori, nella contesa col blocco dei paesi socialisti diretti dall’URSS, li avesse l’Occidente capitalistico ed imperialistico, hanno, però, definitivamente aperto gli occhi a Nenni sul conto della politica di potenza sovietica, ancora molto più brutale di quella americana. Il vecchio socialista che Nenni è, condanna duramente, sin dal suo inconsulto esordio, l’intervento degli Stati Uniti nel Vietnam e ne prevede il fallimento. Constata, tuttavia, che, nella democrazia americana, ogni critica a quest’intervento è lecita, mentre nessuno è in grado di protestare nell’URSS contro l’occupazione della Cecoslovacchia nell’agosto del ’68. Anche in Polonia i fermenti operai democratici del 1970 saranno soffocati con le armi della dittatura. La Jugoslavia e la Romania si sentono minacciate. “Il lupo non diventa pecora”, gli dice, alludendo all’URSS, il ministro degli Esteri romeno e Nenni non può che dargli ragione. La sua acquiescenza del 1947-52 all’egemonia staliniana è ormai definitivamente superata. La spiega col desiderio d’unità del movimento operaio che la sconfitta d’esso, fra le due guerre mondiali ed i tentativi di risalire la corrente, nel 1936, in Francia e in Spagna, e poi la Resistenza, gli avevano iniettato. Con le rivelazioni di Kruscev e la ribellione ungherese del 1956, la sua rottura con ogni forma di stalinismo è diventata irrevocabile e quel che rimprovera ai comunisti italiani è di tardare tanto a seguirlo su questa doverosa strada.
    La dittatura, nella fattispecie militare, di estrema destra, imperversa egualmente in Grecia, e Nenni fa tutto quello che può per aiutare gli oppositori che la sfidano coraggiosamente. Le sue simpatie, nel conflitto mediorientale, vanno ad Israele, che ha un governo laburista e nel ’67 è davvero minacciata d’invasione. I consigli che dà agli israeliani, dopo la loro vittoria, sono, peraltro, di moderazione, di accettazione della necessità d’un accordo con l’Egitto e coi palestinesi. Nel conflitto cino-sovietico Nenni non parteggia né per i sovietici, né per i cinesi. Si batte, invece, per il riconoscimento italiano della Cina comunista e per la sua ammissione fra le Nazioni Unite.
    Non meno tenace è la lotta di Nenni per l’inclusione della Gran Bretagna, ostacolata da De Gaulle (del quale Nenni ricorda, pur sempre, i grandi meriti passati), nella Comunità Economica Europea. All’idea dell’Europa unita Nenni è ormai pienamente acquisito ed è anzi questa una delle sue massime speranze.
    La politica interna italiana gli offre poche soddisfazioni. Vengono alla luce i misteri del SIFAR, le stridenti illegalità e le velleità di congiura del generale De Lorenzo e di alcuni suoi colleghi. Nenni insiste fermamente per andare fino in fondo nell’opera di pulizia e di bonifica. Saragat, da capo dello Stato, lo sostiene. La Democrazia cristiana, anche con Moro, intende fermarsi a meno di metà del cammino. Le elezioni generali del 1968 indeboliscono la posizione di Nenni. Il Partito socialista unificato perde dei voti e l’unificazione stessa, attuata solo in superficie nel ’66, con la giustapposizione di due apparati, il socialista ed il socialdemocratico, entra in crisi. Nenni non si nasconde la gravità del fatto. L’ingresso del Partito socialista nel governo di centrosinistra l’ha voluto lui, l’unificazione col partito socialdemocratico l’ha voluta lui. Sa d’essere sconfitto, sente venire la nuova scissione, voluta dai suoi stessi compagni che si spostano verso sinistra e non ha alcun rimedio a portata di mano.
    Nel paese cresce l’estremismo anarcoide, a proposito del quale Nenni cita un severissimo giudizio del grande anarchico che Errico Malatesta fu. Si diffondono la prassi della violenza da parte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, e gli egoismi corporativi. La polizia è impreparata a fronteggiare i violenti d’estrazione borghese. Era preparata, annota amaramente Nenni, a reprimere le autentiche proteste operaie, non le rivolte capeggiate da figli di papà. La tendenza naturale di Nenni è di augurarsi il soddisfacimento di tutte le rivendicazioni delle masse lavoratrici, ma non sottovaluta il pericolo delle violenze in fabbrica o in piazza e degli stessi scioperi a ripetizione, che gli ricordano il 1919. È andato al governo per ottenere riforme sociali, ne ha ottenuto qualcuna, così lo Statuto dei lavoratori, varato dal suo compagno Brodolini; rimprovera a Moro, che pure stima molto, di aver rimandato altre riforme alle calende greche; plaude all’unità d’azione sindacale ed auspica l’unità organica dei sindacati, ancorché si preoccupi del dilagare dei corporativismi e delle spese improduttive che – come Ugo La Malfa non si stanca di segnalare – preparano l’inflazione anziché il pieno impiego.
    Sul diciannovismo – che sboccò nella conquista fascista del potere – Nenni scrisse molto tempo fa un libro assai acuto. Ora teme che il fenomeno possa ripetersi, benché con esiti diversi da quelli d’allora. Lo spirito di ribellione soffiava all’inizio del secolo, rammenta Nenni, che ne fu personalmente uno degli esponenti più giovani e baldanzosi, e si sfogò nella prima guerra mondiale. Rinacque, per l’appunto, nel ’19 e condusse al fascismo. Nel ’19 il Partito socialista soffiava sul fuoco, ma non sapeva indicare una soluzione politica realistica. Il Partito comunista italiano corre il rischio di non essere, neppure esso, in grado di indicare una soluzione politica possibile nel ’69 e negli anni successivi. Nenni dà credito alla serietà di Giorgio Amendola, che considera il vero continuatore della politica di Togliatti, ma non gli sembra che ne abbia ereditato l’autorevolezza in seno al partito.


    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: I diari di Pietro Nenni

    La soluzione politica, per Nenni, avrebbe potuto offrirla il Partito socialista unificato. Avrebbe potuto offrirla già nel 1945-46, anteriormente alla scissione socialdemocratica e sciupò l’occasione, riconosce Nenni, in senso autocritico, prima per non aver fatto pieno uso della sua forza, nei confronti della Democrazia cristiana, poi col frontismo. Nel ’69 sciupa la nuova occasione, con la nuova scissione, che obbliga Nenni ad uscire dal governo (forse non a caso anche nel ’47 la scissione intervenne quando egli era, da poco, ministro degli Esteri) e lo induce a lasciare la guida del partito, nel quale però rimane, a quanti hanno favorito la scissione stessa. Il suo prestigio nell’opinione pubblica, all’estero e all’interno, è altissimo. Nel partito che ha diretto, con poche interruzioni, per quasi quarantasette anni, la sua influenza è nettamente minoritaria.
    I partiti, constata Nenni, sono ormai dominati dagli apparati. Gli iscritti e gli elettori, fra i quali la sua popolarità è immensa, come è documentato dallo straordinario calore e successo delle manifestazioni alle quali partecipa, contano sempre meno. Così accade anche negli altri partiti, e in ispecie nella Democrazia cristiana. La sconsolata conclusione di Nenni è che la politica italiana è in procinto di diventare terreno di caccia di mafie, cricche, funzionari. Questo lo preoccupa più ancora dello stesso pericolo neofascista al quale (per esempio per la bomba di Piazza Fontana e per il golpe del principe Borghese) è costantemente attento. Ci sono i sobillatori, c’è, nei due estremismi, “la mistica della violenza per la violenza”, ma bisogna risalire alle cause. “Il problema – annota ai primi del ’71 – è quello della restaurazione dell’autorità dello Stato con un serrare le fila dei partiti del centrosinistra. Ma di questo non c’è traccia”. Eppure si è riusciti ad introdurre il divorzio, con voto del Parlamento. Era una rivendicazione laica alla quale teneva. Riceva un’infinità di auguri per il suo ottantesimo compleanno. Gli giungono particolarmente cari quelli di Sandro Pertini, il cui libro, Sei condanne, due evasioni, gli è molto piaciuto.
    L’articolo per i suoi ottant’anni che più lo fa riflettere è apparso sulla “Stampa” di Torino, a firma di Carlo Casalegno. Il titolo è: Il “moderato” Pietro Nenni. Nenni, sottolinea Casalegno, è sempre stato coerente. Ha cambiato, ragionevolmente, quando il paese è cambiato. Fu audace e tempista nella lotta per l’avvento della Repubblica, ma ora la Repubblica c’è e va difesa e migliorata con la risolutezza e anche con la moderazione. In realtà, commenta Nenni, il centrosinistra è meno moderato di come non sarebbe la Repubblica conciliare, basata sul compromesso fra le due egemonie (la democristiana e la comunista) contrarie ed eguali. Il male è che nel mezzo, fra le due egemonie, non c’è più gran che e “non c’è più niente a sinistra dell’animo libertario del socialismo, se non cieca violenza”.
    Non per questo Nenni si dispera. La sua fiducia nello spirito umano è intatta. La Repubblica regge, la crisi non deriva dalla Costituzione democratica ch’essa si è data, bensì dallo stesso progresso tecnico che ha posto nuovi grossi problemi. L’umanità può risolverli. Nell’estate del ’69 all’annuncio che il primo uomo ha messo piede sulla luna, Nenni scrive nel suo diario: “Vale la pena di essere al mondo non fosse che per assistere a questo trionfo della scienza e della tecnica dell’uomo”.
    La crisi è universale, ma quella italiana è aggravata dalla mancanza di senno e di tenacia nell’affrontare le reali difficoltà quotidiane, senza di che le riforme rimangono campate in aria, e (l’osservazione scaturisce dall’elezione presidenziale del dicembre 1971) dalla “partitocrazia oligarchica corrotta fino al midollo fra danaro e potere”.
    Nel 1971 Nenni, senatore a vita, distaccato dagli eventi quotidiani, legge la biografia di Rodolfo Morandi, scritta da un giovane Aldo Agosti. Di Nenni Morandi fu stretto collaboratore dal 1947 fino alla sua morte, avvenuta nel ’55. Era il più leninista dei due, ricorda Nenni, ma collaborò lealmente alla ripresa di autonomia del Partito socialista nel ’53 e all’apertura ai cattolici meno di due anni dopo. Che cosa avrebbe fatto Morandi, se non fosse prematuramente scomparso? Avrebbe seguito i suoi allievi nella scissione a sinistra nel ’63? È possibile, ma non è sicuro. “Morandi aveva in comune con me – conclude Nenni – una formazione giovanile mazziniana, dava quindi una importanza decisiva ai fattori morali”. Non avrebbe potuto non rompere col sistema che ha schiacciato l’Ungheria nel ’56.
    La questione morale: essa è preminente per Nenni di fronte all’involuzione dell’URSS, e anche di fronte alle degenerazioni della politica italiana. Il suo socialismo è andato oltre la democrazia mazziniana, ma egli è rimasto fedele all’imperativo morale di cui Mazzini era stato apostolo. La lotta che bisogna condurre oggi stesso per la libertà e per la giustizia sociale ha priorità sui disegni della vagheggiata società futura. Nella Cina stessa, che Nenni visita nel ’71, gli è congeniale non la dittatura comunista, ma l’austerità dei costumi.

    Leo Valiani


    https://www.facebook.com/notes/pietr...4056272044204/
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