La medicalizzazione della devianza. Sulla polemica a partire dall’articolo sui “bambini trans” di Panorama

Daniela Danna

A fine dicembre il settimanale Panorama affronta il tema dei pretesi “bambini e adolescenti trans” con un articolo equilibrato e una copertina scandalistica. La risposta di esponenti del movimento LGBT è affrettata e scomposta: una levata di scudi per questi presunti “diritti dei minori” di essere avviati al cambiamento di sesso, solo perché non si conformano ai ruoli di genere – e nella loro immaturità affermano, a volte, di essere “veramente” dell’altro sesso. Daniela Danna, brevemente intervistata nell’articolo in quanto autrice di una “Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione” (La Piccola Principe, ebook di VandA ePublishing) risponde agli argomenti che dimostrerebbero l’esistenza di “minori trans” il cui corpo va cambiato, cominciando dal blocco della pubertà autorizzato dal SSN un anno fa.


La fragilità innesca reazioni violente. Un articolo equilibrato, informativo, che ha dato voce a diverse persone competenti sul tema dei presunti “minori trans”, fenomeno che si affaccia alla ribalta mediatica internazionale e anche italiana con l’approvazione della medicalizzazione della “disforia di genere” nei minori, è stato salutato da una lunga lista di organizzazioni e individui LGBT, nazionali e internazionali, con una lettera indignata al direttore di Panorama, completata da sei pagine di Transmediawatch che istruiscono sull’ortodossia da affermare per non essere dichiarati “transfobici”, e quindi fuori dall’umano consorzio: a questi mostri va impedito di parlare, di partecipare al dibattito, di esprimere le proprie opinioni. Che non sono poi così peregrine, perché il concetto di non dare farmaci a corpi sani di minorenni che non sono in grado di comprendere le implicazioni a lungo termine di una scelta che li porta nel 99% dei casi alla transizione chirurgica (quando senza bloccanti la maggior parte di loro avrebbe cambiato idea) è condiviso da tutta la popolazione italiana che non appartiene al movimento LGBT. Qui invece le richieste più assurde degli uni vengono spalleggiate dagli altri in cambio del sostegno ad altre richieste altrettanto assurde: utero in affitto/compravendita di neonati – detta ora “riconoscimento della genitorialità alla nascita” –, legalizzazione della prostituzione e del relativo sfruttamento – detti ora “diritti delle sex workers” (una infima parte di chi viene usata sessualmente per denaro, e che certamente non vuol essere schedata e visitata per obbligo, come pure dovrebbe fare se diventa una “lavoratrice”) – e appunto devastazione fisica via ormoni ai minori presunti “trans”.

E la fragilità in questione è quella dell’identità trans: su che cosa si basa? Non certamente su “fattori biologici” come suppone la lettera delle associazioni a Panorama, dal tono poco gentile, e le “Correzioni all’articolo” di Transmediawatch, ancora più perentorie. A me in particolare viene rimproverato di affermare che “l’identità di genere sia una ‘decisione’ ignorando più o meno volutamente i fattori biologici che insieme a quelli psicosociali contribuiscono all’identità stessa”. Nessuno ha mai trovato un locus biologico dove si possa diagnosticare la transessualità (o transgenericità, se si preferisce). Nessuno. Nessuno studio scientifico, nessuna autosservazione sistematicamente concordante delle persone trans, che offrono solo una descrizione soggettiva: “Sento di appartenere all’altro sesso”, e quindi ne adotto aspetto e comportamenti, per lo più stereotipati. Ho letto qua e là “prove” della biologicità dell’identità di genere date dalle autopsie su trans MtF che mostrano come il loro cervello (in alcune aree) sia più simile a quello delle donne che a quello degli uomini. Ma il cervello è un organo che si modifica con l’assunzione di ormoni, quindi le osservazioni ex post non dimostrano nulla. Da non moltissimo tempo sono disponibili le tecniche di imaging, applicate in alcune ricerche senza risultati conclusivi – come illustrerò oltre.

Ci sono invece dei fattori biologici che contribuiscono all’identità molto più macroscopici che pezzetti di cervello con caratteristiche per lo più né maschili né femminili: sono il fatto di essere maschio o femmina. Chi, da minore, ritiene di essere in un corpo sbagliato da modificare, lo pensa perché si trova a disagio con le richieste sociali di come devono essere i maschi e le femmine. Se il disagio persiste da adulti, fin dagli anni ’80 sono previsti in Italia protocolli per procedere a una transizione fisica e sociale in modo da diminuire il disagio per il rifiuto del proprio corpo (legge 164/1982: Norme in materia di rettificazione di sesso). Ma si tratta di intervenire su corpi adulti, in una collaborazione tra paziente e medici che dovrebbe assicurare che le operazioni prospettate siano effettivamente migliorative della qualità della vita (pur con i dubbi impliciti nelle conseguenze future di un’azione e con il rischio operatorio). Come può un minore non ancora pienamente sviluppato prendere simili decisioni? Ma soprattutto: perché un minore vuole cambiare sesso?

Abbondano storie come: “All’asilo le dicevano che non poteva giocare con i giochi dei maschi” se femmina, e viceversa, oppure che voleva tenere i capelli lunghi se maschio o corti se femmina, e storie sulle preferenze nel vestiario. Poi ci sono le nostre storie: moltissime lesbiche – e suppongo altrettanti gay, specularmente – ricordano di aver voluto essere dei maschi, rendendosi precocemente conto dell’attrazione per un’altra bambina o figura femminile. Si tratta quindi di identificazione con l’altro sesso, che ha una marea di motivi sociali: se per qualche motivo mi sento diverso da come la norma vuole che siano i bambini del mio stesso sesso, allora – ragiona il piccolo – voglio appartenere al sesso opposto. Che questa “disforia di genere” significhi che i bambini sono “trans”, cioè appartengono “in realtà” al sesso opposto e devono essere “aiutati” nella transizione, è ciò che oggi molti adulti progressisti pensano e dicono, in una profezia che si autoavvera.

La condizione dei piccoli che deviano dagli stereotipi di genere non è tanto migliorata, nonostante l’autorappresentazione della nostra società come lanciata sulla via del progresso. Da una parte nel mondo adulto vi è più tolleranza per le devianze rispetto ai ruoli di genere, cosa conquistata in primis dal femminismo; dall’altra i minori sono sottoposti a una sorveglianza molto più stretta, e se manifestano comportamenti non conformi, o anche se esprimono un’identità non conforme, scatta l’allarme, la richiesta di aiuto, l’intervento psicologico e addirittura medico.

Il semaforo verde alla medicalizzazione è stato dato anche in Italia con l’approvazione a marzo 2018 dell’uso fuori prescrizione della triptorelina per bloccare la pubertà. Di questo ho parlato sia su PaginaUno che nel mio pamphlet La Piccola Principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e ormoni. Ora passo a confutare le presunte correzioni all’articolo di Terry Marocco “Baby trans generation” (Panorama, 19.12.2018), a partire da quelle dell’ONIG (Osservatorio nazionale sull’identità di genere), che fa una distinzione tra interventi nell’infanzia, “mai previsti in ambito medico” e nell’adolescenza, praticati. Il primo tra questi è il blocco della pubertà, che viene propagandato come avente lo scopo di “estendere lo spazio temporale di riflessione su di sé senza che l’adolescente debba sperimentare il disagio di cambiamenti fisici incongruenti con la propria identità di genere”6. Invece è solo il primo passo di una lunga strada di pesanti interventi sul fisico: praticamente nessuno torna indietro. Johanna Olson-Kennedy, direttrice medica del Centro per la salute e lo sviluppo della transgioventù di Los Angeles, si è vantata che tra il migliaio di minorenni cui ha somministrato i bloccanti della pubertà, nessuna e nessuno è poi tornato indietro vivendo la pubertà naturale del proprio corpo, e parimenti nessuno sembra averlo fatto nel centro di Amsterdam, leggendo le loro ricerche – anche se una ragazza è definita come “drop out” dalle cure prima della chirurgia di rassegnazione del sesso.

La lettera dell’ONIG, gruppo di esperti di “disforia di genere” (un concetto altamente problematico, come vedremo), fondamentalmente dichiara che gli interventi che fanno, solo su adolescenti con “sviluppo atipico dell’identità di genere”, sono necessari, riguardano piccoli numeri (era così anche in Gran Bretagna, in USA, in Olanda dove la pratica è iniziata una decina di anni fa, ma ora l’ordine di grandezza complessivo è di migliaia di minori all’anno) e rispondono pienamente alle linee guida internazionali. (Questa è la parte più inquietante: la Endocrine Society nel 2008 ha approvato il blocco della pubertà dai 12 anni, e sia questa che la World Professional Association for Transgender Health, ex Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association, approvano la mastectomia prima della maggiore età.) E se l’ONIG seleziona i casi che gli vengono presentati per la somministrazione dei bloccanti della pubertà, non mette certamente in questione il disturbo (o “la variante” se si preferisce) della presunta “identità di genere”: “Come Onig abbiamo scelto di far sentire alle famiglie e ai minori tutto l’appoggio della comunità scientifica italiana, che continuerà a garantire interventi qualificati e in linea con le linee guida internazionali”. Si tratterebbe quindi di appoggiare l’idea che i minori siano trans, non di indagare su quali altri disagi (come ad esempio l’omofobia interiore ed “esteriore”) possono causare un’identificazione con il sesso opposto. La lettera inoltre accusa la giornalista di aver dato una visione parziale delle dichiarazioni rilasciate, e muove una critica (totalmente condivisibile) alle scelte editoriali di illustrare l’articolo con un’immagine di infanzia sessualizzata sfruttata in copertina.

L’ONIG cita esplicitamente quattro “ricerche condotte su campioni di centinaia di casi e studi longitudinali di durata decennale”, ma nessuna di queste ricerche è l’una e l’altra cosa, né dimostra che l’intervento sui minori sia necessario. La prima ricerca esamina le differenze legate al sesso tra i minori che sono stati inviati alla clinica Tavistock di Londra, la più grande al mondo nel trattamento della disforia di genere dei minori. Proprio quella che ora è sotto accusa da parte degli stessi medici che vi hanno lavorato. La seconda fa la stessa cosa per l’analogo centro di Amsterdam. (Incredibile come si pensi che basti buttare lì un po’ di titoli e nomi scientifici a caso perché le proprie affermazioni totalmente scollegate siano inoppugnabili.) Incidentalmente, entrambe le ricerche parlano dei loro soggetti come di “birth-assigned female/male”, cioè “assegnati alla nascita come maschi/femmine” come se il sesso non fosse una realtà fisica ma un nome che viene attribuito dai medici. È una visione scientifica?

In ogni caso, l’informazione principale che danno i due articoli è che oggi sono più femmine che maschi minorenni a voler cambiare sesso.

La terza ricerca, “Research review: gender identity in youth: treatment paradigms and controversies”, pubblicata lo scorso anno da Turban ed Ehrensaft sul Journal of Child Psychology and Psychiatry, è pertinente, e ne parlerò dopo la quarta, che è fatta dall’equipe olandese che cominciò a somministrare bloccanti della pubertà una ventina di anni fa. La ricerca conferma i benefici dell’uso di questi farmaci dal punto di vista psicologico e del “funzionamento generale”, tranne che nella riduzione dell’ansia e della rabbia, e anche della disforia di genere. I test psicologici che misurano queste cose sono stati somministrati nel periodo precedente all’assunzione di bloccanti (T0) e poi poco prima dell’inizio dell’assunzione di ormoni dell’altro sesso (T1) – cosa che hanno fatto tutti i primi 70 soggetti adolescenti trattati per disforia di genere (tra i 111 trattati con i bloccanti tra il 2000 e il 2008) e giustamente chiamati non “pazienti” ma “candidati idonei”. Quanto all’età, T0 si colloca tra i 12 e i 16 anni con una media di 13,6 anni, e T1 in media a 16,6 anni – a 16 anni in Olanda diventa legale la prescrizione dei bloccanti. È grave che le Conclusioni di questo studio siano che: “La soppressione della pubertà può esser considerata un contributo valido alla gestione clinica della disforia di genere negli adolescenti” (dal sommario in prima pagina), quando tre righe prima il medesimo riassunto invece afferma che: “La disforia di genere e la soddisfazione per il corpo non sono cambiati tra T0 e T1”. E meno male che queste ricerche sono peer reviewed, cioè controllate da altri esperti! Certo, la conclusione non è una bugia se proviamo a parafrasarla con precisione: somministrare bloccanti della pubertà aiuta a medicalizzare gli adolescenti che non assumono il ruolo di genere loro spettante. Incidentalmente, quasi il 90% dei candidati idonei a T1 è attratta esclusivamente o principalmente da persone del proprio sesso. Inoltre l’unico esempio nell’articolo di item sottoposto ai soggetti per misurare la disforia di genere apre mondi e universi di critica possibile: “Provo un desiderio persistente di essere trattato come un uomo/donna” (uno dei dodici item usati nella UGS: Utrecht Gender Dysphoria Scale).

La ricerca non è uno studio sugli effetti fisici del blocco della pubertà, non è uno studio a lungo termine sul benessere di centinaia di “transizionati”, tantomeno è “decennale”. Però mostra che il 100% di coloro che hanno una diagnosi di “disforia di genere” nell’adolescenza e assumono i bloccanti della pubertà procedono a cambiare sesso. Se i danni possibili dei bloccanti non sono accertati, è difficile tracciare un bilancio positivo (si chiama “principio di precauzione”). E la storia non è solo di ignoranza: il sociologo di Oxford Michael Biggs ha denunciato la soppressione di prove da parte della Tavistock sulla dannosità dell’uso di bloccanti, come l’aumento di tentativi di farsi del male o di uccidersi delle adolescenti femmine prese in carico dalla clinica. Marcus Evans, uno dei governatori della Tavistock si è dimesso nel febbraio di quest’anno per l’inazione del management nel reagire alle parole di un altro governatore, David Bell, in un rapporto interno sull’inadeguatezza delle “cure” somministrate per “disforia di genere”: “Il servizio per i minori sull’identità di genere (GIDS) così come ora funziona non è adatto al suo scopo e i fini dei bambini sono soddisfatti in modo deplorevole, inadeguato, mentre alcuni dovranno sopportarne le dannose conseguenze”. (Non essendo una malattia la disforia di genere, va da sé che qualunque cura sia inadeguata.)

Il terzo articolo è una rassegna di studi che mostra come l’approccio “gender affirmative” – cioè assecondare l’affermazione del minore di essere del sesso opposto – migliori il suo stato di ansia, la depressione e la suicidalità (concetto che comprende sia idee suicide che tentativi). I tentativi di suicidio (ma non le idee di suicidio) sono una cosa seria. È una prospettiva spaventosa, soprattutto per i genitori, ma i minori gay e lesbiche e quelli affetti da problemi mentali hanno gli stessi alti tassi di suicidalità dei minori presunti trans. L’una e l’altra condizione – attrazione per il proprio sesso e disturbi mentali – sono più frequenti in chi dichiara di essere del sesso opposto. La suicidalità in generale è maggiore in chi è vittima di bullismo, cosa che non termina con la transizione sociale del minore.

L’esagerazione di questi rischi è parte di una campagna mediatica terroristica, cui partecipano associazioni e medici, per far accettare le transizioni di minori. L’esempio italiano è appunto la scomposta reazione all’articolo di Terry Marocco. La minaccia di morte è un tassello necessario per far accettare alle famiglie e alla società intera l’intervento che dai bloccanti della pubertà arriva senza soluzione di continuità alle operazioni di rassegnazione chirurgica del sesso. Solo la morte può essere per i genitori una prospettiva peggiore che accettare gli interventi farmacologici e chirurgici sui figli che li renderanno per tutta la vita dipendenti dagli ormoni farmaceutici che hanno effetti negativi sulla salute – sempre che non ci siano complicanze nelle operazioni chirurgiche che subiranno non appena raggiunta la maggiore età, facendosi asportare organi sani a un’età ben lontana dai venticinque anni, quando il cervello arriva alla sua piena maturazione.

Nel concentrare l’attenzione sulla transizione come panacea a problemi sociali e psicologici si finisce così per non sviluppare approcci psicoterapeutici che mirino a far star bene i minori così come sono. Certamente poi si avvalla l’omofobia che spinge a trovare la soluzione alle proprie improprie attrazioni nel “diventare” esponenti dell’altro sesso, cioè eterosessuali. L’intervento medico infatti riallinea all’eterosessualità obbligatoria coloro che in massima parte sono destinati a diventare gay e lesbiche da adulti.

La rassegna, pur indicando problemi metodologici in tutti gli studi al riguardo, mostra infatti anche che la persistenza dell’”identità di genere” del sesso opposto in età adulta non si avvicina nemmeno alla metà di coloro che da bambini erano maschi effeminati o femmine mascoline: “Studi condotti dopo l’anno 2000 (presumibilmente in un ambiente sociale più accogliente [per la transessualità]) stimano tassi di persistenza dal 12% al 39%, mentre quelli condotti prima dell’anno 2000 hanno un tasso di persistenza stimato dal 2% al 9%”. Nel 2013 lo stesso centro di Amsterdam di esperti sulla “disforia di genere” ha trovato un’associazione tra “transizione sociale” precoce e persistenza su 127 bambini di età inferiore a 12 anni che aveva preso in carico. Solo il 37% ha persistito con la pubertà dopo i 15 anni. Riassumendo le ricerche menzionate dall’ONIG: chi si identifica da piccolo nell’altro sesso, da grande diventa LGB, e persino etero, T solo in minoranza. Ma diventa soprattutto gay o lesbica. La rassegna mostra la frequenza della co-morbidità con vari disturbi mentali e con l’autismo (soffrono di disturbi nello spettro dell’autismo dal 5 al 20% dei minori che si rivolgono alle cliniche che lavorano sul genere – ma soprattutto sul sesso). Invece: “È degno di nota che in due studi su giovani transgender che sono sostenuti nella loro identità di genere dalla famiglia e reclutati da campioni nella comunità piuttosto che dalle cliniche, i disturbi da internalizzazione [internalizing psychopatologies] non fossero significativamente diverse dai gruppi di controllo non transgender”. Altissimi sono i tassi di vittimizzazione da bullismo (80%), così come i tentativi di suicidio, ma le ricerche citate hanno campioni non statistici ma di convenienza, i cui risultati non sono estendibili alla popolazione21. Inoltre i tassi più alti nel tentare o realizzare il suicidio rispetto al resto della popolazione sono quelli – nell’arco di tutta la vita – dei transessuali adulti, non dei minori.

Teniamo comunque presente la definizione di “transgender” di questa rassegna: non significa “transessuale” o aspirante tale, ma: “Un individuo la cui identità di genere è incongruente col sesso assegnato alla nascita”, dove “identità di genere” significa: “La comprensione psicologica di un individuo del proprio genere” – quindi non del proprio sesso, ma dei ruoli e comportamenti stereotipati assegnati a maschi e femmine. È per questo che l’intera impresa è preoccupante: non si fa alcuna differenza tra terapie di conversione dei minori in cui si vogliono limitarne i comportamenti socialmente attribuiti al sesso opposto, e le presunte “terapie di conversione” che tendono all’accettazione del proprio corpo con le sue caratteristiche sessuali naturali. Entrambe sono messe al bando in molti stati USA e in una provincia canadese, come la rassegna ci informa senza alcuna critica, accorpando due obiettivi molto diversi: “Questo approccio mira a ridurre gli interessi relativi al genere opposto o l’identificazione col genere opposto di un bambino pre-pubere attraverso interventi psicosociali”. Nulla però ci dice la rassegna sul che fare del desiderio di cambiare sesso, che è cosa diversa dall’identificazione con il genere opposto, benché il capitoletto si intitoli “Interventi psicoterapeutici per promuovere l’identificazione con il sesso assegnato alla nascita”. Stanno facendo gli autori un gioco di prestigio, o davvero non si rendono conto della differenza tra sesso, biologico, e genere, sociale?

Torniamo quindi alla questione dei marcatori biologici della transessualità: la rassegna menziona quattro studi sul cervello che mostrano che prima dell’assunzione di ormoni la struttura di alcune parti della materia bianca di aspiranti trans è più simile a quella dell’altro sesso, così come l’attività dell’ipotalamo sottoposta a un particolare stimolo olfattivo, sia nelle MtF adulte che adolescenti. Siamo ben lontani dal considerare queste scoperte come criteri diagnostici. Inoltre si tratta, a ben leggere uno degli articoli in questione (Rametti et al. 2011), di valori intermedi, non di “pezzi di materia bianca dell’altro sesso” che potrebbero causare la transessualità – cosa che appare chiaramente in un altro articolo citato nella rassegna, estremamente interessante perché aderisce a un paradigma completamente diverso da quello dell’innatezza della transesssualità, ovvero considera la transessualità una manifestazione estrema dell’omosessualità, e infatti si concentra sullo studio dei cervelli che pensano di essere dell’altro sesso ma amano persone del proprio (e critica Rametti e la sua équipe perché non fanno distinzione tra le diverse categorie di transessuali a seconda dell’orientamento sessuale e dell’età alla transizione proposte da Blanchard). Le ricerche presentate danno qualche fondamento alla presenza di caratteristiche biologiche peculiari delle persone omosessuali, benché curiosamente trovate in chi si identifica con il sesso opposto. La questione è meritevole di approfondimento, benché non dimostri che i comportamenti omosessuali (e naturalmente l’identità transessuale) si pratichino solo su questa base biologica, che comunque consiste in conformazioni particolari di parti del cervello, in generale non perfettamente corrispondenti a quelle dell’altro sesso, ma spesso intermedie tra la conformazione maschile e quella femminile, a volte non assomiglianti né all’uno né all’altro sesso.

Parlando di interventi medici per la transizione, la rassegna riconosce che è probabile che i bloccanti della pubertà diminuiscano la densità ossea, impedendo il fisiologico rafforzamento del corpo nella pubertà. Sconosciuti sono gli effetti del blocco della maturazione del cervello. Il miglioramento delle condizioni mentali dopo “l’affermazione del genere” scelto e la somministrazione dei bloccanti della pubertà è documentato secondo la rassegna da un solo studio, che riguarda però il percorso completo con “riassegnazione chirurgica del sesso”, e presenta un piccolo problema nelle sue conclusioni così apparentemente positive. Lo studio mostra che il benessere psicologico era diventato uguale ai giovani coetanei (o addirittura più grande) per i soggetti che al primo rilevamento, prima di bloccare loro la pubertà, avevano un’età media di 13,6 anni, e ne avevano 20,7 all’ultimo rilevamento, almeno un anno dopo la chirurgia per la transizione sessuale. Anche la loro “disforia di genere” si era attenuata. Si tratta, tra parentesi, dello stesso gruppo olandese ricontattato dall’équipe di Amsterdam a due anni di distanza, con una consistente riduzione del campione da 70 soggetti a soli 55, di cui 6 avevano subito le operazioni da meno di un anno (la fretta di pubblicare…). E qui compare un dato su cui riflettere molto: un soggetto è classificato come “uscito dal campione” perché è deceduto per le complicanze della vaginoplastica. Inizialmente mi ha colpita come la cosa fosse freddamente elencata tra le varie ragioni della riduzione di numerosità del campione: 2 non vogliono partecipare, 2 non restituiscono i questionari, 3 non hanno avuto la rassegnazione chirurgica del sesso per problemi medici (obesità, diabete), 1 è la drop out già menzionata “e una transfemmina è morta dopo la sua vaginoplastica per una fascite necrotizzante postchirurgica”. Poi le enormi conseguenze della sua esclusione dal campione si sono fatte strada. Perlomeno gli autori avrebbero potuto imputare al soggetto deceduto una scarsa soddisfazione per i trattamenti medici ricevuti. E come si compara scientificamente tale estremo livello di insoddisfazione – la morte – con la soddisfazione degli altri soggetti? Come si compara l’alto rischio di suicidalità dei minori con le probabilità di morire appena maggiorenne in conseguenza delle operazioni proposte e accettate? La vera probabilità di tornare a un benessere psicologico normale grazie alle cure dell’équipe di Amsterdam è di 55/56, ma quella di lasciarci le penne è di 1/56! Certo, meglio della roulette russa. Ma questa non è somministrata da medici come cura per una presunta malattia.

Forse quindi la delegittimazione più grande di questi interventi medici si trova proprio in questo dato, e non nel fatto che manchi il corrispettivo fisico del disagio mentale etichettato come “disforia di genere”. Ma già tale mancanza rende illegittimo l’intervento medico. Loro stessi ammettono di non poter distinguere i bambini presunti “trans” da coloro – aggiungo – che sperimentano, che sono ribelli al genere, e che diventeranno con ogni probabilità gay e lesbiche: “Dal punto di vista clinico sarebbe importante riuscire a discriminare prima dell’inizio della pubertà tra quei bambini che continueranno a manifestare disforia di genere (persisters) e quelli in cui invece la disforia di genere scomparirà (desisters), ma attualmente non è chiaro quando e come la disforia di genere in infanzia persista o desista in adolescenza e in età adulta”.

La “disforia di genere” significa infatti semplicemente non adattarsi alle prescrizioni sociali su come deve essere un maschio e su come deve essere una femmina. Ci rifletté Elena Gianini Belotti, e fece una straordinaria ricerca, Dalla parte delle bambine, sulla precocissima trasmissione del genere (cioè dei ruoli di genere) anche negli asili. In quegli anni ‘70 al genere si ribellarono le femministe, con i gay e le lesbiche. I trans invece generalmente vogliono incarnare gli stereotipi di genere. Sono liberissimi di farlo ma non di parlare di “identità di genere” come se fosse un criterio diagnostico per un intervento medico su persone non ancora formate, né fisicamente né psicologicamente.

La ginecologa Marina Cortesi a una presentazione milanese del mio lavoro, ha dichiarato che ciò su cui si basa la distinzione tra i minori veramente trans e quelli che poi accetteranno di essere maschi/femmine come in realtà sono, è che questi minori affermano che sono maschi o femmine in contrasto con la loro biologia, mentre gli altri semplicemente hanno solo comportamenti che la società non ritiene adeguati al loro sesso, e se interrogati sanno a quale sesso appartengono. Transmediawatch scrive che questa distinzione corrisponde alla differenza tra la quarta e la quinta versione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders): “potevano essere diagnosticati, con quello che allora veniva definito Disturbo dell’Identità di Genere nell’Infanzia anche quei bambin* con comportamenti di genere non normativi, senza che necessariamente ci fosse una identificazione di genere non concordante con il sesso/genere assegnato alla nascita”. Non è vero. L’identificazione con il sesso opposto c’era già nella IV edizione, e nella V è rimasto anche il “forte desiderio di appartenere all’altro genere” (sono criteri a cui ne vanno aggiunti altri). E poi adottare un nome maschile o femminile invece del proprio e dire di essere qualcosa che non si è sono cose che fanno anche le bambine e i bambini devianti rispetto agli stereotipi, che (se indisturbati) cresceranno per vivere vite normali etero, bi o omosessuali.

Transmediawatch nega che ci sia un contagio sociale: “fantomatica ‘Rapid Onset Gender Dysphoria’” contagio che è invece provato esista32. E purtroppo ci sono fenomeni di contagio anche per i suicidi di adolescenti attribuiti a disforia di genere: negli USA otto suicidi di adolescenti trans hanno seguito nell’arco di otto mesi il suicidio di Joshua “Leenah” Alcom nel 2014.

Scrivono anche addirittura che “non è detto che la persona smetta di essere trans solo perché detransiziona”. E poi: “I gruppi anti-trans fanno leva su questo malinteso per instillare l’idea che bambin*/adolescent* non siano in grado di sapere quali sono i loro reali bisogni”. Sono bambini: non sanno quali sono i loro reali bisogni nell’alimentazione, nel comportamento, nell’apprendimento. La mancanza di maturità è un sinonimo dell’essere bambini e adolescenti, mi pare. Quali sono i “bisogni” di una persona? Transizionare quando ancora non si è vissuto nel corpo che si pensa di rifiutare è diventato un “bisogno”?

Si noti poi che mettere in dubbio che etichettare un minore come trans e dargli o darle accesso a procedure che interferiscono con lo sviluppo fisiologico, sano del proprio corpo viene etichettato come essere “anti-trans”, ovvero contrari alla transizione in età adulta. Io sono tacciata di transfobia benché riconosca la facoltà di un adulto di accedere alle procedure della legge 164/1982.

Correttamente invece Transmediawatch scrive: “Una ricerca mondiale su adolescenti ha dimostrato che i ruoli di genere rigidi influenzano in negativo la salute e l’aspettativa di vita”. E allora perché ricondurre addirittura a un corpo sbagliato le giuste sperimentazioni nell’adolescenza di chi non obbedisce al ruolo di genere che gli o le viene prescritto?

Sui bloccanti della pubertà, Transmediawatch scrive che sono reversibili e non provocano “effetti collaterali”. Tranne naturalmente quello di interferire con i meccanismi fisiologici. “Evitano operazioni future” solo se si ritiene che queste sia già scritte nel destino dei presunti “minori trans”, sempre quelli che nessuno può distinguere dai futuri non trans. Ma se il mondo adulto li incoraggia in questa loro troppo precoce scelta, è certo che il loro destino sia segnato – salvo poi dover detransizionare. E questo è uno dei nodi del ragionamento di Transmediawatch, che deve sminuire il fenomeno delle detransizioni per spingere sull’acceleratore degli interventi sui “minori trans”.

Mettono in burletta i “rimpianti” (proprio così, tra virgolette) per la chirurgia di cambio di sesso – che invece addirittura spingono a detransizionare. Di questa condizione parla la ricerca di una “detransizionata” realizzata via web, che la giornalista di Panorama ha scelto di citare tra le altre fonti che le ho offerto: la Female transition and reidentification survey. Per Transmediawatch sarebbero tutti inventati questi questionari autocompilati in sole due settimane da 203 ragazze che hanno “transizionato” nell’adolescenza (età media 17 anni) per poi voler ritornare al proprio sesso (età media alla detransizione 21 anni). Quando si critica un lavoro altrui bisognerebbe anche capire perché è stato fatto: si tratta della costruzione di una comunità di donne cui l’ideologia da setta trans ha fatto molto, molto male. Se ne trovano altre testimonianze anche nel libro Female erasure, così come nei siti che il documento indica come “transfobici” solo perché non accettano il dogma che la transessualità sia radicata nella biologia, e conseguentemente esaminano (soprattutto nei loro figli, cui vogliono bene!) la possibilità che la “disforia di genere” sia espressione di altri problemi mentali o di omofobia e danno voce ai ricercatori che nei paesi di lingua inglese rischiano l’ostracismo e anche la perdita del lavoro36 se non si adeguano a questa nuova follia medica che prende l’aspetto di un movimento sociale.

Il copione è stato scritto, o per lo meno approvato e diffuso, dalle case farmaceutiche negli USA. Ne fanno parte le accuse, lasciate in inglese da Transmediawatch, di “misgendering e deadnaming” di cui non ci si sforza nemmeno di trovare l’equivalente italiano. Ci si affanna infatti a smentire che l’aumento delle vendite di testosterone abbia alcunché a che fare con le transizioni di giovani donne, che invece sono in forte aumento. Forse si fanno in casa gli ormoni artificiali necessari alla salute quando vengono asportate le gonadi? E questo documento che “rettifica” le presunte falsità messe in giro da Marocco e da me, dichiara enormità, ad esempio che gli ormoni cross-sex vengano somministrati solo per DUE ANNI dopo i 16 anni! È vero, come afferma il documento, che – fortunatamente – i numeri in percentuale di chi transiziona sono piccoli, ma lo stesso documento rivela che si tratterebbe di quasi centocinquantamila casi – sia maschi che femmine – solo negli USA. Ma forse bisogna dubitare anche di questo, perché un metodo della “rettifica” è lanciare cifre a caso per impressionare chi legge, come il fatto che la popolazione britannica minorenne sarebbe più della metà della popolazione totale: 34 milioni! Si nega che il percorso di transizione sia doloroso: le operazioni chirurgiche – a volte azzardate come la falloplastica – certo non lo sono affatto! Non c’è sofferenza psicologica nel pensare di “abitare” il corpo sbagliato! Tutti i problemi derivano dagli ostacoli “burocratici, giuridici, medici, sociali” alla realizzazione dell’idea di un minore che la soluzione ai suoi problemi sociali e psicologici sia la trasformazione chirurgica e ormonale del proprio corpo. Le “responsabilità sociali” per Transmediawatch non riguardano la costruzione sociale dei ruoli di genere, in cui non tutti i minori si riconoscono, e in particolare quelli che hanno inclinazioni omosessuali, ma solo il riconoscere tale qualità ai “minori trans”, e avviarli verso la modificazione medica dei loro corpi sani, come se non ci fosse alcuna alternativa: le terapie psicologiche e le attività fisiche volte a far star bene gli esseri umani nei propri corpi sono tacciate di essere “terapie di conversione”, proprio come quelle che vogliono invece modificare le pulsioni omosessuali!

Colpisce di questo documento il cinismo, le fatwe emanate allo scopo di stabilire dogmi inappellabili, come appunto l’esistenza di bambini trans, la violenza verbale – un inaudito precedente in decenni di attività della giornalista. La cosa più disgustosa è la violenza verbale rivolta contro le famiglie che sono giustamente preoccupate di scelte così precoci e tragiche dei loro figli. Transmediawatch le chiama “rigide, violente, giudicanti”, le paragona al Ku Klux Klan – quando all’opposto è chi disapprova i comportamenti poco virili dei propri figli maschi e poco femminili delle figlie femmine che spesso saluta con favore la soluzione del cambio di sesso, che fa rientrare i propri figli nella NORMALITÀ.

Mettiamoci d’accordo nel movimento LGBT: vogliamo rivendicare rispetto sociale per i “ruoli di genere fluidi”, o vogliamo normalizzare i devianti fin da bambini transizionandoli da un sesso all’altro quando non ancora sono nemmeno sviluppati? E vogliamo proprio farlo ricorrendo all’argomento manipolatorio del loro possibile suicidio, quando lo studio (e gli studi che vi si appoggiano) che pretende di dimostrare il benessere raggiunto da questi adolescenti o poco più, in realtà mostra che la morte è una prospettiva non così remota proprio in conseguenza delle così salvifiche operazioni chirurgiche di “rassegnazione del sesso”

Quanto a Transmediawatch, non perderò ulteriore tempo in futuro a confutare una fonte che si è dimostrata completamente priva di credibilità – e anche l’ONIG e le sue fonti non stanno tanto bene, né il centro “sul genere” di Amsterdam dove di transizione si muore, né quello della clinica Tavistock di Londra, di cui si invoca la chiusura.

https://www.autricidicivilta.com/dan...s-di-panorama/