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    Predefinito L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    Con gli accordi di Plombières stretti fra Cavour e Napoleone III nel 1858, il Regno di Sardegna promise la cessione di Nizza e della Savoia all'alleato francese in cambio del sostegno militare per la causa dell'annessione della Lombardia. La Seconda guerra d'indipendenza vide la vittoria franco-piemontese e fu siglato il Trattato di Torino del 24 marzo 1860, con cui venne formalizzata la cessione dei territori, seppur subordinata ad un plebiscito da tenersi poche settimane dopo.

    Non tutto il territorio della contea di Nizza venne ceduto però alla Francia: Vittorio Emanuele II si riservò la sovranità sulle alte valli della Vésubie, della Tinée e Roja (compresa Tenda e Briga Marittima), in quanto destinate a riserve di caccia reali. Il notevole avanzamento del confine sabaudo rispetto allo spartiacque fa invece supporre che le vere ragioni fossero militari. Il nuovo confine, che deviando dallo spartiacque della cresta del Mercantour rendeva militarmente poco difendibili per la Francia le vallate delle Alpi Marittime, sarebbe stato nuovamente adeguato alla linea di displuvio alpina in seguito alla sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale col Trattato di Parigi del 1947. Il Trattato di Torino venne reso pubblico il 30 marzo 1860 e suscitò la ferma opposizione di molti patrioti, primo tra tutti Giuseppe Garibaldi, che era nizzardo di nascita. Il plebiscito ebbe comunque luogo e servì ad ufficializzare la volontà degli abitanti di entrambi i territori a passare alla Francia. La correttezza dei risultati ufficiali è dubbia: le percentuali elevatissime a favore dell'unione alla Francia (99,8% nel Nizzardo con 11 voti contrari contro 6.910 favorevoli a Nizza e 99,3% in Savoia) paiono già di per sé esagerate ed assolutamente incongruenti con i dati linguistici della zona. Al termine del secondo conflitto mondiale si aprirono contenziosi tra vincitori e vinti, durante i quali i primi miravano a stroncare nel lungo periodo le velleità di riscossa dei secondi. I regimi nazisti e fascisti venivano liquidati da una coalizione che comprendeva due schieramenti di stati: il primo a ordinamento democratico-parlamentare e capitalistico ed il secondo raccolto attorno al sistema formalmente ispirato ai principi del comunismo marxista-leninista egemonizzato dall’Unione Sovietica.

    Entrambi gli schieramenti esprimevano interessi tradizionali di potenze che influenzavano sul piano mondiale sia le rispettive aree di sicurezza che quelle di espansione dei mercati, del controllo dei nodi strategici, delle geografie delle risorse, di sviluppo e delle zone vitali per gli equilibri internazionali. I vincitori esigevano riparazioni, imponevano taglie, si contendevano spoglie territoriali e predisponevano assoggettamenti politici ed economici lucrando al meglio i vantaggi della vittoria e cautelandosi da subito per i loro disegni futuri. I vinti, per quanto potevano, tentavano di contenere i danni, disputavano per assicurarsi quanto meno le basi della sopravvivenza e della ripresa, difendendo al massimo le proprie integrità statali e i propri patrimoni materiali, le loro classi dirigenti badavano a scegliersi le tutele nel campo dei vincitori.

    L’Italia era tra i vinti. La presunzione di “cobelligeranza”, malgrado l’avvento al governo dell’antifascismo, andava rapidamente svanendo alla prova dei fatti. La decorosa e accorata protesta dei protagonisti della Resistenza era troppo poco perché il paese ottenesse indulgenze e favori e, soprattutto, crediti incondizionati. L’Italia aveva giustamente perduto una guerra di aggressione sconsiderata, al termine di vent’anni di avventure politiche e militari di una dittatura delle improvvisazioni. Dalla sconfitta militare usciva non soltanto deprezzata per l’inettitudine dei suoi stati maggiori e dalla sua organizzazione di guerra, ma per l’evidente sudditanza all’alleato nazista, per le molte dimostrazioni di un ruolo subalterno costantemente ricoperto durante il conflitto, ruolo che lo stesso alleato non aveva mancato di rimarcare ogni qual volta ne avesse avuto l’opportunità. Pesava infine nelle classi dirigenti e nell’opinione pubblica dei paesi vincitori, il senso profondo di diffidenza per le ambiguità e le reticenze che avevano contrassegnato il passaggio dal fronte nazista a quello alleato.

    L’opinione pubblica italiana si illudeva che un oblio generalizzato avrebbe rapidamente coinvolto anche chi era stato ferito ed offeso dall’Italia fascista la quale era stata battuta nella sua ultima versione, la Repubblica Sociale di Salò. In linea di principio i conti presentati dagli Alleati erano salati ma nei loro progetti vi erano soccorsi per contenere parecchie passività addossate ai vinti, non potevano permettersi di compromettere l’avvenire di una nazione di 45 milioni di abitanti che occupava un settore strategico in Europa. Gli anglo-americani sapevano che le avrebbero affidato un ruolo di barriera verso l’emergere dei comunismi orientali, dall’altro lato l’URSS non aveva abbandonato l’idea di veder gravitare il paese nella propria area d’influenza grazie al Partito Comunista, che era stato egemone nella Resistenza, e dove le sinistre in genere possedevano robusti seguiti di masse.

    L’Italia doveva rinascere in qualche modo a democrazia protetta e a potenza di secondo piano nel blocco occidentale, ma per l’immediato nessuno poteva dimenticare le responsabilità dell’alleato nazista, i danni arrecati agli avversari, il cumulo di rancori, diffidenze, deprezzamenti che vent’anni di regime avevano scaricato sull’immagine della nazione. Inoltre l’estraneità e la contrarietà degli italiani verso le aggressioni belliche erano insufficienti a liberarli dall’aver tollerato un regime che aveva ottenuto consensi innegabili, specie durante la guerra in Etiopia del 1935.

    L’argomento più scottante delle pendenze da sanare a seguito della sconfitta concerneva le minacce di amputazioni di parti del territorio nazionale. A est, sul confine austriaco, la questione del Sud Tirolo con una compatta popolazione di ceppo tedesco e ladino, e sul confine jugoslavo, Trieste, la penisola istriana con forte popolamento slavo. A ovest, la Valle d’Aosta, francofona, le valli del Cuneese con relative propaggini verso il capoluogo e, soprattutto, la Valle Roja col Colle di Tenda e i centri di Briga Marittima, Tenda e San Dalmazzo di Tenda. Più che la vastità delle aree territoriali comprese in queste eventualità di scorpori, il problema riguardava le alterazioni gravi che ne sarebbero derivate ai sistemi difensivi dell’Italia sui fronti alpini, la perdita di risorse di base per l’economia nazionale come gli impianti idroelettrici della Valle Roja, la perdita di regioni legate alle ragioni medesime del primo conflitto mondiale come compimento del Risorgimento, infine i condizionamenti alle vie commerciali di primaria importanza. La questione della Venezia Giulia superava tutte le altre per drammaticità e asprezza, in quanto metteva a diretto confronto l’Italia con un regime comunista in una zona in cui la dittatura fascista si era particolarmente accanita con le minoranze slave. La vertenza per i confini occidentali non era altrettanto drammatica perché la Francia apparteneva al novero delle potenze occidentali. Nella Valle d’Aosta il fascismo aveva praticato una politica di negazione e umiliazione delle specificità linguistiche e culturali locali, spinte autonomistiche erano maturate con qualche tentativo annessionistico alla nazione vicina. Ma la valle non era stata teatro di violenti conflitti etnici, né le tendenze secessionistiche vi comparivano di tale entità da aiutare obiettivamente rivendicazioni straniere. Infine la Valle Roja nella quale erano assenti croniche spaccature delle comunità locali sui temi di appartenenza a una delle due nazioni. Tuttavia il fascismo vi aveva esercitato le usuali tecniche di amministrazione lenta e retoricamente nazionalistica, esercitando un severo controllo sui residenti francesi e mettendo in opera ogni vessazione per chi manifestava sentimenti “antinazionali”, mentre si disinteressava al livello complessivamente povero dell’economia della valle, non diversamente da quanto aveva fatto per l’intera economia dell’arco alpino cuneese.

    Al termine del conflitto la situazione alla frontiera occidentale era caratterizzata da una miscela di animosità e di irrigidimenti nazionalistico-localistici in cui la parte francese testimoniava attivamente la volontà di separazione del territorio dall’Italia in quanto era responsabile del conflitto e perciò chiamata a dare soddisfazione a quelle modifiche territoriali considerate irrinunciabili dalla Francia per la sicurezza dei propri confini. Inoltre, doveva corrispondere alle finalità di prestigio imposte dal trionfo gollista e pagare lo scotto di un astio profondo suscitato dall’aggressione a una nazione in procinto di cadere sotto i colpi di un nemico ben più possente e attrezzato (e quindi più rispettabile). La “pugnalata alle spalle” del giugno 1940 aveva scavato un solco arduo da colmare tra i due paesi. I francesi, non importa se arresisi al regime di Vichy, o impegnatisi nella resistenza di France Libre, non si ritenevano sconfitti dall’invasore italiano, autore di un maldestro e sleale attacco quando le sorti della Repubblica erano segnate. Questo sentimento comune univa cittadini di ogni ceto e di ogni orientamento politico.

    Il disegno punitivo di De Gaulle nei confronti dell’Italia era più drastico di quanto gli sarà dato di realizzare, coglieva i risultati di indignazioni e avversioni maturate durante la guerra e si combinava con le particolari sollecitazioni di una Francia di prima grandezza alla quale andava il diritto di cautelarsi su ogni fronte della propria integrità nazionale. Un atteggiamento tanto più rigido in quanto De Gaulle vedeva il suo paese circondato dalla ostilità degli anglo-americani, che miravano a disfarne l’impero coloniale, e inserito in uno schieramento occidentale non sufficientemente coeso e deciso per fronteggiare la minaccia sovietica.

    Nella visione del generale, l’Italia era poco più che un residuato bellico malconcio, disgraziatamente collocato in una posizione geografica strategica per parare eventuali tentativi di infiltrazione della macchina da guerra sovietica verso la Francia. Questo punto costituiva la ragione essenziale dell’irrigidimento gollista sulla questione di Briga e Tenda e non nell’ipotetica futura aggressione italiana. Più in generale egli persisteva nell’idea di allargare l’area di protezione strategica sul fianco occidentale, indifferente alle gravi anomalie che sarebbero derivate sul piano politico dell’occupazione francese di porzioni di territorio italiano, compresa l’intenzione di sottrarre al paese vicino risorse industriali rilevanti, come nel caso delle centrali idroelettriche della Valle Roja. Di fronte a questa Francia determinata, e munita di parecchi buoni motivi per rivalersi sull’aggressore del 1940, l’Italia del 1945 possedeva pochi appigli utili a sventare i rischi di passività onerose al momento della stipula del Trattato di pace e non seppe sfruttarli al meglio. Mentre per la Valle d’Aosta si profilava la contrarietà degli Alleati a concedere a De Gaulle l’acquisto territoriale, anche per la presenza di forze autonomistiche che non aspiravano alla secessione, per la zona di Briga e Tenda, entrate subito per effetto delle operazioni militari sotto il pieno controllo di France Libre, faceva riscontro la totale mancanza di iniziativa politica. Le deboli opposizioni all’annessione francese si scontravano con la veemenza della campagna anti-italiana conseguente all’occupazione delle forze armate regie nel 1940. I sentimenti antitaliani erano determinati anche dalle offensive parole d’ordine fasciste per il distacco dalla Francia di Nizza (e Savoia, Corsica e Tunisia), dalle sfacciate intromissioni delle organizzazioni del regime per “fascistizzare” gli emigrati e contrastare l’attività degli esuli antifascisti. Infine la ricca fascia costiera nizzarda era da sempre il centro di attrazione e referente commerciale di brigaschi e tendaschi.

    Il luogo dove nascono e si sviluppano le iniziative annessionistiche per il settore delle Alpi Marittime è Nizza. L’azione nasce spontanea dal basso fra l’inverno 1942 e l’autunno 1944, gli animatori sono tutti cittadini francesi, per nascita o per naturalizzazione, soltanto in un secondo tempo ricade sotto il controllo e la direzione dell’autorità di governo, civile e militare. Il medico Vincent Paschetta, presidente del Club Alpino delle Alpi Marittime nel novembre 1942 era riuscito a far inoltrare ad Algeri, al governo provvisorio della Repubblica ivi insediato, una nota illustrativa dei problemi delle alte valli della Vésubie e della Tinée, occupate dagli italiani, in quanto – scriverà in seguito - “ciò ci sembrava tanto più importante in quanto l’Italia rischiava di mutare presto o tardi campo”.

    Paschetta lavorava contemporaneamente alla costituzione di un gruppo armato clandestino in grado, non appena se ne fosse presentata l’opportunità, di intervenire con atti dimostrativi contro gli occupanti e di assicurare l’amministrazione dell’ordine pubblico sotto la bandiera francese. Egli teneva nel dovuto conto il rapporto con la Resistenza italiana e non era offuscato da indiscriminati rancori antitaliani, tendeva, come tutti gli annessionisti, a creare “fatti compiuti” di cui si sarebbe dovuto tenere presente il significato nelle trattative internazionali. Il 15 settembre 1944, dopo la liberazione della Francia, nella sede del Club Alpino di Nizza, Paschetta aveva radunato le municipalità degli enti locali interessati e da quella assemblea era sorto il Comité de rectification de la frontiére franco-italienne des Vallées de la Vésubie e de la Tinée. Lo stesso giorno si erano presentati Aimable Gastand e Antonio Pastorelli, membri di un gruppo di originari di Tenda e Briga inviati dalla direzione del giornale nizzardo “Combat”, strenuo assertore delle annessioni, che lo avevano messo al corrente delle finalità del loro raggruppamento che prevedeva l’annessione alla Francia di tutta la Valle Roja. Paschetta rimase perplesso da questa ipotesi e temeva che questa rivendicazione potesse pregiudicare la questione locale, per questo motivo tre giorni dopo, il nucleo di Tenda e Briga si costituì in Comité autonomo sotto la presidenza del brigasco Charles Fenoglio, annunziando di far stampare dei bollettini contenenti la rivendicazione del passaggio alla Francia dei due comuni e farli sottoscrivere da tutti gli originari di quelle località. I due comitati continuarono autonomamente la loro attività avendo sempre rapporti molto amichevoli. Paschetta aveva creato tutte le condizioni perché il problema annessioni nella versione “attivistica” sostenuta dai Comités arrivasse alle istanze governative, tanto che l’intera pratica era passata sotto il controllo dei servizi segreti celati sotto la sigla DGER (Direction générale des études et recherches). Nel dicembre 1944, infatti il coordinamento dei Comités era passato sotto la responsabilità del Prefetto di Nizza e i Comités stessi avevano assunto il loro assetto definitivo nel Comité de études des frontières. Nel febbraio 1945 una missione del Comité per Tenda e Briga composto da Fenoglio e Aubert, venne ricevuta da De Gaulle, dal quale ebbe tre indicazioni confidenziali importanti: la prima, l’obbligo di osservare la massima discrezione sulle attività e sulle manifestazioni dei Comités, per non suscitare reazioni da parte anglo-americana e italiana; la seconda, che le truppe americane sarebbero state sostituite da una divisione francese “di sicuri sentimenti” in questo modo non sarebbe più stata questione di giocare d’astuzia con gli Alleati al fine di arrivare per primi a Tenda e Briga e issarvi il tricolore francese; la terza, che sarebbe giunto in zona un ufficiale della DGER incaricato di una missione per condurre a buon fine le rivendicazioni e ai cui ordini dovevano porsi tutti i membri delle organizzazioni annessionistiche.

    Nell’aprile 1945 la 1° Division di France Libre sostituiva le unità americane sulla linea di confine. Il 25 aprile i tedeschi abbandonavano la Valle Roja, facendo saltare i ponti di Tenda e Vievola, che veniva occupata dalle truppe golliste. I difetti del corpo militare erano evidenti: scarsamente amalgamato, visibilmente inferiore agli alleati anglo-americani nella disponibilità di mezzi, pervaso per molta parte da animosità e disprezzi che erano alimentati a dismisura, soprattutto tra ufficiali e sottufficiali, dalla pedagogia gollista. Superbia militaresca e surriscaldamento nazionalista del Comité de rattachement si univano a provocare le reazioni anglo-americane e a fornire esca all’antiannessionismo italiano più animoso. A Tenda il colonnello alsaziano Wirdespach dopo l’ingresso in città dei suoi “tirailleurs” algerini, il 26 aprile, aveva immediatamente ordinato il disarmo e lo sgombero dei partigiani e il ritiro della bandiera italiana dagli edifici pubblici. Il 27 una pattuglia francese aveva raggiunto Briga, accolta dai partigiani, subito emarginati, e il giorno dopo i tirailleurs avevano preso possesso della cittadina e la bandiera italiana strappata dal monumento ai caduti. La centrale di San Dalmazzo di Tenda era stata sequestrata e l’energia convogliata verso la riviera francese, il direttore della centrale, ingegner Bosis, arrestato e inviato al domicilio coatto a Nizza, le comunicazioni con Genova interrotte in modo che le industrie liguri non potessero più usufruirne. Il 29, i membri del Comité, capeggiati da Charles Fenoglio, si erano presentati all’abitazione del sindaco italiano di Tenda, Dalmasso, dichiarandogli la decadenza del proprio incarico, veniva occupato il municipio e licenziati il segretario comunale e gli impiegati non reputati di simpatie filo-francesi. Si apriva un periodo di intensissimi battages propagandistici e di atti platealmente volti a rendere ufficiale e irreversibile l’annessione dell’Alta Roja, con cerimonie, diffusione di ritratti di De Gaulle e concrete disposizioni liquidatorie dell’amministrazione italiana: invito ai dipendenti della precedente a optare per la Francia o ad andarsene, chiusura delle scuole e degli asili, proibizione della lingua, coprifuoco nei centri abitati, mutamento dei nomi delle strade. Il 30 aprile veniva iniziato il cambio della valuta italiana in franchi al 50% del valore e quindi alla pari fino a 3.000 lire ogni adulto e a 1.000 lire per i minori di 18 anni; venivano attuati provvedimenti di favore, soprattutto nel settore alimentare, dove la distribuzione delle razioni avveniva per quote superiori a quelle in vigore nel resto del paese, stendendo contemporaneamente sbarramenti verso il territorio italiano in modo da impedire contatti e infiltrazioni.

    Gli obiettivi centrali dell’attivismo annessionista erano da un lato, infondere nelle popolazioni la persuasione che il passaggio alla Francia era cosa fatta, dall’altro, forzare gli angloamericani a prendere atto di fatti irrevocabili. Ciò denotava nel gollismo nazionalista la sopravvalutazione dell’impatto politico della condotta adottata e il sostanziale scarso rispetto per i diritti delle autodecisioni popolari e delle regole della democrazia. La soluzione della vertenza, che doveva trovare un verdetto in sede internazionale con strumenti diplomatici, offriva appigli alle proteste italiane presso gli Alleati e alla sempre più vigile irritazione del più potente, l’americano.

    Dopo l’occupazione francese di Ventimiglia si era insediata una Giunta municipale di filo-francesi con a capo un sindaco, il dottor Gibelli. Il CLN era stato costretto a trasferirsi a Sanremo. Un gruppo di propagandisti dell’annessione aveva preso a tappezzare strade ed edifici della città e dei paesi dell’entroterra di bandiere e manifesti inneggianti alla Francia, si era riversato nei comuni a sollecitare pronunciamenti annessionistici alternando promesse e minacce e sistemando alla testa delle amministrazioni elementi di propria fiducia. La campagna era diretta dal Comité d’action pour le rattachement à la Comté de Nice presieduto da Hilaire Lorenzi. Una serie di sottocomitati risulteranno costituiti nei comuni di Dolceacqua, Isolabona, Pigna, Camporosso, Rocchetta Nervina, Buggio, Soldano, Vallecrosia, Airole-Olivetta e Ventimiglia, per complessivi– secondo i computi del Lorenzi rimessi al comando del generale Doyen, comandante l'Armée des Alpes, in settembre– 2.848 membri dei quali il 40% di nazionalità francese (il Comité vantava anche delegazioni in località della riviera francese e del Principato di Monaco). Presidente onorario del Comité era designato il tenente colonnello Romanetti, già ispettore delle ferrovie francesi allo scalo di Ventimiglia per più di un decennio prima del conflitto del 1940 e, con l’occupazione della città, rappresentante dell’autorità militare francese nonché deux ex machina riconosciuto del movimento di annessione. Romanetti e gli attivisti del Comité operavano di conserva (sotto spinta diretta dalla DGER) nel promuovere referendum popolari a favore della Francia durante l’occupazione francese e tra il gennaio e il febbraio 1946. Il Comité era arrivato a distribuire carte d’identità speciali confezionate per gli annessionisti. L’obiettivo primario consisteva nel dimostrare la spontaneità delle adesioni popolari alle parole d’ordine annessionistiche, traendo in inganno le stesse autorità prefettizie francesi sui successi ottenuti. Alla contropropaganda italiana, per lo più sporadica, che negava radicalmente l’ondata filo-francese, facevano riscontro i rapporti dei carabinieri che le attribuivano una più che reale consistenza, imputando all’annessionismo la mancanza di coscienza nazionale e a opportunismo politico. Lo stesso Romanetti non si faceva illusioni, rivolgendosi al generale Doyen il 25 luglio commentava che “i francesi erano rimpianti per lo più per i vantaggi che erano accordati e che i nuovi amministratori non erano in grado di mantenere. La maggioranza della popolazione tiene conto soltanto dei propri interessi e sono convinti che la ricostruzione per opera dei francesi sia più rapida e meno onerosa per loro”.

    Una frazione importante della popolazione di Tenda e Briga era manifestamente favorevole alla Francia, l’altra oscillava tra i contendenti. In seguito quando gli italiani ripresero temporaneamente il controllo del territorio conteso, ritorsioni e angherie non si sarebbero fatte attendere, sconfessando l’insostenibile tesi dell’unanimismo. Ai primi di maggio, i rapporti tra anglo-americani e francesi relativi alla situazione provocata dalle forze golliste nelle zone occupate del Piemonte, subirono un nuovo inasprimento. L’insediamento del AMG in ogni parte del paese, che prevedeva la sostituzione dei francesi là dove avevano collocato i propri presidi, si scontrò coi rifiuti dello Stato Maggiore di De Gaulle di abbandonare le posizioni. Già in precedenza gli Alleati li avevano bloccati minacciandoli di privarli dei rifornimenti da cui dipendevano, anche in questa occasione i francesi risposero negativamente, arrivando a prospettare gravi conseguenze qualora si fosse insistito nell’ingiunzione.

    Contemporaneamente le tensioni tra francesi e partigiani italiani avevano raggiunto un punto critico: osteggiati dai comandi gollisti, reagivano alle prevaricazioni, al tentativo di disarmo. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno il generale Doyen dichiarava al IV° Corpo d’Armata a Milano di essere in possesso di un ordine specifico dello Stato Maggiore Generale di Juin e di istruzioni emanate da De Gaulle in persona. La questione salì alla Casa Bianca e il presidente Truman inviò un messaggio personale al leader francese avvertendolo che in mancanza del ritiro delle truppe, gli Stati Uniti avrebbero bloccato tutti i rifornimenti alle unità francesi. La trattativa si svolse a Caserta e si concluse con l’intesa firmata l’11 giugno col ritiro graduale delle truppe francesi. L’obiettivo era di dare l’impressione di un “rimpiazzo” e non di un “ritiro”, tenendo a ridosso delle zone abbandonate sufficienti unità pronte ad un ritorno definitivo. Le date erano fissate: 25 giugno la Valle Stura e la Valle d’Aosta, 1° luglio la Valle Susa, il 10 luglio Briga, Tenda e Ventimiglia.

    Il ritorno delle zone occupate della Alta Roja all’Italia non determinò nella zona miglioramenti maggiori rispetto a quanti ne avrebbe ottenuto con l’assunzione di poteri da parte di un qualsiasi ufficio dell’AMG. Per Ventimiglia e la Valle Nervia, dove l’azione del Comité locale aveva avuto scarsa presa, la partenza dei francesi avrebbe coinciso con una rapida caduta dei sussulti annessionistici. A Tenda e a Briga l’amministrazione italiana avrebbe incontrato l’avversione filo-francese numericamente non marginale e ostacoli oggettivi nell’avviare provvedimenti e garanzie di immediato e più ampio respiro. La memoria delle incurie del passato e degli oneri costati alla comunità si sarebbe ripresentata con l’Italia, paese sconfitto, povero e sotto processo internazionale, che stentava a ricomporre le proprie strutture decisionali, che contava in larga misura sul vecchio apparato burocratico. Il governo italiano era stato quasi completamente fuori dal contenzioso franco-anglo-americano, concernente le zone occupate dai gollisti. Un progetto di alto profilo per autonomie locali e franchigie, eventualmente spinto fino a prefigurare una zona franca, avrebbe messo in difficoltà l’annessionismo più radicale. Ma non esisteva niente di simile: l’anti-annessionismo giudicava la proposta come l’anticamera della legalizzazione del contrabbando.

    Il progetto di una zona franca denominata Intemelia (dall’antica popolazione dei Liguri Intemeli), a cuscinetto tra Italia e Francia, senza perdita di sovranità dei due paesi sui territori compresi nella zona stessa, era nato sullo sfondo del sospeso intermezzo tra la fine dell’occupazione francese e il ritorno della sovranità italiana contestatissimo dai francesi quanto ipotecato da un verdetto delle potenze vincitrici ancora da pronunciare. Ideatore del progetto era stato il farmacista ventimigliese dottor Emilio Azaretti, studioso del dialetto locale, di idealità federaliste, al quale era riuscito di raccogliere attorno alla piattaforma della zona franca un consenso politico che, nella prima fase dell’iniziativa, raggruppava elementi di vario orientamento ideologico, dai socialisti ai comunisti al Partito d’Azione ma che in seguito si dissociarono definendo l’idea priva di connessione con la realtà storica e senza prospettive di realizzazione. La zona franca immaginata da Azaretti e dai suoi amici mirava a ricostituire l’unità economica della Valle Roja con lo spostamento dei confini doganali dei due paesi da ambo i lati delle montagne. All’interno di questi comprensori di confine vi sarebbe stata libera circolazione delle merci, la produzione locale si sarebbe potuta esportare nelle due direzioni di Italia e Francia secondo contingenti stabiliti da un apposita commissione mista, i due paesi avrebbero avuto facoltà di consentire permessi temporanei di esportazione verso la zona franca. I controlli di passaporti e doganali sarebbero avvenuti ai limiti della zona, la carta d’identità sarebbe stata sufficiente ai sudditi italiani e francesi e stranieri residenti entro e fuori i limiti della zona stessa per il transito nei due sensi. Azaretti e il suo gruppo avevano istituzionalizzato il movimento creando l’Unione Democratica Federalista della Liguria Intemelia (UDF) e conferivano alla loro iniziativa il profilo di un’intesa superpartitica animata dal desiderio di appianare ogni diatriba nazionalistica tra Italia e Francia e di lavorare a una comunanza pacifica e fruttuosa di scambi. Il progetto nasceva nel contesto di forti rivendicazioni autonomistiche, frutto della trascuratezza dello Stato per gli interessi locali, ma lasciava trasparire elementi di particolarismo esacerbato, accostamenti storici discutibili se assunti a comprova di rivendicazioni da collocarsi in realtà storico- politiche profondamente differenti, tuttavia non rinunciava alla matrice nazionale richiamandosi agli ideali dell’antifascismo e del federalismo della tradizione risorgimentale. Un memoriale era stato indirizzato ai governi dell’Italia, della Francia e delle Nazioni Unite alla metà di agosto.

    Le accoglienze che aveva ricevuto erano state immediatamente negative da parte di tutti gli schieramenti. Contrari gli annessionisti del Comité che vi scorgevano un subdolo ripiego per sfuggire al passaggio sotto sovranità francese da parte di persone interessate all’esistenza di una zona di contrabbando. Contrari i filo-italiani che subodoravano un tranello filo-francese per depauperare il Piemonte delle sue risorse più importanti a vantaggio dell’economia oltralpe. Contrario il governo italiano che preferì non cercare il confronto diretto con la diplomazia gollista, convinto che i francesi stessero allentando la presa sulla rivendicazione della Valle Roja che il Dipartimento di Stato americano fosse orientato incondizionatamente alla causa italiana.


    Tuttavia l’appello federalista dell’UDF aveva ottenuto l’adesione di una trentina di comuni del l’Alta e Bassa Roja, di Mentone, Roquebrune e Moulinet sul litorale nizzardo, e il giornale del movimento, “La Voce Intemelia”, si diffondeva nelle zone interessate, tra l’altro distinguendosi per la pacatezza dei ragionamenti e l’accortezza dei messaggi di fraternità italo-francese in mezzo ai fogli incattiviti del nazionalismo e ai rimpalli di accuse velenose sui rispettivi metodi d’azione delle autorità dei due paesi.


    La soluzione della zona franca non è sicuro che fosse condivisa alla lettera da una parte degli amministratori che l’accettarono, persisteva l’incertezza sul futuro, che dipendeva da poteri remoti. L’extrema ratio avrebbe spinto i filo-italiani a ricorrere alla zona franca là dove la pressione annessionistica e la valutazione delle debolezze del governo centrale delineavano prospettive di sconfitta


    Una Commissione interalleata, composta da Inglesi, Russi, Americani e Francesi visitò Tenda e Briga dal 1° al 3 maggio 1946, interrogando la gente, ispezionando le centrali ed interpellando gli amministratori locali. Il suo scopo era quello di accertare l’opportunità del passaggio dell’alta valle alla Francia. Il responso della Commissione tenderà a mettere in rilievo le ragioni dell’uno e dell’altro paese, senza indicare una soluzione definitiva. Il 10 febbraio 1947 a Parigi viene firmato il Trattato di Pace tra Francia ed Italia. Le modifiche di frontiera sono definite nelle loro grandi linee e vengono delegate due Commissioni Miste, a procedere alle variazioni con misurazioni sul campo. Nella prima metà di settembre 1947 lasciano Tenda e Briga: impiegati postali, funzionari delle centrali elettriche, ferrovieri, insieme a coloro che non volevano o non potevano assumere la cittadinanza francese. Il 16 settembre è il giorno del Rattachement, ovvero la data in cui Tenda e Briga vengono consegnate alla Francia. Poco prima i carabinieri avevano abbandonato i due paesi, salutati da fischi e schiamazzi. Il giorno successivo è un giorno di festa, all’insegna di discorsi, parate militari, danze in costume. Chiusi in casa, per paura di rappresaglie, i contrari all’annessione. Il 12 ottobre 1947 in osservanza dei dispositivi costituzionali, la Francia indice un plebiscito, ove i cittadini di Tenda e Briga devono esprimersi in merito all’annessione. Il risultato è nettamente a favore del Rattachement: a Tenda su 790 votanti, 759 votano per la Francia e solo 26 contro l'annessione; a Briga su 1.538 votanti, 1.445 votano per la Francia e solo 76 contro l'annessione.

  2. #2
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    Predefinito Re: L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    @Jerome tu che sei ligure, che ne pensi?

  3. #3
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    Predefinito Re: L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    Francesi ladri

  4. #4
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    Predefinito Re: L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    però noi ci eravamo presi provenza e corsica nel 1942. diciamo che si sono vendicati

  5. #5
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    Predefinito Re: L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    Citazione Originariamente Scritto da massena Visualizza Messaggio
    però noi ci eravamo presi provenza e corsica nel 1942. diciamo che si sono vendicati
    No, non sono mai state annesse al Regno d'Italia né alla RSI. Solo occupate.
    Nel diritto internazionale ciò rappresenta una differenza fondamentale.


  6. #6
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    Predefinito Re: L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    Citazione Originariamente Scritto da Ivan Visualizza Messaggio
    No, non sono mai state annesse al Regno d'Italia né alla RSI. Solo occupate.
    Nel diritto internazionale ciò rappresenta una differenza fondamentale.

    vabbé che a guerra vinta il confine sarebbe cambiato a favore dell'Italia era scontato, a Mentone si provò anche a fare un'opera di italianizzazione. Ma cambia poco, in realtà considerando la viltà dell'attacco fascista alla Francia, su quel confine non ci è andata nemmeno malaccio.

  7. #7
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    Predefinito Re: L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    Viva Tenda e Briga italiana.

  8. #8
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    Predefinito Re: L'annessione di Tenda e Briga alla Francia (1945-1947)

    Citazione Originariamente Scritto da scomunista Visualizza Messaggio
    Viva Tenda e Briga italiana.
    Stanno soffrendo l'esondazione della Roia e dei suoi affluenti

 

 

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